Prog Rock

Are You Experienced? – Franco Fabbri (Stormy Six)

Di Andrea Bacigalupo - 2 Maggio 2021 - 8:30
Are You Experienced? – Franco Fabbri (Stormy Six)

Siamo giunti ad un altro appuntamento con la rubrica “Are You Experienced?”, che in quest’occasione si presenta ai Lettori di TrueMetal.it in una veste diversa dal solito. La rubrica è nata e continuerà ad esistere per dare voce ai musicisti che iniziano il loro percorso nel ricco sottobosco Underground; oggi tuttavia saremo noi a vestire i panni degli “ultimi arrivati”. Abbiamo infatti l’onore di riportare nell’articolo la piacevole conversazione intrattenuta col Professor Franco Fabbri, autorevole musicologo, docente universitario nonché membro degli storici Stormy Six, gruppo appartenente all’Età dell’Oro della scena Progressive italiana a cavallo degli anni ’70. Buona lettura a tutti!

Intervista a cura di Roberto ‘Bob’ Castellucci

con la collaborazione di Roberto ‘Rhadamantys’ Gelmi

Gentile Prof. Fabbri, benvenuto sulle pagine di TrueMetal.it! La prima e più scontata domanda che vogliamo rivolgerLe, a beneficio di tutti coloro che vorranno approfondire l’argomento, riguarda il Suo principale campo di studio. Cosa si intende quando si parla di Popular Music? A cosa dobbiamo l’utilizzo di termini inglesi per identificare questa disciplina?

Con quel termine inglese ci si riferisce al “terzo tipo” di musica che emerse per esclusione dopo l’invenzione dei concetti di “musica classica” e di “musica folk” tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. La musica che non era né classica né folk iniziò ad essere chiamata con vari nomi: musica leggera, musique des variétés, Unterhaltungsmusik, e nei paesi di lingua inglese popular music (inizialmente con una connotazione dispregiativa, come vulgar music, musica del volgo). I vari termini usati in Italia fin dall’Ottocento, ma soprattutto durante il ventennio fascista e nel secondo dopoguerra (musica leggera, di intrattenimento, canzonetta, musica di consumo), non hanno retto alle trasformazioni intervenute nel Novecento, e d’altra parte “musica popolare” è, nella tradizione degli studi accademici italiani, la musica trasmessa oralmente, di origine perlopiù contadina. Tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta del Novecento si sono sempre più affermati a livello internazionale degli studi su quel “terzo tipo” di musica, e si è convenuto di usare l’espressione inglese popular music. La usiamo anche noi in inglese, così come non traduciamo “jazz” o “rock ‘n’ roll” (o “heavy metal”…).

Il Lettore intenzionato ad avvicinarsi allo studio della Popular Music, entrando in una libreria, quali titoli farebbe bene a scegliere per primi? E soprattutto, da quale libro di Franco Fabbri dovrebbe iniziare?

Tra i miei libri direi Il suono in cui viviamo e Around the clock. Una breve storia della popular music. E anche uno che uscirà prima dell’estate, per JacaBook, Il tempo di una canzone. Ci sono vari ottimi libri scritti da autori anglofoni e tradotti in italiano, ma temo che siano difficili da trovare: Studiare la popular music di Richard Middleton o La tonalità di tutti i giorni di Philip Tagg.

Sul Nostro sito parliamo principalmente di Heavy Metal, espressione letteralmente traducibile in italiano con le parole “metallo pesante. Il Suo ultimo libro si intitola Non è musica leggera (Jaca Book, Milano 2020): mi perdoni l’impertinenza, ma non riesco a resistere al fascino di certe coincidenze…scherzi a parte, ci vuole parlare di questa Sua recentissima fatica?

Be’, quella che chiamo un po’ scherzosamente “musica non leggera” in quel libro è di fatto la musica colta, con un particolare sguardo sul Novecento e la musica contemporanea, e con una parte che si concentra su aspetti teorici dello studio delle musiche. Ma c’è anche Frank Zappa.

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Ho avuto modo di conoscerLa una quindicina di anni fa nel Suo ruolo di docente universitario presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, attirato dagli stimolanti programmi dei Suoi corsi. Quali argomenti possono incontrare gli studenti che scelgono di seguire i corsi sulla Popular Music? In quale città si dovrebbe trasferire il Lettore interessato a seguire le Sue lezioni nel 2021, pandemia permettendo?

