Helloween: quarant’anni di storia – Part II: 1995 – 2005

Continuiamo a ripercorrere la carriera degli Helloween, per celebrare il quarantesimo anniversario della formazione di Amburgo. Nel primo capitolo (che trovate qui, n.d.a.) avevamo esplorato la decade iniziale della band, fermandoci al 1995. Proseguiamo il nostro speciale con il secondo episodio, che ci condurrà a rivivere un altro decennio della storia delle Zucche più amate dalla comunità metallica. Ci fermeremo quindi al 2005.
Il nostro racconto riparte dal 1996. Dopo il grande successo riscosso con “Master of the Rings”, gli Helloween erano chiamati alla conferma: dovevano dimostrare che il disco del 1994 non rappresentava un caso isolato. Era quindi tassativo realizzare un album che potesse bissare – se non addirittura superare – il valore di “Master of the Rings”. Il nuovo lavoro, inoltre, doveva essere degno del glorioso passato della compagine tedesca: la memoria di Ingo lo esigeva. Le pressioni, insomma, erano elevatissime. I “nuovi” Helloween, però, avevano “fame”, voglia di rivalsa, ambivano ad affermarsi, a riconquistare il posto che gli spettava nell’Olimpo del Metal, e non solo. In un contesto del genere, l’ispirazione, l’estro, la creatività scorrevano con impeto nelle vene dei cinque musicisti. Il risultato? “The Time of the Oath”, uno degli apici assoluti nella discografia delle Zucche d’Amburgo.
La copetina di “The Time of the Oath”
“The Time of the Oath” si presenta con una veste grafica accattivante, in cui la copertina di Martin Zeissler mette subito le cose in chiaro. Sì, perché ritroviamo il protettore delle sette chiavi, presente nei primi due “Keeper of the Seven Keys”. Sotto il cappuccio dello stregone, poi, compare la copertina di “Master of the Rings”, quasi a voler creare una sorta di ponte tra passato e presente. L’atmosfera è però oscura, intrisa di misticismo: incontriamo una lastra marmorea, recante il titolo dell’album, e alcuni riferimenti astrologici ed esoterici. La nebbia e le fiamme che circondano il negromante, inoltre, sanno di Heavy Metal fino al midollo. Con un artwork del genere, ricco di tutti questi riferimenti, le aspettative risultano elevatissime e “The Time of the Oath” non sbaglia il colpo: si rivela un successo clamoroso. L’album, infatti, è caratterizzato da una serie di classici immortali, sia per gli Helloween che per il Metallo Pesante in generale. E non a caso, il settimo disco delle Zucche diventa in breve tempo uno dei lavori più rappresentativi degli anni Novanta. Rispetto al precedente “Master of the Rings”, le atmosfere si fanno più aggressive, segnando un chiaro appesantimento del sound. Certo, la melodia e l’animo Hard Rock non vengono dimenticati, ma l’album è nettamente più abrasivo. Basta scorrere la tracklist per rendersene conto: troviamo ‘Power’ – una sorta di ‘Future World’ del nuovo corso della band – la graffiante ‘Steel Tormentor’, l’assassina ‘Before the War’. E come non citare l’incalzante opener ‘We Burn’ o la potentissima ‘Kings Will Be Kings’, con un Deris superlativo al microfono. Quasi a fare da contraltare a cotanto impeto, gli Helloween piazzano ben due ballad: ‘Forever and One (Neverland)’ e ‘If I Knew’, semplicemente favolose. Spiccano inoltre la melodica e rockeggiante ‘A Million to One’ e la trascinante ‘Wake Up the Mountain’, con il suo incedere Hard Rock, pronto a esplodere in una fase solistica di chiaro stampo Speed-Power. Per non parlare dell’ambiziosa suite ‘Mission Motherland’, con Markus Grosskopf e Uli Kusch in stato di grazia, l’oscura e cadenzata title track e la divertente ‘Anything My Mama Don’t Like’, che mette in risalto l’animo più scanzonato della band. “The Time of the Oath” è un condensato di velocità, melodia, aggressività, eleganza. È un disco capace di “entrare” nell’ascoltatore, di ipnotizzarlo. La prestazione dei singoli, poi, è semplicemente stellare. Grosskopf è assoluto protagonista con il suo basso, con quei suoni puliti e squillanti che catturano l’attenzione, in particolare quando può sfoggiare le sue classiche scale. Kusch è una macchina da guerra. Regala velocità, precisione, personalità e tanto buon gusto, riuscendo a dare il giusto tocco a ogni canzone. Le rullate, i passaggi sui tom-tom e l’uso della doppia cassa lo rendono riconoscibile tra mille altri batteristi. Le chitarre trasmettono grandi emozioni, tracciando riff efficaci, taglienti, distintivi. E la solistica è forse l’apice espressivo toccato dall’accoppiata Weikath-Grapow. E infine Deris, qui ancora più dentro i meccanismi della band, ancora più personale, enfatico, espressivo.
