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Dark Lunacy (Mike Lunacy, Daniele Galassi, Jacopo Rossi, Alessandro Vagnoni)

Di Daniele D'Adamo - 4 Giugno 2014 - 23:35
Dark Lunacy (Mike Lunacy, Daniele Galassi, Jacopo Rossi, Alessandro Vagnoni)

 

Ciao ragazzi e grazie per essere qui con noi a discutere di musica. Dopo “The Diarist”, anche questo vostro nuovo lavoro torna al tema storico della Seconda Mondiale. L’impressione ormai consolidata è quella di una fortissima suggestione scaturita dagli eventi di quel periodo. Come nasce questo interesse?

Mike: grazie a te e a tutta la redazione di Truemetal.it per l’opportunità che state dando ai Dark Lunacy nel presentare “The Day Of Victory”. La mia passione verso il contesto storico della seconda guerra mondiale è nata parecchi anni fa in occasione di un viaggio che feci in Russia e più precisamente a San Pietroburgo. Un soggiorno che segnò profondamente la mia vita. Durante la mia permanenza in questa meravigliosa città, entrai in contatto non solo con un’atmosfera straordinaria, dettata dalle sue ineguagliabili strutture architettoniche, ma soprattutto con la sua storia. Un passato importante che trasuda, in modo così forte e al contempo naturale, da ogni angolo, piazza, giardino o palazzo che incontri camminando lungo le sue strade; ma quello che più mi colpì, furono i segni che la seconda guerra mondiale lasciò in questa città e che tutt’oggi, sono ancora ben visibili. Fino a quel momento, San Pietroburgo e la Russia mi avevano affascinato principalmente sotto il profilo culturale legato ai grandi scrittori dell’800 che lì nacquero e vissero, fu questo a motivare inizialmente il mio viaggio: ma un giorno, per una pura coincidenza (a causa delle indicazioni in cirillico) sbagliai la fermata del metrò e mi trovai davanti ad un enorme obelisco che sorgeva al centro di una rotatoria cittadina. Preso da una forte curiosità e dal desiderio di sapere, mi avvicinai alla base di questo maestoso monumento e notai un portone aperto: vidi una lunga scala e iniziai a scendere i gradini fino a ritrovarmi al centro di una piazza sotterranea. Questa piazza altro non era che un immenso museo in memoria dell’assedio che la città, allora chiamata ancora Leningrado, si trovò a fronteggiare tra il 1941 e il 1944. Un museo di una severità imponente, reso ancor più austero dal buio che lo abbracciava entro un’oscurità quasi palpabile smorzata a tratti da sporadiche candele rosse dislocate in punti ben precisi, a illuminare ora un’icona, ora una fotografia, ora un reperto bellico e così via. Quella fu la prima volta che incontrai la storia dei 900 giorni di Leningrado. Una testimonianza d’inaudita potenza, che attraverso l’atmosfera scaturita dai cimeli intorno a me, raccontava la sofferenza, la morte, il gelo senza tregua… ma anche la passione, il coraggio e l’eroismo di un popolo. Quando riuscii a realizzare la realtà che stavo respirando, improvvisamente qualcosa esplose dentro di me e da quel momento la mia vita cambiò, ancora oggi, a distanza di dieci anni, rivivo l’emozione di quei momenti.

Dalla pienezza e intensità del tuo racconto, si resta spiazzati nel leggere che sia accaduto da dieci anni! Alcuni viaggi, vissuti interiormente, metabolizzati, mischiati all’aria che si respirerà nel tempo a venire, hanno questo potere miracoloso e silenzioso di poter nutrire e modificare profondamente parti importanti di noi stessi. La Seconda Mondiale, nella sua triste e sorprendente varietà di prospettive ed episodi, presenta uno spettro vastissimo di spunti; perché avete scelto di puntare il focus della vostra attenzione sugli episodi relativi all’azione finale dell’Unione Sovietica?  

Mike: tante volte mi sono chiesto che cosa sarebbe successo se il destino non mi avesse portato a quell’obelisco. Come dicevo, già allora la passione per la cultura Russa era ben radicata in me, ma la forza dei 900 giorni di Leningrado sprigionarono in me sentimenti ancora più forti. Da quel momento divenne un dovere, usare ciò che era in mio potere, per far conoscere al mondo questa storia. Da qui, lo scenario storico del conflitto mondiale e quello territoriale dell’Unione Sovietica divennero il conseguente scenario di ogni mio progetto.

