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Speciale Death SS – Angeli e Demoni: 7Th Seal, Resurrection e Rock’N’Roll Armageddon

Di Stefano Ricetti - 15 Aprile 2021 - 11:59
Speciale Death SS – Angeli e Demoni: 7Th Seal, Resurrection e Rock’N’Roll Armageddon

ANGELI E DEMONI

(speciale su 7Th Seal, Resurrection e Rock’N’Roll Armageddon dei Death SS con tre interviste a corredo, una per ogni album)

La storia dei Death SS si divide in due parti ben definite. La prima, quella del periodo dei “sigilli”, prende inizio nella seconda metà degli anni Ottanta con l’album …In Death Of Steve Sylvester (1988) e si conclude nel 2006 con l’uscita di Seventh Seal.

Sette dischi per sette Sigilli discografici, per semplificare, prevedeva il patto magico siglato da Steve Sylvester nel 1977 e che ebbe il suo kickstart ufficiale quando ridestò “La Bestia Death SS” dal letargo nella quale era stata posta successivamente alla sua dipartita, all’alba degli Eighties. In realtà ogni Sigillo non doveva per forza ricomprendere un disco, ma tratteggiare un periodo di studio, ricerca spirituale, sperimentazione artistica e cambiamento nei confronti del precedente. L’obiettivo era incasellarne sette, dopodiché il mastermind della band avrebbe potuto disporre della libertà necessaria per intraprendere un ulteriore, inedito cammino.

Resurrection, del 2013, sancì, nomen omen, a tutti gli effetti la resurrezione dall’intervallo di tempo che lo precedeva, decretante la fine e la morte artistica della parabola contraddistinta dai Sigilli. L’occasione per tornare a occuparci di questo passaggio epocale la fornisce la Self, che dopo le prime due tranche della discografia in vinile sotto forma di picture disc (qui il primo Speciale, intitolato “Trinity Of Steele” afferente …In Death Of Steve Sylvester, Black Mass e Heavy Demons e qui il secondo, intitolato “Children Of The Revolution” ricomprendente Do What Thou Wilt, Panic e Humanomalies) ha licenziato sul mercato il tris 7Th Seal/Resurrection/RNR Armageddon.

Come per i primi sei dischi, i picture disc sono stati opportunamente rimasterizzati per il formato vinile mantenendo gli usuali standard di elevata qualità realizzativa, grafica e cromatica. Anche questi tre si accompagnano ai manifesti di un metro per settanta centimetri dei tour che sono seguiti all’uscita dei vari lavori. Le ristampe sono limitate a 300 copie e all’interno di ogni prodotto è presente un talloncino speciale. Raccogliendo tutti e dieci i talloncini (il decimo nella prossima uscita) e spedendoli all’indirizzo di SELF entro il 30 settembre 2021 sarà disponibile richiedere gratuitamente un cofanetto raccoglitore dell’intera collezione oltre alla possibilità di prenotare l’undicesimo ed ultimo super limited picture-disc, un disco extra disponibile esclusivamente tramite Self Distribuzione.

Così come già puntualizzato attraverso le recensioni uscite real time su queste stesse pagine a sfondo nero, 7Th Seal incarnò una sorta di summa della carriera dei Death SS, ovviamente contestualizzata al 2006, un disco a 360° posto in chiusura di un percorso. Accanto a superclassici della portata di “7Th Seal”, secondo lo scriba la “Terror” del nuovo millennio, trovavano posto la suadente “Another Life”, suggello della vena melodica della band e numerosi richiami ad album precedenti operati da altri pezzi. La sensazione, durante l’ascolto, portava a pensare che fra la maglie delle varie canzoni vi fosse un unico, invisibile, filo conduttore, a tirare le fila dell’ultimo, fondamentale, Sigillo.

Resurrection, di sette anni dopo, incarnò viceversa una rottura, andando a costituirsi man mano da brani dalla genesi differente. Un disco totalmente “libero”, quindi, che poteva permettersi di schierare la stupenda e sensuale “Dyonisus” accanto a una mazzata modernista come “Eaters”, traccia portante di una colonna sonora horror dei giorni nostri per poi chiudere all’insegna dell’ironia e del buonumore sulle note di “Bad Luck”, dedicata ai numerosissimi “gufi” e rosiconi sempre in agguato nel momento in cui vengono tirati in ballo i Death SS, a qualsiasi livello. Resurrection si rivelò un insieme di canzoni autoconsistenti,  slegate fra loro, come a sublimare una ritrovata autonomia d’azione da parte della band e del suo leader.