L’argomento Deris merita di essere approfondito. In breve tempo il cantante conquista una posizione di rilievo negli equilibri della band. Lo si intuisce dal numero di composizioni a suo nome: ‘We Burn’, ‘Forever and One (Neverland)’, ‘Before the War’ sono tutta opera sua. ‘Steel Tormentor’, ‘Wake Up the Mountain’, ‘A Million to One’, ‘Anything My Mama Don’t Like’ e ‘The Time of the Oath’ portano invece il suo zampino. A volte come co-compositore con Kusch, altre come autore dei testi. A partire da questo disco, Kusch inizia a occuparsi della scrittura dei brani, rivelando classe ed eleganza, come possono testimoniare ‘Wake Up the Mountain’ e ‘A Million to One’. Anche Weikath sfoggia grande ispirazione. Canzoni come ‘Steel Tormentor’, il classico ‘Power’, ‘Kings Will Be Kings’ e ‘If I Knew’ portano la sua firma. Di Grapow, invece, la title track. Il risultato di queste diverse penne è un disco poliedrico, versatile, ricercato, in cui gli arrangiamenti sono curati in ogni dettaglio. E, forse, è proprio questo che rende “The Time of the Oath” un lavoro così unico e piacevole, capace di superare la prova del tempo. Ecco: se proprio volessimo muovere una critica al disco, dovremmo forse puntare il dito sul suono. Il lavoro di Tommy Hansen e Michael Tibes rende l’album un po’ “ovattato”. È anche vero che se “The Time of the Oath” viene ascoltato tramite un impianto professionale, la resa cambia, eccome. Chiudiamo con un paio di annotazioni sul platter, il cui concept è incentrato sulle profezie di Nostradamus. Il disco, poi, è dedicato alla memoria di Ingo Schwichtenberg.
Gli Helloween in una foto promozionale dell’epoca
“The Time of the Oath” si rivelò subito un successo enorme. Divenne disco d’oro in Giappone, spopolò in Sud America, conquistò l’Europa. Il tour di supporto all’album fu caratterizzato da oltre sessanta date: un trionfo. Gli Helloween girarono in lungo e in largo il Vecchio Continente, per poi volare in Brasile e chiudere l’avventura nel paese del Sol Levante. Il risultato della tournée fu un nuovo live album, “High Live”, pubblicato sul finire del 1996. Registrato a Milano, Pamplona e Girona, “High Live” è una fedele istantanea degli Helloween di quel periodo. Forti del successo del nuovo corso, la scaletta è incentrata soprattutto su pezzi estratti da “The Time of the Oath” e “Master of the Rings”. Tale scelta venne accolta con riserva dalla stampa specializzata italiana, i fan presenti agli show, invece… Ma di questo avevamo già parlato nel primo capitolo del nostro racconto.
La copertina di “High Live”
Archiviato il successo di “The Time of the Oath”, nel 1997 gli Helloween entrarono nuovamente in studio, pronti a dare alle stampe un nuovo album. Per la prima volta nella storia della band fanno capolino i Mi Sueno, studio di Tenerife e di proprietà di Andi Deris. Come vedremo, i Mi Sueno assumeranno un ruolo sempre più strategico nelle future produzioni degli Helloween. Il cantante, d’altronde, si era trasferito in Spagna e preferiva lavorare da lì. In questo modo, la compagine tedesca si trovò a operare in un asse Tenerife-Amburgo. Sì, perché parte delle registrazioni vennero eseguite presso i Mi Sueno, altre agli Chateau du Pape e Crazy Cat Studios di Amburgo. Una mole di attività che portò a “Better than Raw”, nuovamente curato dall’accoppiata Tommy Hansen e Michael Tibes, in cabina di regia. Come per il disco del 1996, anche questa volta analizziamo il platter partendo dalla sua veste grafica. Se la copertina di “The Time of the Oath” era dominata da colori cupi e atmosfere aggressive, quella di “Better than Raw” vira invece su toni più sgargianti. Vi troviamo infatti una rilettura in chiave Helloween della saga dei Puffi. Gargamella diventa una perfida e sexy strega, mentre gli omini blu si trasformano in pericolosi mostriciattoli, con la testa di zucca. L’espressione di questi esseri è infida e aggressiva. E proprio quella zucca diventa la nuova “O” nel rivisitato logo degli Helloween, che svetta in alto, a sinistra, nella copertina di Rainer Laws. Un’immagine – con quelle zucche così rabbiose – che trasmette l’idea di un disco più potente, irruento, con suoni cristallini. E “Better than Raw” si presenta proprio così.
La copertina di “Better than Raw”
“Better than Raw” viene pubblicato via Castle Communications nel 1998 e ci regala una band in continua evoluzione. L’album risulta più potente rispetto ai predecessori, presenta inoltre elementi innovativi e sperimentali. Canzoni come ‘Push’ e ‘Revelation’ vanno proprio in questa direzione. La prima è un condensato di potenza e irruenza, con gli stoppati di Kusch pronti a massacrare il collo di ogni metalhead. A questi, si aggiungono dei riffing taglienti e grossi come macigni. La seconda è una suite visionaria e tecnica, che sa dosare aggressività, melodia e virtuosismi. In ‘Revelation’, inoltre, emergono delle soluzioni che anticipano un po’ i tempi, passaggi che troveranno la loro massima espressione a inizio del nuovo millennio. Basta ascoltare il fraseggio ritmico prima dell’assolo per capire a cosa ci stiamo riferendo. Ma in “Better than Raw” anche le canzoni tipicamente helloweeniane assumono una veste diversa, più muscolosa. Brani come ‘Falling Higher’ – un autentico inno all’heavy metal, che meriterebbe più spazio in sede live – ‘Lavdate Dominvm’ e l’intricata ‘Midnight Sun’ ne sono un esempio. In queste composizioni – che presentano dei ritornelli clamorosi – melodia e velocità fanno la voce grossa. Allo stesso tempo, sfoggiano un gran tiro. E come non citare il classico immortale ‘I Can’, capace di insinuarsi nella testa dell’ascoltatore per non uscirne più. Continuando l’analisi, incontriamo l’oscura e cadenzata ‘Don’t Spit on My Mind’, e tracce come ‘Hey Lord’ e ‘Handful of Pain’, in cui l’animo Hard Rock prende il sopravvento. Semplicemente splendida, poi, la ballad ‘Time’. E nelle ballate, si sa, gli Helloween difficilmente sbagliano il colpo.