Possiamo quindi considerare “The Diarist” e questo vostro nuovo lavoro due parti di uno stesso discorso. Parliamone allora come di un’opera unica senza isolare il vostro ultimo album: avete messo in musica l’assedio di Leningrado e poi la battaglia di Stalingrado. Perché questi due episodi? In che modo e perché l’universo musicale Lunacy si ritrova e completa proprio qui?

Mike: due città della stessa patria, ma due assedi differenti. A Stalingrado si combatteva armi in pugno, casa per casa, strada per strada, mattone dopo mattone, l’invasore avanzava dal Volga senza tregua e ogni quotidiana battaglia, viveva un dramma quasi irreale, poiché durante l’ingaggio con il nemico non vi era neppure il tempo di accorgersi di morire. A Leningrado fu diverso: il nemico circondò la città in modo che nessuno potesse né entrare né uscire. Lo scopo era quello di farla morire lentamente, una morte lenta, quasi senza sparare un colpo: due destini condannati a due differenti agonie. Ma è a questo punto che accade ciò che l’invasore non ha previsto. Un popolo assediato, sfiancato, in procinto della fine, promette: «resistere fino all’ultimo respiro». Un popolo intero che, come un sol uomo, trova la forza di rialzarsi. Le gesta eroiche diventano il credo quotidiano sul quale marciare passo dopo passo, cuore a cuore e le sorti della storia vengono rovesciate. Un credente lo chiamerebbe miracolo, i Dark Lunacy lo chiamano “il giorno della vittoria”, l’epopea di un popolo che,  per chi ti sta parlando in questo momento, rappresenta l’emblema di una resistenza senza eguali, un insegnamento per tutti, da ricordare costantemente nelle nostre quotidiane difficoltà.

 

Si può strutturare un discorso di contenuti a tema storico ma affinché questo trovi una sua credibile via musicale, è necessario che la musica si adatti alle atmosfere dei testi: centrale, in tutti e due i dischi, l’uso dei cori dell’Armata Rossa. Raccontami come nasce questa tua passione, dove ti ha condotto e perché nell’immaginario della tua sensibilità, è questa musica a rappresentare la suggestione di un’epoca.

Mike: la passione per i cori dell’Armata Rossa nasce molti anni prima della nascita dei Dark Lunacy. Poc’anzi ti accennavo che già all’epoca del nostro debutto discografico con Devo e più precisamente nella canzone che porta il nome di “Forlorn”, tale passione era venuta alla luce. Fin da ragazzino, per mezzo di una vecchia collezione di vinili arrivata a casa mia direttamente da Mosca, mi sono immerso in queste musiche all’apparenza così austere, ma al contempo cariche di un pathos senza eguali. Un insieme così evocativo di potenza, malinconia e forza in grado di suscitare in me autentiche esplosioni emozionali, ovviamente non tutti assaporano le cose allo stesso modo, per quanto mi riguarda posso solo dirti che ciò che ho provato è stata una sorta di contaminazione sensoriale. Per questo, nel momento in cui mi sono trovato nella condizione di poter realizzare il mio primo disco, lo slancio, se vuoi ambizioso, se vuoi irriverente o se preferisci coraggioso, mi ha portato ad osare tanto. Il resto, si è evoluto negli anni in un crescendo che, disco dopo disco, ha accompagnato il mio percorso ed ha forgiato l’identità musicale che oggi senti all’interno di una canzone firmata Lunacy.

Musica corale e death metal. Hai mai dubitato di questo connubio? L’ispirazione è stata vincente ma dietro le quinte di questo sipario storico ti chiedo: fino a che punto l’inserto dei cori tradizionali arricchisce la vostra musica e fino a che punto invece credi possa limitarla?

Dan: in “The Day Of Victory” i cori dell’Armata Rossa sono stati l’elemento centrale dal quale ho cominciato a sviluppare i riff portanti, mantenendone la melodia e giocando con l’armonia, in modo che cori originariamente ancorati a sonorità tipicamente maggiori suonassero ora più cupi, ora più solenni, ora più struggenti. In questo senso sono stati per me un’infinita fonte d’ispirazione, andando a delineare un modus operandi completamente nuovo in fase compositiva che mi ha dato una spinta creativa notevole. Il limite non è musicale, ma è di altra natura, se consideri la situazione geopolitica attuale: ma la nostra è un’opera che vuole andare oltre a queste contingenze e abbracciare la storia in un’ottica più ampia. Senza la magnificenza di questi cori, “The Day Of Victory” sarebbe solo un gran bel disco di death metal melodico con inserti sinfonici. Qui c’è molto, molto di più.