Nel 2018 prese forma Rock’N’Roll Armageddon, a oggi l’ultimo vagito di casa Death SS, un disco “Straightforward”, diretto, no bullshit: jack nella spina e via di metallo sino al termine. Contrariamente a Resurrection, costituito da brani provenienti dall’ambiente cinematografico o con già dei trascorsi sulle spalle, all’interno di Armageddon i pezzi sgorgarono uno dopo l’altro, a comporre il disco. In modalità classica, insomma. Formidabili i rigurgiti defender emanati dalla invincibile title track e da “Hellish Knights”, heavy fucking metal allo stato brado, alla facciaccia di chi pensa e dice che i Death SS si siano smollati! A completare il quadretto tre espressioni di come si possa coniugare al meglio la vena melodica con gli afflati hard che da sempre marchiano a fuoco qualsiasi prodotto del gruppo: “Madness Of Love”, “Your Life is Now” e l’insuperabile “The Glory of the Hawk”.

Per poter sviscerare però al meglio e ancor di più i retroscena che hanno accompagnato la lavorazione di questi tre album, a loro modo epocali, si è pensato di realizzare le interviste a Oleg Smirnoff, tastierista di ruolo della band e personaggio imprescindibile nel forgiarne il sound da Do What Thou Wilt sino a 7Th Seal,   Al De Noble, chitarrista che proprio fra i solchi di Resurrection debuttò all’interno dell’universo Death SS, marchiandone poi il cammino da lì in poi sino ai giorni nostri e allo stesso Steve Sylvester per RNR Armageddon. Pensieri ed esperienze personali, intime, che vanno ad accrescere il fascino di questi tre imperativi tasselli della parabola artistica del combo pesarese-fiorentino.

Buona lettura.

Steven Rich

 

The 7th Seal: OLEG SMIRNOFF

Sei stato il primo tastierista di ruolo effettivo nei Death SS, una pesante responsabilità in una band che sino a quel momento le utilizzava solo al bisogno e sporadicamente. Cosa pensi di aver fornito in termini di input al suono del gruppo?

Per come la vedo io, nei Death SS le tastiere venivano fin lì usate in maniera forse sporadica, ma sicuramente significativa. Pensa che il primo gruppo heavy metal di cui ho fatto parte mi chiamò proprio per suonare ”Terror” e “parti di tastiera giuste per il metal proprio come quelle dei Death SS. Nei Death SS, e altrove, ho quindi sempre cercato di essere degno di quella definizione: “tastiere giuste per il metal”. Oltre a questo, ho sempre cercato di fornire una certa “varietà di scenari sonori”, che credo sia il compito di chi si occupa delle tastiere in una band.

Da sempre sostengo e ne sono ancora fermamente convinto che i Death SS debbano avere una line-up a due chitarre, dal vivo. In studio se ne potrebbe discutere… Ciò non vuole assolutamente dire che non vi debbano essere le tastiere, ovviamente. Cosa ne pensi, Oleg, tu che hai vissuto dal “di dentro” queste dinamiche?

Se si vanno a vedere le line-up dei gruppi storici dell’heavy e dell’hard rock, si può verificare che dove c’è un tastierista due chitarristi sono davvero troppi. Questo per quanto afferente la situazione in studio. L’unica eccezione a questa regola sono i primi Night Ranger, ma quelli erano musicisti di intelligenza (oltre che bravura) superiore. Per quanto riguarda i Death SS, a  me piaceva molto il suono che avevamo nella formazione a cinque, vedasi il tour di “Horned God of the Witches”. Emil Bandera si esibiva con due  ampli e due casse e aveva un suono galattico, non si perdeva potenza e il tutto era estremamente dinamico e preciso. Poi, anche visivamente, la Morte ha un altro impatto rispetto allo Zombie, che onestamente è un po’ da ragazzini. Spero, con quest’ultima cosa che ho detto, di non essermi fatto troppi nemici. Va beh, dai, passiamo alla prossima domanda…

Come consideri 7Th Seal a livello di peso specifico all’interno della parabola artistica dei Death SS?

Un album concettualmente e musicalmente un po’ al di sotto dei precedenti tre, che riflette il momento storico e che giustamente chiude un ciclo affinché poi se ne apra un altro.

