Progressive

Dream Theater Last Songs: il primo decennio (1985-1995)

Di Roberto Gelmi - 2 Ottobre 2025 - 12:48
Dream Theater Last Songs: il primo decennio (1985-1995)

Quella che segue è la storia dei Dream Theater, arrivati, come gli Helloween, al notevole traguardo dei quattro decenni di vita, ma la racconteremo da un’angolazione diversa dal solito. Si è pensato di rileggere quanto proposto dei newyorchesi rispettando l’ordine cronologico delle loro uscite discografiche (incluso il recente Parasomnia), prendendo però in considerazione l’ultimo brano dei dischi che abbiamo collezionato con costanza e dedizione. Sono spesso suite dal minutaggio notevole e dei grandi classici della band, ma trovano spazio anche ballad e chicche varie, anche in sede live. Ci auguriamo che questo articolo possa strapparvi un sorriso e un po’ di nostalgia, tra fan del gruppo capitanato dalla magica coppia PetrucciPortnoy.

Anni Ottanta e Novanta

Il gruppo nasce nel fermento della Grande Mela nel pieno degli anni Ottanta. John Petrucci (nipote di nonni italiani e figlio di un programmatore di computer), vive in una famiglia che ama la musica (la sorella maggiore suona l’organo); John Myung (figlio di un’infermiera di origini coreane) è fan di Iron Maiden e Judas Priest, ma inizialmente studia violino; Kevin Moore spazia da Rick Wakeman e Chick Corea a Jens Johansson; infine il maniaco del controllo Mike Portnoy (di ascendenza ebraica e già in forze a band effimere come Intruder, Rising Power, Inner Sanctum) respira musica come l’aria grazie al padre DJ che gli fa ascoltare The Beatles e Rolling Stones quando è ancora in fasce.

L’incontro tra Petrucci e Portnoy che porta il quartetto a creare una band avviene a metà presso il Berklee College of Music di Boston. Di lì in avanti il sodalizio stretto dai quattro musicisti li condurrà alla conquista dei palchi di tutto il mondo…

Abbiamo citato il chitarrista e il batterista storico dei DT, ma il primo brano della nostra retrospettiva ha testi scritti dall’altro deus ex machina della band a stelle e strisce nei suoi anni di gloria. Parliamo ovviamente del tastierista Kevin Moore, l’anima colta e poetica della formazione ai suoi esordi. Per chi non lo sapesse, il suo apporto nel dare una prima identità ai DT è stato determinate: è lui a proporre il logo Majesty (primo nome della band) con il monogramma di Maria Stuarda e a sua firma è anche l’unica vera hit dei DT, “Pull Me Under”, opener di Images and words e del Best of del 2007.

Ma torniamo alla fine degli anni Ottanta: i nostri baldi giovani sono pronti a registrare il loro primo full-length, When day and dream unite, con budget ridotto e tutti i limiti immaginabili vista la condizione di esordienti. Parliamo di quattro ventenni affiancati dal cantante Charlie Dominici (classe 1951) che si mettono in gioco puntando tutto sulla loro passione totalizzante per la musica, fatta di ore infinite di prove, perfezionismo e maniacalità, primi concerti live per farsi conoscere e voglia di emergere nel mare magnum della musica rock e metal quando è ancora al suo apice.

I numi tutelari della band sono nomi come Metallica, Iron Maiden, Queensrÿche, Fates Warning, ma anche classici come Rush, Yes, Genesis, Pink Floyd. Il loro intento è quello di fondere il sound di Master of Puppets e Operation Mindcrime con l’uso dei tempi dispari e l’approccio pomposo dei grandi del progressive inglese. È così che nascono pezzi che ancora oggi riscuotono entusiasmo dal vivo come “A fortune in lies”, “Afterlife”, l’immancabile strumentale “The Ytse Jam”…  Tanta creatività e tecnica già da manuale, insomma, peccato per la produzione e il range vocale di Dominici (che non è quello di Geoff Tate).

Non tutti lo ricordano, ma WDADU si chiude in modo sontuoso con “Only a matter of time”, con il suo iconico intro di tastiera, gli unisoni MoorePetrucci, il drumming quadrato di Portnoy e il basso pulsante di Myung. Tutto trasuda energia e freschezza, si è ancora sull’onda lunga dei radiosi anni Ottanta e la speranza di farcela è la ragione di vita di una band che vuole dir qualcosa di nuovo. I testi di Moore, non a caso, riflettono sulle contraddizioni del music business che vede inevitabilmente lo scontro tra lucro e arte.