I bambini, Mike. Sono una presenza forte nel disco. Non é un caso che nella campagna promozionale sia presente, in manifesto, un bambino vestito da marinaio. Esprimono giovinezza, un senso del mondo proprio perché loro stessi non chiedono conto a nessuno del “senso”, lo esperiscono spontaneamente, nel mondo così com’è quando l’umanità si fa umile al cospetto di quanto domina e distrugge.

Mike: l’umanità non è mai stata capace di guardare all’innocenza o meglio l’uomo nasce innocente, ma crescendo, nessuno è in grado di trattenere questo dono immenso e senza accorgersene lo lascia fuggire per ritrovarsi adulto e prigioniero della propria esistenza. Credo sia per questo che le guerre sono sempre esistite e purtroppo continueranno ad esistere; io stesso che in questo momento mi sto raccontando in questa intervista, mi rendo conto di quanto oggi sia incapace di guardare il mondo con innocenza. Non so cosa darei per ritornare a gioire solo per il piacere di dare un calcio a un pallone con i miei compagni di giochi e ritornare a credere, così come all’ora, cullato dalla fanciullezza, che il mondo è un luogo di pace per tutti, dove tutti possono giocare insieme. La vita, purtroppo, nel suo riappropriarsi del dono che ci ha dato, ci ha mostrato l’altra faccia della medaglia, ci ha fatto conoscere la malvagità e la cattiveria, ci ha rivelato che se in una città come Parma i bambini possono giocare a pallone, dall’altra parte del mondo muoiono di fame, di guerre sante, di guerre per la supremazia economica e razziale. Ci sono figli che possono permettersi ogni capriccio, altri dentro ad un barcone di fortuna aggrappati alla madre che tentano di non annegare mentre attraversano il mare in fuga da carestie e persecuzioni. Oggi noi pensiamo che il crollo del muro di Berlino sia il simbolo della libertà e di un mondo buono che ha vinto sui tiranni della terra, beh… mi piacerebbe fare questa domanda al bambino cingalese che cuce palloni quindici ore al giorno, a quello nelle favelas brasiliane che sniffa colla, a quello nelle strade di Calcutta che viene accecato con l’acido perché così suscita più tenerezza al turista, quello stesso turista che nei bordelli Tailandesi compra sesso a ragazzine senza futuro. Per questo, nelle mie tormentate indignazioni e con quel briciolo di fanciullezza che ancora voglio tenere stretta a me, mi sono sentito in dovere di scrivere quest’album e dire ai nostri figli che la fanciullezza è molto più forte, molto più potente, molto più grande del futile simbolismo di un muro che crolla. È la fanciullezza che dobbiamo onorare e venerare resistendo fino all’ultimo respiro per tenerla stretta a noi.
 

E poi i suoni. I suoni frammisti alle melodie: il suono di un carillon, i passi nella neve, il fischio di un treno; è come se la vostra musica sovrastasse, ipostasi della guerra e del conflitto interno ad ogni essere umano immerso in questo contesto, un tracciato tenero come un germoglio fatto di suoni appartenenti ad un mondo silenziato. Qual è il ruolo di questi ‘suoni’ all’interno della vostra poetica musicale?

Alex: avendo curato registrazione e mix del disco nei qualificatissimi Plaster Studio e avendo suonato, oltre alla batteria, anche alcune tracce di tastiere e synth, ho voluto implementare il carattere drammatico e fiero delle canzoni. Il suono in apertura di “Sacred War” è una celesta, elemento classico così come i violini che Giuseppe Cardamone (Oloferne, Duality) ha registrato per noi. I sample dei passi, il treno, il vento e la fisarmonica (suonata da Danilo Vecchi) e le chitarre acustiche sono il ‘legante’ ma rappresentano anche le sfumature e le velature (come in un dipinto) rispetto alla possente intelaiatura di chitarre, basso e batteria; in termini di tavolozza sonora, sono state fatte scelte diverse sia rispetto a “The Diarist” sia a “Weaver Of Forgotten”. Credo questo disco sia il più ‘organico’ a livello e compositivo e di produzione.

E il disco, Alex, si lascia proprio figurare in queste fattezze: per ‘sfumature e velature’ che una robusta intelaiatura di chitarre e batteria tiene ferma omogeneamente e con vivezza espressiva. L’utilizzo di una voce femminile e di chitarra acustica con violino, rafforzano questa suggestione di una sorta di ‘traccia’ nascosta lungo tutto il corso principale del disco. Insieme ai ‘suoni’, queste tre componenti strumentali tratteggiano con maggior forza l’immagine di un mondo evanescente nella bruma di guerra. Di là di quelle che possono essere interpretazioni altrui, raccontami della funzione di questi elementi, del perché è necessaria la loro presenza.