Quali sono i pezzi nei quali hai fornito il tuo contributo principale?

Non saprei davvero dirlo… Le canzoni, fra l’idea iniziale e il risultato che poi è apparso su disco, hanno avuto diversi stravolgimenti nella struttura e negli arrangiamenti. Tutti i brani dell’album furono originariamente elaborati nello studietto a casa mia, per cui ho messo le mani un po’ su tutti. Alcuni nascevano lì, altri arrivavano sotto forma di idee su cassetta e lì venivano ri-registrati da me, Steve, Bandera e Chaney.

Qual è la canzone del disco alla quale sei più legato e perché.

Forse “SIAGFOM”, un pezzo che avevamo registrato nel ’99 per il singolo di “Scarlet Woman” ma poi avevamo scartato perché era troppo nello stile dei Nine Inch Nails. Andammo a vederli a Milano per il tour di “The Fragile”, e il concerto fu un a cosa inaspettatamente grandiosa. Il primo brano che scrivemmo nei giorni successivi fu SIAGFOM, in cui l’influenza dei NIN era  molto evidente. Ci piacque così tanto che poi lo si volle “rispolverare”, riarrangiandolo, qualche anno dopo.

Seventh Seal è stato registrato a Los Angeles e tu eri là con Steve Sylvester. Immagino ce ne sia da raccontare, Oleg, prego…

Abbiamo registrato tre album negli USA, in tre situazioni molto diverse fra loro.

La prima volta, a El Paso/Jerez per Panic, l’ambiente “di frontiera” e per certi versi malvagio, fu di grande ispirazione per un album che aveva netti connotati mistico/magici. La seconda volta ce ne andammo a Los Angeles per Humanomalies e ci aggregammo alla vita “rock” tipica di quella città, all’epoca già in netto declino. La terza volta (Seventh Seal, ancora a L.A.) fu invece caratterizzata dall’aspetto decadente dell’America dei primi anni del nuovo millennio, quella che abbiamo visto molto spesso espressa in molti film USA dell’epoca.

Io e Steve eravamo in un periodo di casini personali, e dal punto di vista musicale ci trovammo a operare fuori sede, in un ambiente piuttosto ostile, circondati da persone non del tutto limpide e situazioni che imponevano attente analisi e riflessioni. Per cui, fuori dallo studio, rispetto alla volta precedente in cui praticamente ogni sera eravamo a gozzovigliare sul Sunset Strip, ricordo molto tempo passato  a “cercare il silenzio” girando in macchina per zone desertiche e periferie desolate. Oppure a cercare di capire un po’ di più di quella grande città, che di notte è popolata da ogni sorta di disgraziati e gente incasinata. Dalle chiacchierate con gente incontrata di notte, dalle facce di chi sta male, dalle situazioni di contraddizione e degrado viste ogni giorno, si alimentò quella situazione da “fine di un ciclo” espressa nell’album come condizione non solo interna alla band, bensì globale, reverberata in tutto l’occidente e caratteristica di tutto quel momento storico.

Cosa ricordi in particolare delle fasi di registrazione?

Registrammo quel che dovevamo registrare e impostammo il mixaggio, poi ce ne tornammo in Italia anche abbastanza soddisfatti del risultato, e ci mettemmo lì ad aspettare che arrivasse il master del disco finito. Aspettammo diversi mesi, il produttore disse di aver avuto problemi, che probabilmente erano legati al compenso o ad altri fattori legati al vile denaro. A un certo punto io non potei più continuare, trovai tempo solo per fare le foto dell’album e poi mi tagliai i capelli e “andai a lavorare”. Il famoso e tanto atteso master del disco arrivò con un anno di ritardo. Il produttore, rimettendoci le mani dopo chissà quanti mesi, aveva  realizzato un qualcosa di molto diverso da quello che ci aspettavamo di sentire, ma ormai non era più affare mio. A oggi non ho nemmeno mai ritirato le mie due copie del disco.

Ci sono stati normali scazzi durante le fasi di composizione e registrazione?

Ovvio, qualche scazzo c’è stato. Diversa gente è entrata e uscita dalla band in quel periodo, c’è stato un discreto via-vai di bassisti e batteristi. Ma sono scazzi da poco, in confronto a ciò a cui eravamo abituati: nel ’98/’99 le risse fra membri della band erano all’ordine del giorno.