Quello che colpisce è anche il fatto che la composizione riesca a incarnare l’atmosfera da brano di chiusura, quel quid ineffabile che i DT sapranno sfruttare anche in altri dischi. Di seguito proponiamo la versione del Budokan, ma lasciateci ricordare anche la versione proposta al Forum di Assago nel febbraio 2004, una delle migliori date in Italia del Teatro del sogno (con tanto di cover di Hallowed be thy name dei Maiden in scaletta).

Though the time will come when dream and day unite
tonight the only consolation causing him to fight
is fearless faith in destiny

https://www.youtube.com/watch?v=VMvfcFAAfgs

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★☆☆ ★★★★☆ ★★★☆☆ ★★☆☆☆

 

Gli anni che vanno dal 1989 al 1992 sono tra i più complicati per i Dream Theater. Il disco di debutto non ha il successo sperato, la formazione non trova la giusta quadratura del cerchio per fare il salto di qualità sperato; si cerca un cantante con un range più esteso, ma prima di arrivare a Kevin James LaBrie (Winter Rose) passano mesi preziosi, dopo i quali tuttavia riescono nell’impresa di creare il loro capolavoro assoluto.

Va detto senza giri di parole, se non avessero dato alle stampe il capolavoro a nome Images and Words molto probabilmente i DT non avrebbero avuto il successo internazionale che li ha portati a essere i capostipiti del progressive metal e che oggi li vede proporre un tour mondiale in tre parti con l’ennesimo grande riscontro di pubblico.

Riporto un aneddoto che rende l’idea di megalomania della band durante le sessioni di registrazioni del loro secondo studio album (lo trovate nella biografia della band a firma di Rich Wilson). Strappato un contratto con l’ATCO (facente capo alla Warner), la band di Petrucci lavora con il produttore David Prater e ottiene l’affitto dei BearTracks Studios (costo 2500 dollari al giorno!). Kevin Moore spende circa 20.000 dollari per la strumentazione (incluso un pianoforte a coda di tre metri) e impiega 18 giorni per registrare le sue parti nel modo più certosino possibile.

Questo ci fa capire la meticolosità e l’attenzione che ha contraddistinto la nascita di Images and Words. L’album non ha punti deboli e tutti noi abbiamo in mente la delicatezza delle note di piano in “Waiting for sleep”: lo stesso motivo ritorna, ma in forma spezzata e nervosa, durante “Learning To Live”. Questa è la canzone che chiude il capolavoro del 1992, per molti il primo vero album prog metal mai scritto. Parliamo di una composizione leggendaria, ancora oggi coverizzata da schiere di emuli dei DT, molto probabilmente perché racchiude in sé tutta la classe, l’eclettismo e la maestria del gruppo newyorchese. È sempre Moore alle tastiere ad aprire le danze, i tempi dispari si sprecano, le liriche sono di rara poesia e raccontano la piaga dell’epidemia di AIDS di fine anni Ottanta. John Myung, autore dei testi, ricorda come stessero finendo i comporre il pezzo quando appresero della morte di Freddie Mercury

Se dovessimo scegliere una manciata dei migliori brani targati DT, “Learning to live” potremmo collocarla tranquillamente nella cinquina finalista, complice una prova vocale strepitosa di LaBrie e la sezione di chitarra acustica con un Petrucci ispiratissimo.

I need to live life
Like some people never will
So find me kindness
Find me beauty
Find me truth

https://www.youtube.com/watch?v=XxAZT8IJD9w

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★★★ ★★★★★ ★★★★★ ★★★★☆

 

Con il tour del disco d’oro Images and words, la stella dei Dream Theater finalmente si accende nel panorama internazionale. Il gruppo americano è una macchina perfetta, macina date su date, riscuotendo successi sia di pubblico, sia di critica. Oltre a “Pull me under”, parliamo di brani come “Another Day”, “Take the time”, “Under a glass moon” e l’epitome del prog. anni Novanta, “Metropolis pt I” (ne riparleremo per il bootleg del 2004). Dopo il “Live at the Marquee” arriva la prova più ardua, quella del terzo studio album. Era doveroso confermare ai fan la qualità dalla musica proposta nel ’92, ma non si poteva semplicemente comporre una fotocopia di Images and words.