“Better than Raw” si rivela un disco maturo, in cui le Zucche, pur mantenendo inalterata la propria personalità, cercano di restare al passo con i tempi, di non risultare “superati”. Le canzoni presentano una grande freschezza compositiva e sono caratterizzate da tanta qualità. Mostrano un’attenzione maniacale agli arrangiamenti, ai cori, agli inserti tastieristici del fido Joern Ellerbrock. E la prestazione dei singoli? Aumenta ulteriormente di livello. Kusch, in particolare, diventa la motrice della band, con un drumming personale e tecnico. Citiamo gli accenti sul ride in ‘Midnight Sun’, l’uso della cassa in ‘Falling Higher’, gli interventi solisti posti in apertura di queste due tracce, per non parlare delle caratteristiche rullate, i passaggi sui tom-tom, l’uso dei piatti… In “Better than Raw”, il batterista tedesco dà libero sfogo alla propria visione artistica. Deris risulta sempre più fondamentale per gli equilibri della band e il suo timbro, le sue linee vocali rappresentano ormai il marchio distintivo degli Helloween. Grosskopf crea il “consueto” muro di suono e le chitarre, massicce e arroganti, sono le assolute protagoniste del disco. “Better than Raw”, insomma, si consacra immediatamente come una nuova pietra miliare nella discografia degli Helloween.
Gli Helloween nel 1998
In “Better than Raw” le composizioni sono quasi tutte curate dalla coppia Weikath-Deris. Un duo affiatato, che spinge gli Helloween verso nuovi orizzonti. Ma nell’ottavo album delle Zucche un’altra figura inizia a scalare le gerarchie della band. Stiamo parlando di Uli Kusch, che in “Better than Raw” scrive le musiche di ben tre pezzi: ‘Push’, ‘Revelation’ e ‘Handful of Pain’. E che pezzi, verrebbe da aggiungere. Anche Grosskopf mette lo zampino, realizzando ‘Don’t Spit on My Mind’ assieme a Deris. Sorprende il non trovare nessuna canzone griffata Grapow. E dal mercato? Come venne accolto “Better than Raw”? Fu semplicemente un successo. Disco d’oro in Giappone, il terzo di fila. Ottimi risultati in Europa, in Sud America e un po’ in tutto il mondo. Basti pensare che in Italia, l’album si piazzò al quattordicesimo posto nella classifica dei dischi più venduti. Nel 1998, in un periodo in cui per entrare in Top 20 bisognava venderne di dischi! Il tour di supporto all’album superò in numero di date quello di “The Time of the Oath”. Gli Helloween accompagnarono gli Iron Maiden in molti appuntamenti live, parteciparono a vari festival estivi, tra cui il Gods of Metal e l’Ozzfest europeo. Suonarono in ogni angolo del Pianeta: Giappone, Americhe e Vecchio Continente. Fu un vero trionfo.
In quel periodo, inoltre, molte band si divertivano a dare alle stampe degli album di cover. Era un modo per rendere omaggio a quegli artisti che avevano alimentato la loro passione per la musica dura. Basti pensare ai Metallica, con il loro “Garage Inc.”, del 1998, o ai Six Feet Under di “Graveyard Classics”. Anche gli Helloween decisero di prendere parte a questo gioco. Lo fecero in modo particolare, però. À la Helloween, verrebbe da dire. Sì, perché nel 1999 la compagine tedesca pubblicò “Metal Jukebox”. Un lavoro atto a esplorare le influenze rock della band, con cover di Scorpions e Jethro Tull, ma anche il lato pop, come testimonia il remake di ‘Lay All Your Love on Me’, degli ABBA. Scorrendo le tracce dell’album, incontriamo anche ‘Space Oddity’ di David Bowie, ‘All My Loving’ dei The Beatles e la spassosissima versione di ‘Hocus Pocus’ dei Focus. La tracklist spazia in moltissimi generi ed epoche, proponendo ‘Mexican’ di Babe Ruth, ‘From Out of Nowhere’ dei Faith No More e ‘Juggernaut’ di Frank Marino. In “Metal Jukebox” ogni canzone è riletta in chiave Helloween. Una scelta che evidenzia la grande capacità nel curare gli arrangiamenti di Weikath e soci. Tanto che la già citata nuova veste di ‘Lay All Your Love on Me’ sembra a tutti gli effetti una classica track delle Zucche. Un brano che non stonerebbe nei loro concerti e che, anzi, potrebbe incendiare i fan.
La copertina di “Metal Jukebox”
Come spesso accadeva all’epoca, “Metal Jukebox” venne accolto tiepidamente dalla stampa specializzata italiana. L’album, in effetti, poco aveva da aggiungere al valore della band. “Metal Jukebox” ben presto si rivelò un disco per i fan più accaniti degli Helloween, i cosiddetti completisti, in particolare per gli estimatori del nuovo corso delle Zucche. Nonostante questo, il platter riuscì a ottenere interessanti dati di vendita in Giappone, Finlandia e Germania, entrando nelle rispettive classifiche dei dischi più gettonati. A tutti gli effetti, però, “Metal Jukebox” fu un lavoro che gli Helloween sfornarono in fretta, per poter chiudere gli impegni contrattuali con la Castle Communications. E non a caso, poco tempo dopo Weikath e compagni si accasarono presso la sempre più importante Nuclear Blast Records.