Steve Sylvester: quale il suo approccio a Seventh Seal e quale il suo modus operandi per il disco?

Ricordo uno Steve Sylvester molto più presente nella realtà e concentrato sul presente. In quel momento ragionamenti troppo astratti e atteggiamenti da rockstar sarebbero stati inopportuni e pericolosi per lui e per la situazione generale. Per cui vedemmo uno Steve molto professionale, riservato, organizzato e concreto. Tutti aspetti che lo caratterizzano nella vita di tutti i giorni, ma che fin lì venivano normalmente messi un po’ da parte nei momenti di attività con la band. Tornati da Los Angeles poi io e Steve ci siamo visti piuttosto poco. Ma ricordo che lui era chiamato a occuparsi di svariati aspetti manageriali, e ciò a mio modo di vedere gli ha sottratto energie che invece avrebbero dovuto essere destinate agli aspetti artistici.

Avete scartato dei pezzi da Seventh Seal? Appariranno mai su qualche altro disco?

Non mi sembra che ci siano brani scartati. In compenso le prime versioni di alcuni brani sono così tanto diverse dalle versioni definitive che potrebbero sembrare altri pezzi. E sì, sono sicuro che prima o poi qualcuno le farà uscire su disco, è successo per tutte le altre demo version, anche le più ignobili…

Adoro il pezzo “Seventh Seal”, la title track, uno dei più bei brani dei Death SS, lo considero la “Terror” del nuovo millennio. Cosa ne pensi, Oleg?

Volevamo fare un pezzo “Doom”, lungo e sinistro, nella tradizione di “Terror” e “Black and Violet”, che sono due fra le mie tre/quattro canzoni preferite dei Death SS. Per quel che mi riguarda, tutto l’album avrebbe dovuto suonare così, cupo e sinistro, senza pezzi “frivolucci” tipo “Absinthe” e “Psychosect”.

Fra i provini per l’album ne facemmo una versione che mi entusiasmava: Steve l’aveva cantata alla grande, metteva i brividi, roba che ad ascoltarla veniva da toccarsi le palle, un presagio di sventura planetaria. Il finale era epico e cattivissimo, anche se bisogna ammettere che il riff era un po’ “rubacchiato” ai Black Sabbath. Purtroppo quella che è poi finita su disco non rende assolutamente merito a ciò che questo brano voleva rappresentare, alle emozioni che voleva evocare.

Seventh Seal, a livello di album, segna la tua uscita dai Death SS, quali le tue sensazioni, OGGI , riguardo quello split?

Premesso che sono uscito per motivi del tutto personali ed extra-musicali, riguardando indietro a quei giorni penso che la scelta di uscire dalla band sia stata azzeccatissima, e la rifarei altre mille volte. Ho vissuto un periodo fantastico della band, una parabola in cui sia Steve che tutti i musicisti hanno agito in maniera convinta e incisiva, e questo ha portato a tre album più un live che secondo me sono pietre miliari dell’heavy metal italiano. So che non tutti la pensano così, ma qualche disco l’ho ascoltato, qualche altro l’ho suonato, e ogni volta che da uno stereo passa qualcosa di “Do What Thou Wilt” o “Panic”, immancabilmente mi viene da dire: “Porca miseria, non so come sia venuta fuori, ma questa roba era bella davvero”.

Per nulla al mondo avrei mollato la band ai tempi di “Humanomalies”, ma quando arrivammo a “Seventh Seal” andarmene fu facile, perché la magia per me era svanita. Proporre musica assolutamente personale e fuori da ogni schema e che se ne fotte di ciò che vende o meno, essere “contro” e trattare argomenti scomodi, lottare ogni giorno per non essere normalizzati e sviliti, richiede enormi sforzi…

Steve alla fine aveva un po’ mollato, stressato da molti personaggi che lo strattonavano in mille direzioni e distratto da diecimila minchiate. E nella band, da lì in poi, hanno contato più le performer che i musicisti, con risultati musicali che secondo me rispecchiano al 100% questa situazione. Spero che nessuno si senta offeso da queste dichiarazioni, ma quel che dico è ciò che penso. E più che una critica, vuole essere un’esortazione a riprendere con un’altra convinzione e un’altra consapevolezza le redini di una band che ha la rarissima dote di essere mitica e unica.

Il poster 70 cm x 1 metro contenuto all’interno del picture di The7th Seal

 

Secondo te quali sono i pezzi vincenti di Seventh Seal e perché?