Quello che s’inventarono i Dream Theater fu qualcosa di terremotante. Ci riferiamo al muro sonoro di Awake, album del 1994, con la famosa copertina su toni neri e lo specchio “metafisico” in bella vista. Quando si ripensa a questo platter vengono in mente la rullata iniziale di “6:00”, la raffinatezza della mini-suite in tre parti “A mind beside itself” (il 5/4 iniziale di “Erotomania” ha fatto scuola), la ballad a firma di Myung “Lifting shadows off a dream”, oppure la furia di “The mirror” e “Lie”.

Quasi come fosse un corpo estraneo, uno dei gioielli di Awake nondimeno resta “Space dye vest”. Il pezzo è il lascito di Kevin Moore alla band e ha testi da brivido (inclusi gli estratti cinefili che hanno contraddistinto i primi album dei DT). In realtà il tastierista era già andato al di là del progressive metal suonato per anni in decine di concerti; anche a causa dei ritmi forsennati imposti da un tour impegnativo come quello di I&W, Kevin preferì cambiare strada e concentrarsi sul suo nuovo interesse per la musica elettronica. Di lì le sue collaborazioni con i Fates Warning, il progetto Chroma Key e gli OSI, per arrivare a oggi, con la sua svolta di vita radicale e la laurea in psichiatria.

A detta di Petrucci “Space-dye vest” è stata inserita in modo poco avveduto nella tracklist di Awake, considerata la successiva direzione musicale di Kevin Moore, poco attinente al prog. metal. Le sue sonorità non si amalgamano con il resto dell’album, ma noi ringraziamo comunque per questo regalo inatteso, riproposto in “Breaking the fourth wall” in tempi recenti dopo anni di attesa.

And I’ll smile and I’ll learn to pretend
And I’ll never be open again
And I’ll have no more dreams to defend
And I’ll never be open again

https://www.youtube.com/watch?v=go7SF-yLbxM

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★★☆ ★★★☆☆ ★★★★★★ ★★★☆☆

 

A seguito dell’uscita di scena di Kevin Moore è lungo lo iato prima del quarto full length, che verrà pubblicato nel 1997. Subentra alle tastiere l’istrionico Derek Sherinian (già attivo con i Kiss e Alice Cooper) e il combo newyorchese decide di sfruttare l’occasione proposta dall’etichetta discografica EastWest per pubblicare un Ep con la versione di un grande classico ancora non inciso in studio. Parliamo della loro suite forse migliore di sempre, “A change of seasons”, divisa in sette parti e con un minutaggio superiore ai venti minuti complessivi, il magnum opus mai azzardato dai nostri.

Le liriche sono opera di Portnoy che in questo modo vuole ricordare il dolore per la madre scomparsa in un incidente aereo nel 1984. La grandezza di questa composizione risiede nelle tematiche affrontate (si veda il carpe diem del poeta Robert Herrick, le citazioni dei film “Dead Poets Society” e “Table for Five”) e nei continui cambi ritmici e di atmosfera, aspetto che riesce a tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore lungo un viaggio sonoro così lungo. Tre dei sette movimenti sono strumentali, l’apice dell’entusiasmo progressive dei primi Dream Theater, che composero la prima versione del brano a inizio anni Novanta (ne trovate una versione live con Kevin Moore in Rete).

Ma è l’ultima traccia dell’Ep che ci interessa, registrata al Ronnie Scott’s Jazz Club di Londra nel gennaio 1995. “The big medley” è l’esempio per eccellenza di come i DT si ispirino ai grandi del rock che fu. Petrucci & Co non hanno mai nascosto il loro desiderio di coverizzare i grandi nomi: qui troviamo condensati in un ardito mash-up stralci di Pink Floyd, Kansas, Queen, Journey, Dixie Dregs e Genesis, che compaiono da sempre nel personalissimo inspirational corner della band newyorchese. L’apoteosi del buon gusto, ascoltare per credere (peccato manchino gli Yes, ma verranno omaggiati in altri concerti).

NB i Pink Floyd vedranno coverizzano l’intero Dark side of the moon nel 2006, i Deep Purple Made in Japan, mentre i Queen saranno ripresi tra l’altro nel bonus disk del 2009, ultimo album con Portnoy prima della reunion). Sono ancora in commercio i bootleg che ripropongono questi show.

 

Il primo full-length con Derek Sherinian sarà il disco della svolta, nel bene e nel male per i Dream Theater, alla prossima puntata per continuare il nostro viaggio con Falling Into Infinity!

 

https://www.youtube.com/watch?v=Oog4WsKPJ7I