L’etichetta tedesca, specializzata in metal estremo, grazie a un’intuizione pazzesca riuscì ad ampliare il proprio bacino di utenza. L’intuizione rispondeva al nome Hammerfall, una formazione che venne lanciata proprio dalla Nuclear Blast Records e che in breve tempo conquistò il mondo. Una mossa che portò palate di soldi nelle casse della label teutonica e le permise di diventare un autentico colosso della musica dura. Sul finire degli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio, quasi tutte le formazioni più importanti avevano un contratto con la Nuclear Blast Records. E, alla fine, anche gli Helloween vi si accasarono. Il risultato? “The Dark Ride”, il nono full length delle Zucche di Amburgo. L’album si presenta con una copertina cupa, oscura, ambientata nello spazio. Anche il logo della band viene modificato, trovando connessione con l’immagine della cover e il titolo del disco. Le composizioni di “The Dark Ride” seguono questo sentiero, rappresentando un autentico viaggio nell’oscurità. Per la prima volta nella storia degli Helloween, l’album viene interamente registrato negli studi di Andi Deris, i Mi Sueno Music di Tenerife. “The Dark Ride” sancisce anche l’inizio della collaborazione con Charlie Bauerfeind in cabina di regia, un sodalizio che tuttora caratterizza le produzioni griffate Helloween. Due aspetti fondamentali per comprendere al meglio il sound del nono lavoro del combo tedesco. I suoni appaiono infatti più cupi e robusti. Le chitarre sono più pesanti e alcuni capitoli presentano delle accordature più basse rispetto allo standard helloweeniano. L’intento era proprio quello di donare maggiore spessore, corpo e oscurità ai pezzi. Un obiettivo centrato a pieni voti. Basta ascoltare l’opener ‘Mr. Torture’, per rendersene conto. La canzone ci regala anche una band in evoluzione, che piazza delle soluzioni mai usate in precedenza. La ritmica, in particolare, risponde a questo identikit, con il riff serrato e la doppia cassa della batteria a seguirne la cadenza. Sebbene oscura, ‘Mr. Torture’ esplode in un tipico ritornello delle Zucche, con una melodia che si insinua nella testa dell’ascoltatore, per non uscirne più. E non a caso, la canzone ha occupato un posto fisso nei concerti degli Helloween per moltissimi anni. Ma non c’è solo ‘Mr. Torture’. In “The Dark Ride” incontriamo altre soluzioni atipiche per Weikath e compagni: ‘Escalation 666’, ‘Mirror Mirror’, ‘The Departed (Sun Is Going Down)’ sono solo alcuni esempi. Gli Helloween, insomma, stavano seguendo un percorso evolutivo che avevano già iniziato con il precedente “Better than Raw”. Un aspetto che, pur mantenendo la band all’interno dell’universo Power Metal, ne garantiva la personalità e il tratto distintivo. Permetteva alla compagine di Amburgo di prendere le distanze dalla concorrenza e dai cloni.
La copertina di “The Dark Ride”
Come dicevamo, “The Dark Ride” rappresenta il lato oscuro degli Helloween. Una caratteristica che riscontriamo in tutte le tracce che compongono il disco. In particolare nelle canzoni scritte da Kusch – ‘Mr. Torture’ e ‘The Departed (Sun Is Going Down)’ – e Grapow – ‘Escalation 666’ e la splendida title track, suite posta in chiusura d’album, uno degli assoluti highlight di “The Dark Ride”. Il lato più classico delle Zucche trova rappresentazione nelle composizioni di Weikath, con le trascinanti ‘All Over the Nation’ e ‘Salvation’. Canzoni che seppur riconducibili a una dimensione più tipicamente Power oriented, suonano personali e “diverse” grazie alla produzione dell’album. A fare la voce grossa in “The Dark Ride” è però Andi Deris, ormai figura di riferimento nelle gerarchie della band. Di Deris, infatti, sono la pesante ‘Mirror Mirror’ e il singolo strappa-orecchi ‘If I Could Fly’, che traina le vendite del full length. Troviamo poi la rockeggiante ‘I Live for Your Pain’, con il basso di Grosskopf a dettare legge e un ritornello davvero coinvolgente. Sempre a opera del cantante sono la veloce ‘We Damn the Night’ e la bellissima semiballad ‘Immortal’, il cui ritornello è di quelli in grado di far cantare intere platee. Le composizioni di Deris hanno la caratteristica di piazzarsi a metà strada tra i capitoli più innovativi di Grapow e Kusch, e quelli più classici di Weikath. Una peculiarità che riesce ad amalgamare alla perfezione tutte le anime del disco, mettendo inoltre a segno alcuni dei momenti più elevati di “The Dark Ride”. Anche le tematiche affrontate nei testi rispecchiano il tono più cupo dell’album. Deris pone la sua attenzione sull’individuo e sull’io interiore dell’uomo. Weikath affronta temi legati alla ricerca di redenzione e all’unione globale. Kusch e Grapow, invece, analizzano il male presente nell’uomo e nel Mondo; a volte in modo ironico, come avviene in ‘Mr. Torture’.
Rispetto ai dischi precedenti, “The Dark Ride” non fece subito il botto. Non ottenne i risultati importanti raggiunti dai primi tre lavori del nuovo corso. La decisione di virare su sonorità più oscure e inserire soluzioni innovative, divise i fan. Da una parte c’era chi esaltava l’evoluzione intrapresa dagli Helloween, dall’altra chi la detestava. Con il passare degli anni, però, “The Dark Ride” ha saputo conquistare anche i suoi detrattori. Piano piano è riuscito a ottenere interessanti risultati di vendita, seppur non raggiungendo nessuna certificazione. È il classico album capace di superare la prova del tempo. Una peculiarità che caratterizza tutta la discografia degli Helloween fin qui descritta.