Oltre alla già citata title track, mi vengono in mente altri due brani: il primo è “Venus’ Gliph”, che mi piaceva davvero molto nella versione demo e invece è stato stravolto in senso negativo in fase di produzione. L’altro è “Heck Of a Day” che, al contrario, non mi pareva nulla di che fino a che la produzione, stravolgendolo completamente rispetto al demo, gli ha dato un “vibe” del tutto inedito per gli standard dei Death SS facendone il pezzo forse più “ganzo” di tutto l’album.

Avendo la bacchetta magica cosa cambieresti di Seventh Seal?

Boh, non so da dove cominciare. Con una bacchetta magica probabilmente cancellerei tutto ciò che internamente alla band è passato dal 2003 al 2005. Personalmente, di quel periodo, non ho niente da salvare. Ah, no, due cose invece le salvo: il tour di “Horned God Of the Witches” e il fatto di risuonare, rimettendoci mano per adattarli alla band e al periodo, alcuni brani mitici del passato come “Chains Of Death”, “Cursed Mama” o “Profanation”, fu per me una grandissima soddisfazione.

Due parole sulla copertina del disco, Oleg…

Non sapevo quale sarebbe stata la copertina, perché quando uscì l’album ero già fuori dalla band da più di un anno. Quando la vidi, non fui un gran che contento. L’immagine è molto bella e solenne, ma non è inedita, perché era già stata usata 4/5 anni prima per Rebirth degli Angra.

Snocciola aneddoti di qualsiasi tipo riguardo 7Th Seal… tutto quello che ti viene in mente, anche in relazione a date live in supporto al disco…

Durante la prima stesura dei brani di 7th Seal, autunno 2003, io, Bandera e Chaney facemmo qualche prova per ottimizzare le strutture e gli arrangiamenti. Alessandro, il nostro fonico, ci aveva fornito uno spazio per le prove nel capannone che usava come deposito, in una zona industriale piuttosto isolata e “losca”. Il capannone adiacente era occupato da un night club gestito da un certo Giovanni, il quale una sera prima dell’apertura sentì che di là c’era qualcuno a fare musica, e volendo sdebitarsi con Alessandro che gli prestava sempre utensili e attrezzature, inviò una ballerina russa del night a fare una “lap dance” di ringraziamento.

Ricordo che stavamo suonando “The Healer” e vidi i ragazzi distratti da qualcosa che accadeva dietro le mie spalle. Girandomi vidi questa tipa in pelliccia, bellissima, che faceva la splendida intorno ad un palo del capannone. Sembrava di essere dentro uno di quei video heavy metal degli anni ’80, e noi ovviamente continuammo a suonare. La canzone fu tirata parecchio per le lunghe, quando arrivò in fondo lei finì di ballare e disse qualcosa tipo “Giuovàni ringràzzia”. Mentre noi applaudivamo, lei si rimise la pelliccia e tornò di là. E noi continuammo le prove con “Der Golem”… Ah,ah,ah!

 

Resurrection: AL DE NOBLE

Sei subentrato a un chitarrista come Emil Bandera, il più prolifico e longevo axeman dei Death SS. Una bella responsabilità. Cosa pensi di aver fornito in termini di input tuoi personali al suono della band?   

Ciao! Oramai sono tredici anni che suono nei Death SS band e ne sono molto felice. Personalmente credo di aver avuto all’interno della band un approccio completamente diverso rispetto ai precedenti chitarristi. Sono sempre stato anche un compositore ed una persona molto propositiva, scrivo ed ho scritto per molti artisti conosciuti e non, oltre che per le altre band in cui militavo dapprima del mio ingresso nei Death SS. Ovviamente ho messo questa mia capacità al servizio del gruppo e sono diversi i brani a cui abbiamo lavorato assieme, cosa che a quanto pare precedentemente non era proprio cosi scontata. Inoltre avendo da sempre sviluppato l’ambito organizzativo dei live, da circa cinque anni seguo anche quello e la band sta riscuotendo ottimi risultati anche sotto quel frangente.

Come consideri Resurrection a livello di peso specifico all’interno della parabola artistica dei Death SS?

Resurrection è un disco un po’ spartiacque, nato dopo la fine di un ciclo e penso che sia una sorta di “fenice” capace di ridare splendore alla band, con diverse novità dovute proprio al cambio di line-up. Ritengo possieda una certa valenza ed è stato in grado di dimostrare che il nuovo ciclo dei Death SS può  andare avanti a lungo, cosa che sta accadendo effettivamente.