Dan: è necessaria perché “The Day Of Victory” è un viaggio. E un viaggio per essere interessante deve saper esplorare scenari differenti. Ma non solo. La materia trattata è essa stessa chiaroscurale: guerra, morte, rinascita, vita, onore, fallimento, riscatto, vendetta, sofferenza, gloria. La matrice è complessa e come tale ha bisogno di elementi diversi, talvolta apparentemente ossimorici, per essere tradotta in musica.

A leggere notizie di oggi, sembra che certi orrori, alle porte della presunta Europa civile e unita, non siano finiti e che dagli errori, com’è noto, non si ami imparare. C’è un motivo preciso per cui questo disco, con il suo messaggio ed il suo ‘memento’, esce nell’Italia di oggi?

Mike: certamente. “The Day Of Victory” racconta le gesta eroiche del patriottismo. La strepitosa resistenza di milioni di donne e uomini che in Russia, come in tutte le nazioni dell’Europa democratica si levarono unite e come un sol uomo sconfissero “l’impero della morte”. L’album è un invito a non dimenticare il sacrificio di chi si lanciò a mani nude contro i carri armati per dare un avvenire di pace ai propri figli. Oggi, ciò che fa più male è questa totale perdita della memoria storica. Nel nostro paese (l’Italia) la maggioranza dei cittadini sa con precisione a che ora giocherà la squadra del cuore, ma se gli chiedi cosa rappresenta il 25 aprile, non lo sa. Questo credo riassuma il tutto. L’Europa invece la definirei un insieme di vuotezza senza eguali. Il padrone chiama e lei abbaia a comando. Mi piacerebbe andare oltre ed approfondire, ma oggi siamo qui a parlare di musica e appunto per l’occasione, vorrei limitare il discorso politico; anche perché la politica – quella vera – esige un contraddittorio. Esplicare a fiume il mio pensiero politico senza un interlocutore con diritto di replica, dà alle mie esternazioni un’aria di presunzione che non trovo corretta nei confronti di chi non la pensa come me, ma che non ha la fortuna di avere la medesima visibilità di chi ti sta parlando.

Stimo moltissimo questa tua risposta, Mike; è di una pacatezza oltre che di una severità rara ormai in questo paese. Mi sono sentito in animo di porti questa domanda in nome di quella sensazione di fortissima ‘autenticità’ che scaturisce dal tuo, Vostro progetto musicale. Personalmente la ritengo una risposta per intelligente per ‘intelligenze’ vere, quale che sia la loro parte. L’equazione dovrebbe essere semplice: seconda guerra mondiale; guerra; cori dell’Armata Rossa; death metal. Risultato: musica devastante e testualità improntata all’eroismo ed a tutti i cliché musicali e testuali di rito. Quindi un disco come centinaia di altri nel genere. Fortunatamente nulla di tutto questo accade in “The Day Of Victory”, eppure il death metal e il vostro modo unico di suonarlo sporcato, magicamente, da tinte heavy, non escono traditi da questa prova. La voce di Paolo Ojetti degli Infernal Poetry sembra esser lì a ribadirlo. Ora, a seguire questo percorso mi sono chiesto: in termini di personalità e contenuti quanto il metal di oggi dovrebbe osare e quanto invece poco osa?

Jack: non credo che nel metal moderno si osi poco o si osi meno che nel passato, ma credo che sia ovviamente più difficile tirare fuori qualcosa di nuovo. Ogni genere musicale, o corrente artistica, quando nasce offre un ampio spettro di possibilità d’espressione che, col passare dei decenni, si riduce esponenzialmente. All’inizio sembrano tutti avere idee geniali e le band compongono un capolavoro dietro l’altro, ma è naturale che sia così. Non voglio con questo sminuire nessun mostro sacro, ma solo sottolineare quest’aspetto che, seppur ovvio e molto evidente, è spesso ignorato. È il ciclo delle cose. Questo non vuol dire che ormai sia già stato detto tutto, ma semplicemente che trovare anche il più piccolo elemento innovativo richiede molto lavoro e doti. In aggiunta a questo discorso c’è anche il fattore, non trascurabile, della quantità di dischi presenti oggi sul mercato. Una volta entravano in studio di registrazione solo i migliori, perché i costi erano elevati e i posti erano pochi. Ora, con l’avvento del digitale, tutti possono fare un disco e giustamente lo fanno, ma il rovescio della medaglia è che non c’è più alcun tipo di scrematura; quindi se un tempo uscivano, per ipotesi, dieci dischi all’anno (perché gli altri 990 non erano all’altezza) ora ne escono 1000 e uno deve faticosamente rovistare in questo mucchio per trovare i dieci dischi di valore, con l’impressione che ci sia una diminuzione generale di contenuti.
 