Gli Helloween nel 2000
Il tour di supporto all’album fu caratterizzato da una sessantina di date e vide la compagine tedesca girare il Globo in lungo e in largo. In Europa le Zucche vennero accompagnate da Blaze Bayley, appena uscito dagli Iron Maiden e pronto a promuovere “Silicon Messiah”, il suo debutto solista. Tutto sembrava girare alla perfezione, con gli Helloween lanciati alla conquista del Mondo. Il passaggio alla Nuclear Blast Records, d’altronde, portava anche un aumento della pubblicità, con un marketing mirato. Citiamo ad esempio una video-intervista che venne trasmessa dall’emittente italiana TMC2, per approfondire il disco. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare quello che sarebbe successo una volta ultimato il “The Dark Ride Tour”. Sì, perché appena completati gli impegni live, Roland Grapow e Uli Kusch vennero bruscamente licenziati. Le successive dichiarazioni dei diretti protagonisti rivelarono una profonda frattura interna: da una parte il terzetto Deris, Weikath e Grosskopf, affiatatissimo, dall’altra Grapow e Kusch. I due erano sempre più impegnati in progetti personali: Grapow aveva iniziato una carriera solista mentre Kusch aveva pubblicato un tributo ai Rainbow. Il batterista si era inoltre unito ai Sinner, per registrare “The End of Sanctuary”. Insieme, Grapow e Kusch avevano avviato un side project che li stava impegnando parecchio: l’embrione dei futuri Masterplan. Queste scelte, inizialmente tollerate, finirono per minare gli equilibri interni, soprattutto quando Grapow iniziò ad “alzare la cresta”. Il chitarrista trovò terreno fertile in Kusch che, a sua volta, aveva iniziato a imporsi nelle gerarchie interne. La spaccatura, insomma, raggiunse il suo apice durante la composizione e le sessioni in studio di “The Dark Ride”. Tensioni che si acuirono ulteriormente durante le interviste promozionali. Weikath raggiunse il limite. “The Dark Ride” doveva ancora essere pubblicato ma Grapow e Kusch, senza saperlo, erano già degli ex componenti degli Helloween. La decisione venne loro comunicata al termine del tour. Finiva in questo modo la seconda era delle Zucche d’Amburgo. Un’epoca che ha consegnato degli album immortali, autentici classici del metallo pesante degli anni Novanta. Veniva meno una formazione caratterizzata da ben quattro compositori di livello assoluto, ognuno con uno stile personale e riconoscibile. Un aspetto che permise agli Helloween di realizzare dischi vari, in continua evoluzione, al passo con i tempi. Tutto questo venne ben descritto dal cofanetto “Treasure Chest”, pubblicato via Sanctuary Records nel 2002, in cui trovano spazio i pezzi più rappresentativi degli Helloween, dal 1985 al 2000.
La copertina di “Treasure Chest”
Usciti dagli Helloween, Grapow e Kusch si concentrarono sul progetto Masterplan. I primi due dischi sfornati da quel nuovo gruppo, che vantava alla voce il talentuoso Jorn Lande (in origine il cantante sarebbe dovuto essere Russel Allen, n.d.a.), rientrano di diritto tra i lavori fondamentali del Power Metal d’inizio nuovo millennio. Per le Zucche, invece, il periodo post “The Dark Ride” fu molto travagliato. Weikath e compagni iniziarono le audizioni per completare la line-up. Il loro intento era di trovare prima di tutto degli amici, delle figure che potessero portare un clima coeso in seno alla band. Fu proprio per questo motivo che venne contattato Mark Cross, batterista britannico attivo, tra gli altri, con Metalium e Nightfall. Il musicista era una conoscenza di lunga data di Weikath e, nel corso degli anni, i due avevano costruito un rapporto solido, affiatato. Cross rispose in maniera scettica alla proposta di entrare negli Helloween. Conoscendo bene il livello tecnico delle composizioni, temeva di non essere la figura giusta su cui puntare. Weikath lo convinse ad accettare ma quando iniziarono a lavorare al nuovo album, Cross manifestò dei problemi di salute e dovette farsi da parte. Per le registrazioni del decimo album venne quindi coinvolto Mikkey Dee. Il musicista garantiva tecnica, professionalità e impatto. In quel periodo era libero da impegni, risultò quindi la scelta più efficace. Suonava però con i Motorhead, il suo lavoro con gli Helloween rimase quindi mirato alle sole registrazioni. Il batterista ufficiale, insomma, doveva ancora essere individuato. Per quanto riguarda il sostituto di Grapow, le dinamiche ebbero una gestazione più facile. Weikath contattò Henjo Richter, allora chitarrista dei Gamma Ray. I due erano molto amici ma Richter decise di restare nella band di Hansen, in cui era ormai uno degli ingranaggi fondamentali per la salute dell’ensemble. Gli Helloween decisero quindi di puntare sul giovane Sascha Gerstner, da poco uscito dai Freedom Call. Il provino del chitarrista è entrato nella leggenda, visto che quando incontrò Weikath, i due toccarono la chitarra per pochissimi istanti. Weikath esclamò che Sascha suonava molto meglio di lui, non c’era bisogno di proseguire. Propose quindi di guardare “Shrek”, cogliendo di sorpresa il giovane musicista. I due iniziarono a guardare il film d’animazione e a chiacchierare in tranquillità. L’intento di Weikath non era tanto valutare il lato tecnico di Gerstner, quanto il suo lato umano. Ne voleva scoprire la personalità. Ecco il perché di quella proposta così strampalata. Il ragazzo passò l’esame a pieni voti. La leggenda vuole che, a un certo punto, Deris chiamò Weikath, per sapere come stesse andando l’audizione. Quando scoprì che i due non stavano suonando ma stavano invece facendo salotto, si arrabbiò. Il cantante rimase perplesso sulla condotta di Weikath. In lui prese vita un pizzico di scetticismo sulla scelta del nuovo chitarrista ma quando sentì suonare Gerstner di persona, la sua preoccupazione rientrò immediatamente. Fu con questa line-up che gli Helloween entrarono in studio per registrare il decimo full length.