Quali sono i pezzi nei quali hai fornito il tuo contributo principale?

The Crimson Shrine, The Darkest Night, Resurrection e Precognition; le musiche dei brani sono mie, le melodie e testi di Steve.

Qual è il brano del disco al quale sei più legato e perché?

Credo proprio The Crimson Shrine, è un pezzo davvero ben riuscito, in linea con la vena più esoterico/misteriosa della band, ha un grande ritornello ed un inizio davvero vincente, dal vivo ottiene sempre un grande riscontro.

Cosa ricordi delle fasi di registrazione?

Ricordo un ottimo clima, di collaborazione. La gestazione è stata un po’ lunga, perché affrontavamo un pezzo alla volta, per cui non proprio una registrazione semplice, ma c’era voglia di far bene per questo disco.

Steve Sylvester: quale il suo approccio a Resurrection e quale il suo modus operandi per il disco?

Steve è un perfezionista ed il suo operare a oggi mi pare sia, più o meno, sempre uguale: una volta scelto il concept artistico e visivo del disco, studia e coordina tutto: pezzi, costumi, video, artwork, foto. Diventa decisamente un uragano di informazioni e partecipa attivamente su tutto. Lui conosce benissimo il genere di cui è precursore e pioniere , per cui ha sempre le idee molto chiare.

Ci sono stati normali scazzi durante le fasi di composizione e registrazione?     

Normali incomprensioni, che si risolvono sempre in maniera molto semplice, discutendone.

Avete scartato dei pezzi da Resurrection? Appariranno mai su qualche altro disco?

Non si scarta mai nulla nei Death SS, perché tutti i brani vengono lavorati al meglio, spesso gli “esclusi” dal disco vengono pubblicati come B-side dei numerosi singoli.

Resurrection è stato il primo album dei Death SS con una copertina “fumettistica”. Cosa pensi di quel disegno e dell’idea in sé?  

La tavola originale di Emanuele Taglietti è un’opera d’arte e racchiude appieno il senso di “Resurrection”. Sono un fan dei comics per cui c’è anche la soddisfazione di essere raffigurato in quello stile insieme alla band.

Il poster 70 cm x 1 metro contenuto all’interno del picture di Resurrection

 

Secondo te quali sono i pezzi vincenti di Resurrection e perché?

The Crimson Shrine, ma anche Dionysus, che ha un sapore new wave, è arrangiato molto bene, con un grande chorus. Eaters mostra bene il lato moderno della band e The Darkest Night ha un piglio metal più old school, che mancava da un po’ alla band.

Avendo la bacchetta magica cosa cambieresti di Resurrection?

Sicuramente opterei per una dinamica di registrazione differente, questo semplicemente perché incontra il mio stile di produzione musicale.

Snocciola aneddoti di qualsiasi tipo riguardo Resurrection… tutto quello che ti viene in mente, anche in relazione a date live in supporto al disco…

L’aneddoto principale riguarda la prima data del tour al Live Club di Trezzo, personalmente ero teso, perché era un banco di prova atteso e ricordo che ad apertura porte non vedevo il movimento di fan che avrei sperato per cui sono andato verso i camerini per il trucco un po’ pensieroso. In procinto di salire sul palco invece, appena si sono spente le luci ed è partito Ave Satani è esploso un boato enorme, segno che l’attesa c’era e quando sono salito sul palco ho visto il live pieno è stato un momento davvero molto bello! In studio per lo più i viaggi di ritorno a notte fonda, dove ci tenevamo svegli a vicenda insieme a Bozo. Molto divertente anche il Metal Camp Sicily, dove è successo di tutto e in più e siamo stati costretti a salire sul palco alle 2.30 di notte. Ma nonostante quello i fan erano lì ad attenderci e sostenerci!

Spazio a disposizione per chiudere come vuoi. Grazie.

Grazie a te, Steven, in primis ma permettimi di ringraziare di cuore tutti i fan che seguono la band: sono persone speciali, davvero devote alla nostra musica.

 

Rock’N’Roll Armageddon: STEVE SYLVESTER

RNR Armageddon l’ho definito un disco “Straightforward”, cioè diretto, nella sua composizione, in pieno spirito Rock’N’Roll: fuoco e fiamme e via! Concordi? Mi confermi che il termine Rock’N’Roll all’interno del titolo è stato messo proprio per il mood descritto sopra, come immagino?

