Recensione: Let There Be Sin

E così, anche l’India sta diventando una fucina di band dedite al metal, dimostrando che le sue terre non fanno più parte del cosiddetto Terzo Mondo. Fra queste band ci sono gli Eternal Returns, invero attivi dal 2009 ma autori di due soli full-length, di cui l’ultimo, “Let There Be Sin“, è l’oggetto della presente disamina.
Partiti come thrasher, essi a poco a poco si sono evoluti (o involuti, dipende dai gusti) in direzione di una sorta di melodic death metal dalle caratteristiche piuttosto interessanti. Le quali, infatti, delineano uno stile che prende ancora spunto dagli antichi dettami ma che si ramifica in un qualcosa di più complesso, si direbbe addirittura ardito. Lontano da quello che s’intende per il death melodico ortodosso, per sottolineare meglio il concetto.
Qua e là, difatti, echeggia qualche nota del folklore natìo e, anche, dei richiami all’hip-hop, vedasi “Lust“. Un po’ come accade per i connazionali Bloodywood, insomma. Frammistioni di generi e sottogeneri anche totalmente diversi gli uni dagli altri, annodati al filo conduttore che lega assieme il tutto. Che è death metal sì, ma nella sua versione più melodica.
Narendra Patel e Harsh Makwana, le due voci, la prima quella principale, sono i tratti somatici che connotano con più evidenza l’appartenenza al metal estremo. Il growling è duro, possente, decisamente aggressivo, che si sovrappone e pure s’interseca con harsh vocals assai aspre, acide. Non mancano, però, numerosi chorus affrontati con voce pulita, ben intonata e per nulla dal sapore dilettantesco anzi.
Un altro ingranaggio, importante, del meccanismo sonoro, sono le scudisciate a forza di blast-beats che piovono come grandine dai chicchi abnormi sulla collottola (“Pride“). Il ricorso alla super-velocità del drumming non è tuttavia una costante del disco, anche se sono presenti i leggendari up-tempo dal sapore fortemente thrashy (“Sloth“). A tal proposito si può notare un’ottima produzione per ciò che concerne il suono della chitarra ritmica. Secco, roccioso, compresso dalla sempiterna tecnica del palm-muting, consente di godere appieno degli intrecci dei riff, non particolarmente complicati ma molto efficaci per l’obiettivo preposto, che è la realizzazione di un’opera massiccia, pesante, nondimeno irreprensibilmente leggibile.
Detto questo, non si può non evidenziare con colori brillanti il talento compositivo posseduto dai Nostri, che consente loro di dar vita a canzoni – peccato siano solo nove di cui una è l’intro – davvero riuscite in ogni segmento/parte, soprattutto per quanto riguarda il cozzo fra la furia degli elementi quando si spinge sull’acceleratore (“Emasculator“) e la delicatezza di armonie persino celestiali (“Wrath“, “Greed“).
La varietà non manca, per cui il tedio è tenuto a debita distanza dai ritornelli esplosivi che marchiano a fuoco ciascun brano. Ai primi ascolti il l’insieme dei brani stessi potrebbe apparire troppo discontinuo, nel senso che potrebbe emergere troppo stacco fra brutalità e dolcezza. Una sensazione che sparisce a mano a mano che si proseguono i passaggi del platter nel cervello, diventando, anzi, il vero carattere distintivo del trio di Mumbai. La capacità, in pratica, di cogliere l’attimo fuggente di quando qualcosa di invisibile (la musica) si tramuta in scrittura (le note).
Un approccio sostanzialmente istintivo e poco razionale al songwriting, in grado di tirar fuori nientepopodimeno hit da tormentone mentale come la bellissima “Wrath” (sic!). Song leggiadra che avvolge, sempre e comunque con fermezza, le membrane timpaniche con le sue vincenti, caleidoscopiche simmetrie fra le personalità anzidette.
“Let There Be Sin” è un lavoro di metal oltranzista che può piacere a tutti, data la sua intrinseca orecchiabilità, lunghi da essere stucchevole. Gli Eternal Returns paiono aver trovato la propria via Maestra che, si spera, porti ad altre occasioni d’incontro.
Daniele “dani66” D’Adamo