Attualmente (e penso anche nel prossimo anno accademico) insegno al Conservatorio di Parma, allo IED di Milano (corso di Sound Design) e al Cesma di Bioggio (Lugano). Sto tenendo anche un corso sull’economia della musica alla Statale di Milano. I miei corsi hanno un taglio storico, dall’Ottocento ai primi anni Duemila, con aspetti analitici ed economici.

Non possiamo a questo punto tralasciare i Suoi anni di militanza negli Stormy Six…se dovesse nominare l’album più rappresentativo del gruppo, quale sceglierebbe? Quale consiglierebbe invece ai nuovi ascoltatori per approcciare la band?

Per me è una scelta difficile. Trovo “Un biglietto del tram” (1975) un lavoro particolarmente coerente e ben riuscito, difficile da replicare. Ma a me piace moltissimo anche “Al volo” (1982), l’ultimo album in studio, e forse i nuovi ascoltatori potrebbero cominciare da lì, perché rimarrebbero sorpresi. Ma ciascuno degli album degli Stormy Six è profondamente diverso da tutti gli altri, è quasi impossibile fare un confronto.

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Poniamo il caso che il Lettore curioso evocato nelle precedenti domande, rendendosi conto di avere uno scarso bagaglio di conoscenze in quanto a Rock Progressivo, voglia colmare le sue lacune. Quali sono le opere imprescindibili per un avvicinamento al prog? Per dirla in altro modo, qual è il Suo personale “decalogo” dei migliori dischi progressive?

Ah, difficile! Senza pretese di voler creare un canone, e non necessariamente in ordine, direi “In the Court of the Crimson King” e “Red” dei King Crimson, “The Yes Album” e “Fragile degli Yes, “Aqualung” dei Jethro Tull, “Octopus” e “Design” dei Gentle Giant, “Foxtrot” dei Genesis, “Living in the Heart of the Beast” e “Western Culture” degli Henry Cow. Sono quelli che davvero ascolto ancora di più, e mi rendo conto che lascio fuori molti gruppi e album che meriterebbero di essere citati.

Il prog italiano ha una sua specificità: in passato è stato alla pari di mostri sacri come Yes, King Crimson e Genesis. Oggi quali sono gli eredi di questa tradizione a Suo vedere? Ci sono molte ottime band come Il Segno del Comando, Il Tempio delle Clessidre…

Conosco poco la scena italiana attuale. Mi spiace, ma occupandomi di tante musiche – in un arco storico così ampio – devo per forza trascurare dettagli che pure sono sicuro che valgano la pena di essere conosciuti. Mi è piaciuto moltissimo l’ultimo album dei Mamma non piangere (“N. 3”, 2016), e ho apprezzato quello di Annie Barbazza (“Vive”, 2020). Ho seguito da vicino un progetto recente de Lo Zoo di Berlino, basato su rifacimenti di “classici” del primo progressive italiano. E poi (ma non so se definirlo progressive, né italiano) “The Electric Pink Moon Project” di Luciano Margorani.

Come accennato in apertura dell’articolo, questa conversazione viene inserita nella cornice di una rubrica destinata alla divulgazione della musica prodotta da artisti alle prime armi. Vorremmo che ci raccontasse qualcosa degli anni di “gavetta” vissuti dagli Stormy Six, in un periodo storico in cui Internet non esisteva e le tecnologie di registrazione professionale non erano così diffuse e relativamente a buon mercato come oggi; notiamo infatti da qualche anno un incremento delle cosiddette one man band, musicisti che fanno tutto da soli in contraddizione con lo spirito di aggregazione che da sempre contraddistingue la musica Rock. Al di là del perfezionamento delle tecnologie, cosa distingue il “mondo underground” di ieri da quello di oggi?