Si! Sicuramente “Rock’N’Roll Armageddon” ha avuto una genesi molto più lineare e diretta rispetto al suo predecessore, “Resurrection”. E’ stato composto, arrangiato e registrato in tempi relativamente più brevi e in modo molto più “live”, appunto perché cercavo di realizzare qualcosa di più immediato e rock’n’roll come hai giustamente notato anche tu, che rispecchiasse appieno quello che era il nostro mood all’epoca.

Svela qualche retroscena o qualche aneddoto legato ai pezzi più defender del lotto: l’inno RNR Armageddon (la title track) e Hellish Knights. Poi, più semplicemente, narra della genesi dei due pezzi.

Entrambe le song provengono da delle demo che avevo realizzato già dai tempi di “Heavy Demons”. Si trattava solo di abbozzi di melodie che avevo canticchiato su di un mini-registratore portatile e poi riposto in un cassetto per tutti questi anni. Molte delle mie canzoni nascono in questo modo. Quando mi viene in mente un refrain o una particolare linea melodica,  se posso corro a registrarla in qualche modo, per poi aspettare il momento giusto per rispolverare l’idea e farla diventare una canzone. Dopo “Resurrection” sentivo l’esigenza di concentrarmi su qualcosa di anthemico, dal gusto un po’ “ottantiano” e mi sono quindi ricordato di quelle demo.

RNR Armageddon, il brano, immagino non uscirà più dalla vostra scaletta live da qui all’eternità, sia per la forza che sa esprimere la stessa canzone sul palco, in termini di coinvolgimento, che per via del ballo sexy di Dhalila e Jessica vestite da poliziotte, performance che risulta essere particolarmente apprezzata… Confermi?

Penso di si, ma non te lo posso confermare con sicurezza… Sicuramente il brano in questione si presta perfettamente per essere eseguito e cantato coralmente dal vivo assieme al pubblico, e abbiamo già avuto il modo di constatarne l’ottima resa live, ma in genere la nostra scaletta viene decisa da tutta la band all’ultimo momento, quando abbiamo in programma uno show ben determinato…

Premettendo che trattasi di album di sicura valenza e peso specifico, RNR Armageddon è uscito “naturale” e diretto, senza tante elucubrazioni né impalcature, a differenza della stragrande maggioranza dei dischi dei Death SS, che viceversa prevedono un lungo lavoro di ricerca e di sviluppo dei concetti, anche a livello visivo e iconografico. Com’è  nato, nella tua mente? Come hanno preso forma le canzoni? In qualche modo ti sei sentito più “libero” che in altre occasioni, di spaziare a piacimento e di comporre?   

RNR Armageddon affronta principalmente delle tematiche “orrorifiche” molto più reali e concrete del solito immaginario deathessesiano. Accanto ai classici argomenti goth-esoterici che ci contraddistinguono, al suo interno puoi trovare molti riferimenti all’attualità: dall’impegno  ambientalistico (la title-track) e animalista (Slaughterhouse), alle problematiche razziali (Promised Land) e guerrafondaie (The Fourth Reich). Per questo motivo richiedeva anche un tipo di una produzione più asciutta ed immediata.

Il poster 70 cm x 1 metro contenuto all’interno del picture di Rock’N’Roll Armageddon

 

Per chiudere, ricordi, chicche sulla genesi e tue considerazioni  per le altre tre perle contenute dentro il disco: Madness Of Love, Your Life Is Now e The Glory Of The Hawk.

“Madness of Love”, song che amo molto, era un brano che originariamente avevo pensato per i W.O.G.U.E., ma essendo quel progetto ancora congelato fino a data da destinarsi,  non volevo consegnarlo ad una sorta di limbo ed ho quindi pensato di riadattarne le sonorità e proporlo per i DEATH SS. “Your life is now” e “The Glory of the Hawk” nascono invece come B-sides di singoli dell’era “Resurrection”.  La prima avrebbe dovuto accompagnare il CDs di “Eaters” e la seconda faceva parte delle back-track di “Dionysus”. Alla fine ci siamo però accorti che, vista la qualità di queste composizioni,  sarebbe stato uno spreco relegarle in quel contesto, per cui sono state ri-registrate e proposte nell’album.

 

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti