Cliff Burton (10/02/1962 – 27/09/1986)

Di - 27 Settembre 2006 - 1:31
Cliff Burton (10/02/1962 – 27/09/1986)

When a Man Lies He Murders
Some Part of the World
These Are the Pale Deaths Which
Men Miscall Their Lives
All this I Cannot Bear
to Witness Any Longer
Cannot the Kingdom of Salvation
Take Me Home

Una sbandata improvvisa, il contro-sterzo disperato quando ormai la carreggiata è lontana, il testacoda inevitabile. Poi lo schianto. È la questione di un attimo: la quiete dell’alba è infranta dal fragore delle lamiere in un abbraccio di ghiaia e asfalto, tra le sperdute campagne svedesi. Sono le 06:30 del 27 settembre 1986, in viaggio verso Copenaghen. Il tour-bus si ribalta su un fianco come un pachiderma abbattuto, l’impatto è micidiale; a bordo riposano Metallica e crew al seguito, in viaggio per promuovere il neonato Master of Puppets. Nel buio delle cuccette rovesciate il risveglio ha le note dello scompiglio e delle urla che si mescolano copiose, così alte nel silenzio surreale della mattinata. Lo spavento iniziale si ridimensiona via via che la band, ripresa coscienza, esce dall’abitacolo con le proprie gambe; il bilancio ha del miracoloso: James Hetfield e Kirk Hammett se la cavano con un paio di abrasioni, Lars Ulrich ha un alluce fratturato, il resto della comitiva colleziona lividi e contusioni. Solo Cliff Burton manca all’appello: i compagni, semi-nudi sul ciglio della strada, scorgono due gambe sporgenti dal ventre della vettura. È finita. Ecco il tributo di sangue, diabolico nella sua ciclicità, doloroso eppure inevitabile, che da sempre (e per sempre) accompagna i passi della musica rock.

Spirito libero.


Clifford Lee Burton

sarà sempre ricordato come un personaggio stravagante, geniale senza essere eccentrico, brillante ma con i piedi ben piantati per terra. Nasce il 10 febbraio 1962 da Ray e Jan Burton, nella San Francisco che vent’anni dopo si rivelerà fucina inesauribile di talenti. Con il basso è amore a prima vista, nel 1978: a sedici anni compiuti, dopo i primi mesi di rodaggio, Cliff si affida all’ala protettrice di vari maestri, animato dal desiderio costante di migliorare tecnica e teoria; un percorso che lo porta a esercitarsi sui grandi del jazz (Stanley Clarke è uno degli artisti prediletti) e che si proietta fino agli studi di musica classica, ispiratori dell’amore per Bach e dei compositori barocchi. I primi passi mostrano già gli ingredienti di un grande talento: una tenacia straordinaria, tutta riversata nella passione per lo strumento, e l’eclettismo mai celato di un musicista che rifugge i cliché e attinge da qualsiasi stile congeniale ai suoi intenti. Sono gli anni (1978-1980) del primo Rickenbacker, delle jam stralunate con Jim Martin (poi nei Faith No More), dei concerti chiassosi e irriverenti, ma anche dei pantaloni a zampa e della celebre Volkswagen verde: espressioni diverse di uno spirito libero e assolutamente fuori dagli schemi.

Fuoriclasse in erba.