Qui ci vorrebbe una risposta molto lunga. Ma ho pubblicato un libro (Album bianco) che racconta anche la storia degli Stormy Six, fin dalle origini, con molti dettagli. Direi che l’aspetto centrale fosse il carattere collettivo, quasi imprescindibile, di quel movimento musicale. L’aspetto tecnico non è poi così importante, perché comunque anche un gruppo indipendente poteva mettere insieme le risorse per affittare uno studio di registrazione di buon livello. E si era abituati a suonare dal vivo, tutti insieme, e senza fermarsi. Qui, in realtà, la tecnologia c’entra. Qualche tempo fa mi è capitato di entrare in studio con dei musicisti di una generazione più giovane. Tra l’altro, dovevo registrare un paio di assoli di chitarra. Quando li riascoltavo, dicevo: “Questo lo posso fare meglio, adesso lo risuono”. Ma gli altri mi dicevano: “Ma no, dopo lo mettiamo a posto con Pro Tools, non ti preoccupare.” E qualche volta i miei studenti mi chiedono: “Ma come facevate a suonare pezzi di dieci minuti a memoria, e senza fermarvi mai?” Ecco…purtroppo, molta musica che ascolto oggi ha un sentore di cameretta, di chiuso, di solitudine.

Vorremmo concludere il Nostro benevolo “interrogatorio” con un sorriso. Ci farebbe un enorme piacere che lei raccontasse tre aneddoti della Sua vita: uno dal punto di vista del Musicologo, uno dal punto di vista del Professore e per finire uno dal punto di vista del Musicista. Anzi, come musicista potrebbe raccontarcene due: uno di Sua scelta e uno suggerito da Noi…sappiamo che di Wikipedia non possiamo fidarci al cento per cento, ma nella pagina dedicata agli Stormy Six abbiamo letto, cito testualmente, che “il settimo album, “Macchina maccheronica (1980), vince il premio della critica discografica tedesca come miglior album rock dell’anno, relegando al secondo posto i Police”. Speriamo con tutto il cuore che questa affermazione sia attendibile…come ci si sente a salutare Sting dalla posizione più alta del podio?

Mah, comincio dalla fine. È verissimo, gli Stormy Six nel 1980 vinsero quel premio (che è molto prestigioso, ed esiste tuttora) come miglior album rock dell’anno. Che i Police fossero arrivati secondi l’ho saputo in seguito. Ma gli Stormy Six in quel periodo erano molto apprezzati dalla critica in tutta Europa, e i critici quando danno i premi pensano anche a come verranno giudicati per averli dati. Era a sua volta prestigioso votare per un gruppo italiano “di nicchia”, invece che per delle star internazionali in testa alle classifiche. Devo dire anche che all’epoca avevamo recensioni fantastiche dalla stampa internazionale (anche il Melody Maker), ma qualche giornalista italiano (non tutti!) ci trattava con sufficienza. Sul mio sito c’è una raccolta di quelle recensioni (di quelle buone…).

Come musicologo (e anche come professore, così me la cavo con una risposta sola) potrei ricordare questo: anni fa, in un dipartimento di un’importante università italiana, si discuteva su come ampliare gli spazi per lo studio della popular music; avevo detto ai colleghi che tra l’altro in Inghilterra i corsi sulla popular music attiravano studenti da tutto il mondo, e che quindi ampliare quegli studi poteva compensare anche il continuo calo di iscritti ai corsi di laurea umanistici. Un musicologo che non era d’accordo con me (per usare un eufemismo) disse che in Inghilterra studiavano la popular music perché la loro musica colta era di basso livello. Dimostrazione perfetta di come l’opposizione dei musicologi conservatori agli studi popular si fondi anche sulla loro vergognosa ignoranza della musica che dicono di studiare…

Quanto al musicista, ho raccontato in Album bianco di una volta che invitai Robert Fripp a un concerto alla Scala. Prima che iniziasse (c’era il Concerto per violino di Berg) chiacchierammo a lungo della condizione dei musicisti d’avanguardia nel mondo popular, in particolare di Keith Tippett e di sua moglie (che io avevo conosciuto come Julie Driscoll, quando cantava con Brian Auger), costretti a sopravvivere col sussidio di disoccupazione. Ripensandoci ora, mi rendo conto di come la pandemia abbia ridotto a quelle condizioni un numero enorme di lavoratori della musica a ogni livello; e, al tempo stesso, mi diverto per come Fripp e sua moglie Toyah abbiano risolto quel problema acquistando fama mondiale per le loro cover di pezzi hard filmati nel salotto di casa. Una volta o l’altra gli scrivo.

Ringraziamo di cuore Franco Fabbri per il tempo che ci ha dedicato, per le interessanti risposte date e per la simpatia che da sempre lo contraddistingue. Non si dimentichi, Professor Fabbri: appena riuscirà a scrivergli, porga i nostri saluti a Robert Fripp!