La copertina di “Rabbit Don’t Come Easy”
Ma il periodo turbolento non si limitò alla ricerca dei musicisti, per completare la formazione. Gli Helloween incontrarono alcune difficoltà anche durante le registrazioni del nuovo platter. Sì, perché lo studio in cui lavoravano subì un allagamento. Un evento che rallentò, e di molto, i tempi di registrazione e che portò Weikath e soci a pensare di essere maledetti. Gli Helloween si resero conto di vivere una vera e propria epopea: era come se stessero affrontando le famose Fatiche di Ercole. Il tutto per pubblicare un disco. Per certi aspetti si sentivano dei novelli prestigiatori, che stavano cercando di estrarre un coniglio dal cilindro. Non tutti ne sono capaci, e per farlo bisogna essere davvero bravi. Soprattutto perché un coniglio non esce facilmente da un cilindro. Fu grazie a queste riflessioni che gli Helloween decisero il titolo dell’album: “Rabbit Don’t Come Easy”. Il full length, prodotto nuovamente da Charlie Bauerfeind, venne pubblicato nel 2003, via Nuclear Blast Records. “Rabbit Don’t Come Easy” abbandona il sound oscuro di “The Dark Ride” e le sperimentazioni iniziate con “Better than Raw”. Ci consegna una band che guarda volutamente al proprio passato, puntando su sonorità più classiche, dal flavour Heavy-Power, senza scordare, ovviamente, la melodia e le influenze Hard Rock. Dopo l’allontanamento di Grapow e Kusch, tutto farebbe pensare a un’egemonia compositiva di Weikath e Deris. I due musicisti optano invece per una scelta diversa, coinvolgendo nel processo di scrittura sia Grosskopf che il nuovo innesto Gerstner. Ed è proprio questa mossa che ci regala un disco che sì, risulta nettamente più classico rispetto ai due lavori precedenti, ma si rivela vario e al passo con i tempi. “Rabbit Don’t Come Easy” offre infatti alcune gemme dal valore inestimabile. Basta citare la splendida ‘Open Your Life’, che meriterebbe più spazio in sede live, o la violentissima ‘Liar’, al limite del Thrash Metal. L’apporto di Mikkey Dee è di quelli che lasciano il segno, donando al disco impatto e dinamica, esibendo alcune soluzioni degne del compianto Schwichtenberg. Sascha Gerstner appare subito integrato nei meccanismi della band, esibendo un grande affiatamento con Weikath. E i quattro pezzi che portano il suo zampino sono un’ulteriore conferma su quanto appena sottolineato. Troviamo poi Deris e Grosskopf, due assolute certezze. Il cantante è autore di una prova espressiva e matura, riuscendo a fare la differenza in più di qualche frangente. La sua voce, d’altronde, è inconfondibile, personale, in grado di donare un’anima a ogni singola traccia. Il bassista è una delle colonne portanti della band e anche in “Rabbit Don’t Come Easy” mette a segno una performance maiuscola, garantendo groove e spessore. Incontriamo quindi pezzi come la powereggiante ‘The Tune’, l’inno ‘Never Be a Star’, un omaggio alle persone che si devono svegliare ogni mattina all’alba, per guadagnarsi il pane. Semplicemente splendida, poi, la ballad ‘Don’t Stop Being Crazy’, così come la martellante ‘Hell Was Made in Heaven’, e l’oscura ‘Back Against the Wall’, che non avrebbe sfigurato in “The Dark Ride”. E il lato happy, che era venuto un po’ meno negli ultimi lavori? Beh, ‘Do You Feel Good’ mette subito le cose in chiaro! La canzone, composta da Weikath, era stata originariamente pensata per “The Dark Ride”, ma venne scartata in quanto non in linea con la pesantezza dell’album. In “Rabbit Don’t Come Easy”, invece, sta alla grande, rivelandosi uno degli highlight del disco. Per non parlare della conclusiva ‘Nothing To Say’, sempre a opera di Weikath, forse uno dei pezzi più geniali made in Helloween. La canzone si presenta con un innato animo Seventies, per esplodere in un ritornello Reggae, riportando in superficie l’animo più folle della band. In un contesto apparentemente spensierato, il testo tocca invece argomenti molto profondi. Vengono infatti analizzati il distacco, il silenzio, la difficoltà di dialogo in un rapporto arrivato alla sua conclusione.
In “Rabbit Don’t Come Easy” non ci sono solo luci, però. Troviamo anche alcune tracce lievemente sottotono, soprattutto se paragonate alla qualità delle canzoni citate poco sopra. ‘Just a Little Sign’, ad esempio, punta tutto sull’immediatezza, sulla facile presa. Obiettivo che viene perfettamente centrato – non a caso venne insignita del ruolo di singolo apripista dell’album – ma dopo vari ascolti tende a perdere parte del suo fascino. Un po’ come accade a ‘Sun for the World’ e ‘Listen to the Flies’. Canzoni riuscite e ben strutturate ma in cui non compare la magia respirata negli altri capitoli del full length. Nulla di grave, ovviamente. Certo è che un paio di pezzi in meno avrebbero permesso a “Rabbit Don’t Come Easy” di lasciare maggiormente il segno.
Gli Helloween nel periodo 2003-2004
L’album venne accolto tiepidamente dal mercato. Fu forse percepito dai fan come un lavoro interlocutorio, in cui gli Helloween, dopo lo scossone del 2001, stavano cercando il bandolo della matassa. Un vero peccato perché, come approfondito, “Rabbit Don’t Come Easy” regala delle canzoni davvero efficaci, trascinanti. Un disco che, pur riconoscendo la presenza di qualche pezzo meno incisivo, meriterebbe di essere riscoperto e rivalutato ai giorni nostri. Cos’altro aggiungere sul platter? Che “Rabbit Don’t Come Easy” si presenta con una copertina orribile, tra le peggiori della discografia degli Helloween. Gli studi scelti per le registrazioni furono i Mi Sueno Studio, di Andi Deris, ormai seconda casa delle Zucche. Restava però da sciogliere un nodo cruciale: Weikath e compagni erano ancora senza batterista. Come abbiamo visto, dopo l’allontanamento di Kusch, gli Helloween decisero di puntare su Mark Cross. Il musicista registrò giusto un paio di pezzi (‘Listen to the Flies’ e ‘Don’t Stop Being Crazy’, n.d.a.) ma dovette defilarsi a causa di una malattia. Per completare l’album, la band puntò tutto su un session man d’eccezione, Mikkey Dee, per poi annunciare l’ingresso in line-up di Stefan Schwarzmann. Quest’ultimo riuscì a registrare alcuni b-side, che finirono nel singolo ‘Just A Little Sign’. Il drummer rossocrinito non era di certo l’ultimo arrivato, visto il suo operato con Running Wild, U.D.O. e X-Wild. Il suo nome, però, fece storcere il naso a più di qualche appassionato. Per molti, lo stile di Schwarzmann non era compatibile con la complessità dei pezzi degli Helloween. Sentore che divenne realtà nel tour di supporto a “Rabbit Don’t Come Easy”, che vide le Zucche girare in lungo e in largo l’Europa, l’Asia e le Americhe. E non a caso, ultimato il tour, Schwarzmann decise di lasciare la band. Riconobbe di non essere l’uomo giusto per gli Helloween, di non avere le qualità necessarie per ricoprire quel ruolo. Al suo posto venne presto ufficializzato un giovanissimo batterista, che aveva avuto modo di mettersi in luce con Rawhead Rexx e Blaze Bayley. Stiamo ovviamente parlando di Dani Löble, musicista che da ormai vent’anni è una delle colonne portanti degli Helloween. Di lui si parlava un gran bene e l’annuncio del suo ingresso in formazione generò non poco entusiasmo tra gli appassionati.
La nuova line-up degli Helloween
Era un periodo di forte cambiamento in casa Helloween, tanto che anche la Nuclear Blast chiese un incontro alla band. Le vendite di “The Dark Ride” e “Rabbit Don’t Come Easy” non avevano rispettato le attese. L’ultimo disco, in particolare, ottenne risultati ben al di sotto delle aspettative. La label tedesca offrì quindi un rinnovo contrattuale al ribasso, una proposta che comunque soddisfaceva le esigenze delle Zucche. Come un fulmine a ciel sereno, però, irruppe in scena l’etichetta SPV GmbH. La casa tedesca, attraverso la divisione Steamhammer – dedita alle pubblicazioni Heavy Metal – puntava ad ampliare il proprio roster. In quegli anni, infatti, la label teutonica aveva sotto la propria egida molte band rilevanti della scena Power e affini. Gli Helloween sarebbero stati la ciliegina sulla torta. Mise sul piatto un’offerta irrinunciabile e, secondo quanto emerso all’epoca, presentò un’idea alquanto altisonante: il nuovo disco della formazione d’Amburgo avrebbe potuto essere il terzo capitolo della saga “Keeper of the Seven Keys”. Una proposta impossibile da rifiutare, sia dal punto di vista commerciale che artistico. Dopo mesi difficili, d’altronde, gli Helloween si trovavano davanti a una sfida importante: avrebbero potuto comporre un disco in grado di completare la saga “Keeper of the Seven Keys”, la stessa con cui si erano imposti a livello mondiale. Una prova che definire stimolante risulta quasi riduttivo. Il combo tedesco accettò l’offerta con fermento, conscio che il nuovo capitolo rappresentava un tassello fondamentale per rilanciare la propria carriera. Weikath, Deris e Grosskopf erano convinti che la rinnovata line-up avesse tutte le potenzialità per centrare il bersaglio. Non c’erano più rivalità, il clima era più sereno, disteso, unito. Si accasarono presso la Steamhammer e con entusiasmo ritrovato si apprestavano a pubblicare un lavoro che, nel bene o nel male, sarebbe passato alla storia.