Dopo la gavetta con Agents of Misfortune (una storpiatura del celebre album targato Blue Öyster Cult) e EZ Street, il salto di qualità coincide con l’ingresso nella formazione di Trauma, band che nei primissimi anni Ottanta gode di un discreto seguito nella Bay Area. L’apice artistico rimarrà la partecipazione al secondo volume di Metal Massacre, ma i più ricordano il gruppo per aver lanciato un musicista folle e carismatico, i cui frequenti assoli di basso a intreccio con i riff di chitarra costituivano un elemento inaudito nei concerti locali. Tra i fan di Burton spicca un certo Brian Slagel, all’epoca giovane boss della Metal Blade, che non esita a decantarne le lodi ai quattro venti; la voce arriva fino a Los Angeles, campo-base di quattro teen-ager che si preparano al grande salto: Metallica. Complice un rapporto non idilliaco con Ron McGovneyaffaire che meriterebbe un capitolo a parte – Lars Ulrich e James Hetfield approfittano dell’assist e alla prima occasione si precipitano a uno show dei Trauma. A fine serata, impressionati da uno spettacolo a base di headbanging forsennato e basso in primo piano, i due formulano la prevedibile offerta: la risposta è negativa. È il trionfo di una personalità magnetica: Burton cederà soltanto dopo settimane di trattative e telefonate, costringendo di fatto i futuri compagni a trasferirsi in blocco nella sua città; pur garantendo in fin dei conti la sopravvivenza del gruppo (la scena losangelina è in balia di Ratt, Motley Crue e colleghi), Burton si cala immediatamente nei panni del leader spirituale, figura fin troppo sottovalutata in virtù del più pragmatico Ulrich – autentico responsabile delle pubbliche relazioni – o dello scatenato Hetfield.

Quarantacinque mesi in rapida ascesa.

Il battesimo dal vivo risale al 5 marzo 1983, al noto Stone di San Francisco. Il quartetto ha alle spalle qualche mese di allenamento (le prime prove sono datate 28 dicembre 1982) e confeziona un set devastante, memorabile per il debutto di (Anesthesia) Pulling Teeth, biglietto da visita del nuovo arrivato. L’ingresso di Burton è responsabile di un arricchimento tecnico-teorico che, non potendo plasmare il materiale di Kill ‘em All, costituirà un’influenza vitale nel salto di qualità registrato con Ride the Lightning, capolavoro che identifica nello sposalizio tra irruenza e progressione la sua anima fondante; pur riconoscendo ad altri i principali meriti artistici, non è banale attribuire all’avvento del bassista (capace di amare Rush, Misfits e Thin Lizzy) lo slancio necessario per traghettare i Metallica da giovani promesse a leader del settore. Il successivo Master of Puppets celebra una formazione matura e ormai padrona dei riflettori, in cui il talento di Burton non è un vanto da sfoggiare ma l’ingranaggio insostituibile di una macchina ben oliata: pregevole il suo apporto a Damage INC. e Orion, come già per The Call of Ktulu e For Whom the Bell Tolls. Qualche anno prima aveva detto alla madre: ‘Ho intenzione di fare il musicista professionista. Voglio guadagnarmi da vivere come musicista‘. Missione compiuta.

Il baratro.

Il 27 settembre 1986 l’universo dei Metallica crolla assieme al tour-bus, vittima di un incidente ancora oggi dalle tinte oscure. In diciotto metri di asfalto si esauriscono i sogni e si spegne una giovane vita, innocente quanto indifesa vittima di un errore umano. Ghiaccio assassino? Colpo di sonno? Guida in stato di ebbrezza? Le ipotesi si rincorrono e si smentiscono, ma non possono colmare il vuoto che attanaglia i sopravissuti: tra i sensi di colpa di Hammett (che avrebbe tirato a sorte con Burton per aggiudicarsi la cuccetta dal lato del finestrino) e lo sgomento di Hetfield, il gruppo annulla ogni impegno e si ritira in un silenzio profondo, condito da lacrime e rimorsi. Alla fine la decisione è presa: l’avventura continua, come avrebbe voluto Cliff. Inutile piangersi addosso, l’unica cosa da fare è sfogare tutta la propria frustrazione sul palco, l’unico modo per elaborare il trauma del lutto – questo, in sintesi, il pensiero dei Tre Cavalieri, orfani di un fratello. Arriverà Jason Newsted (già Flotsam & Jetsam), ma questa è un’altra storia…

Vent’anni dopo, il ricordo di Cliff è vivo nelle note di una musica mai scalfita dal tempo. Lasciate da parte, almeno per un istante, sterili disquisizioni sui passi successivi dei Metallica (non si vive di se e di ma) e concentratevi sulla memoria di un artista autentico, ucciso dalla sventura ma per sempre presente nelle pagine dorate dell’Heavy Metal tutto.