La copertina di “Keeper of the Seven Keys – The Lagacy”
A dicembre 2004, gli Helloween entrarono ai Mi Sueno Studio di Tenerife, pronti a dare alle stampe “Keeper of the Seven Keys – The Legacy”. Anche in questa occasione troviamo Charlie Bauerfeind in cabina di regia, per un sodalizio ormai inossidabile. L’album venne pubblicato a ottobre 2005 e si presenta con una veste grafica molto più curata rispetto a “Rabbit Don’t Come Easy”. La copertina di Martin Häusler risulta efficace, pregna di richiami al passato ed elementi che descrivono la natura, la storia del terzo “Keeper”. La rappresentazione del maligno – raffigurato con movenze rigide, quasi meccaniche – ne riduce però il fascino. Un vero peccato. Ma il disco? Come suona? “Keeper of the Seven Keys – The Legacy” ci regala una band affiata e coesa. I singoli appaiono in palla, in uno stato di forma strepitoso. Gerstner risulta perfettamente integrato nei meccanismi della band e il nuovo innesto Löble è come se facesse parte degli Helloween da tempo immemore. La sua prova è davvero superlativa: dinamica, potenza, tecnica e tanto buon gusto. L’undicesimo lavoro delle Zucche ci consegna una formazione che ha finalmente ritrovato la propria identità. Le composizioni, infatti, presentano una cura maniacale per melodia e arrangiamenti, mescolando con sapienza Power e Hard Rock. È come se la band stesse riassaporando le sensazioni vissute tra il 1994 e il 1996. “Keeper of the Seven Keys – The Legacy” appare proprio come un’evoluzione di quel periodo, con un suono curato, potente e cristallino. L’album è infatti pieno di potenziali hit, come la splendida ‘Invisible Man’, scritta da un Gerstner in stato di grazia. Il chitarrista è anche autore della bellissima ‘Pleasure Drone’, all’epoca definita una sorta di ‘Why?’ del nuovo millennio. Per non parlare della conclusiva ‘My Life for One More Day’, scritta dal duo Deris-Grosskopf, che riporta in auge l’estro, la qualità e l’espressività di “Better than Raw”. Deris risulta ispiratissimo in “Keeper of the Seven Keys – The Legacy”. Sua è infatti la suite ‘Occasion Avenue’, traccia articolata, con continui cambi di atmosfera, in cui il cantante sfoggia tutte le sue doti di compositore. Una canzone intricata, suonata magistralmente da una band che sembra aver ripreso a girare alla perfezione. Sempre a firma Deris è l’emozionante ballad ‘Light the Universe’, in cui incontriamo Candice Night a duettare con il singer tedesco. Il risultato è una traccia carica di pathos, con un ritornello che si lascia cantare già dal primo ascolto. Troviamo poi la simpatica ‘Mrs. God’, primo singolo estratto dall’album, in cui lo spirito happy è ben rappresentato sia nelle musiche che nel testo. In questa canzone, in maniera ironica, viene infatti toccato l’argomento di genere, regalando più di qualche sorriso e, allo stesso tempo, riflessione. Ma la traccia che più di tutte rappresenta il nuovo corso degli Helloween è forse la suite d’apertura, ‘The King for a 1000 Years’. Il brano è composto da tutta la band ed evidenzia la coesione della nuova line-up, la comunione d’intenti, il desiderio di realizzare qualcosa di unico e immortale. La traccia è ambiziosa, con continue evoluzioni, cambi di atmosfera e tempo. In ‘The King for a 1000 Years’ gli Helloween ci raccontano come sia nato il tiranno oscuro. Lo fanno con un’accezione fantasy, in cui è ben marcata una critica sociale. Il male nasce infatti dall’interno della società: è l’uomo a crearlo, è lo stesso uomo che ne accetta l’egemonia. E queste visioni, queste riflessioni risultano ricorrenti all’interno di “Keeper of the Seven Keys – The Legacy”, così come il concetto delle sette chiavi. Sono loro che, se trovate e raggruppate, possono intrappolare il male e salvare l’umanità. Di fondo, “Keeper of the Seven Keys – The Legacy” porta con sè un messaggio positivo, di riscatto, di rinascita.
Per comprendere al meglio l’undicesimo lavoro delle Zucche, dobbiamo fare un ulteriore approfondimento. Come ben ricorderete, fu la Noise Records a decidere di pubblicare i primi due “Keeper” con due uscite distinte. Gli Helloween, invece, volevano dare alle stampe un doppio album. All’epoca, per la forte opposizione dell’etichetta tedesca, non ci riuscirono. Con “Keeper of the Seven Keys – The Legacy” ebbero invece carta bianca. Weikath rispolverò quindi il progetto originario e le Zucche decisero che il loro nuovo lavoro sarebbe stato un doppio album. “Keeper of the Seven Keys – The Legacy” è quindi costituito da due dischi, per la bellezza di tredici canzoni totali. Se nelle precedenti righe abbiamo messo in luce gli aspetti positivi del platter, va detto che non tutti i pezzi rispecchiano la stessa classe e qualità. Incontriamo in questo modo alcune composizioni meno ispirate. Pezzi che risultano sottotono, se paragonati all’altissimo livello qualitativo delle tracce citate in precedenza. È questo il caso ‘Do You Know What You Are Fighting For’, ‘The Shade in the Shadow’ e ‘Get It Up’. Forse un lavoro di soli dieci brani, e quindi un singolo album, avrebbe garantito una qualità superiore. Poco importa: “Keeper of the Seven Keys – The Legacy” venne accolto con entusiasmo dai fan, e non solo. Le Top 10 raggiunte in Germania e Finlandia, a cui si aggiunse la Top 20 in Giappone, parlano chiaro. Il disco permise quindi agli Helloween di tornare su livelli di vendita interessanti, pur non raggiungendo nessuna certificazione. La compagine tedesca poteva quindi partire in tour con la giusta carica, sapendo di trovare dei fan scatenati pronti ad accoglierla. La nuova line-up, inoltre, garantiva sicurezza e la certezza di mettere in piedi uno show con la “S” maiuscola. Noi ci fermiamo qui, però. Il nostro racconto proseguirà nel prossimo articolo, con la terza parte di questo speciale dedicato alle Zucche.
To be continued…
Marco Donè