Te lo chiedo perché un grandissimo problema di questa nostra musica è la caduta frequente nei cliché e nella prevedibilità anche quando sostenuta da eccellenti ed inattaccabili doti tecniche. “The Day Of Victory” osa, in questa direzione e lo fa come “The Diarist” in precedenza, è senza dubbio un rischio. Cosa vi sentite di dirmi in merito?

Jack: per quanto riguarda “The Day Of Victory”, penso che non si sia osato molto in senso assoluto, ma che si sia fatto un disco nel quale siamo riusciti a far rendere al meglio le sonorità derivanti dalle sperimentazioni passate.
Mike: aggiungo e ritengo che dal punto di vista prettamente musicale, “The Day Of Victory” sia comunque più coraggioso. “The Diarist” è carico d’inserimenti orchestrali e questo tante volte può venirti in aiuto nell’impresa che punta a fare breccia nell’emotività dell’ascoltatore. Quest’ultimo album invece riesce a colpire allo stesso modo, ma senza bisogno di esasperare il tema portante con evoluzioni sinfoniche. Credo che questo non sia un dettaglio di poco conto, anzi, per coloro che l’hanno scritto e suonato è motivo di grande soddisfazione perché la sfida che c’eravamo posti inizialmente, facendo determinate scelte di stile, è stata portata a termine in modo impeccabile.

Perchè Ojetti? Infernal Poetry sono una realtà italiana storica e di rispetto. Raccontami di questa collaborazione.

Alex: sia io che Daniele abbiamo militato negli Infernal Poetry (che ora non ci sono più) e Paolo era il nostro vocalist. Inoltre nel lontano 2003 i Dark Lunacy e gli Infernal Poetry realizzarono lo split “Twice” (ora quasi introvabile). Diciamo che i destini delle due band sono stati sempre intrecciati e la scelta di avere come ospite Paolo è stata condivisa e apprezzata da tutti. Dal punto di vista prettamente stilistico, credo che la sua voce così particolare, in ben due episodi del disco, sia in perfetto equilibrio con quella di Mike.

Una curiosità personale. Ascoltando “The Day Of Victory” e percependo profondamente questa passione per la vicenda storica, non è difficile viaggiare sull’onda emotiva di suggestioni personali. Recentemente ho letto “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern e mi son detto che Dark Lunacy saprebbero dar voce all’anima di questo libro. Lo stesso mi sono chiesto dopo la lettura, quasi successiva, de “Un anno sull’altopiano” di Emilio Lussu. Possiamo aspettarci in futuro una ricerca di questo tipo, ossia una ricerca che coniughi il death metal alla storia attraverso l’utilizzo di musica del periodo?

Mike: credo che la risposta risieda nella storia discografica dei Dark Lunacy. Concentrare l’enfasi emotiva di un brano facendolo ruotare attorno al concetto storico culturale trattato, è da sempre una nostra prerogativa. Oggi si parla di vicende prettamente legate al conflitto bellico. Ma in passato diversi brani hanno attinto dai racconti più classici come per esempio “l’Idiota”, “Povera Gente”, “Le Notti Bianche, “I Fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Tutto questo per dirti che, a seconda di cosa i Lunacy decideranno di fare in futuro, questo sarà sempre legato alle atmosfere storiche che fanno da contorno al soggetto che si vuole raccontare.

Vorrei chiederti ora di quella canzone sembra essere l’icona di questo disco; colei che ne mostra tutti i risvolti musicali e che lo rappresenta: “The Mystic Rail”. Come nasce? E che mi dici di quel solo di chitarra acustica così inatteso, estraneo e al contempo perfettamente parte del contesto?

Dan: nasce dalla suggestione di narrare in musica l’incedere di un treno, «lungo i cui binari tutte le cose accadono». Archi, chitarre acustiche ed elettriche, voci femminili e cori russi confluiscono per pennellare questo quadro in movimento, puntellato da un basso che si esprime al meglio sotto il profilo melodico. L’outro di acustica è stato improvvisato in studio: le versioni demo che avevo preparato a casa avevano un’elettrica e non presentavano le armonizzazioni che senti ora. Sono molto soddisfatto di come si integri nel brano, che anche io trovo tra i più rappresentativi e toccanti dell’album.

Ho scritto che la voce della Trucchia mi ha ricordato quella della Previdi, dei Camerata Mediolanense. Forse è una mia suggestione personale. Suggestione che è stata ‘incoraggiata’ da un’altra impressione che la vostra musica, fra le righe di un’apparente semplicità, mi ha dato: l’influenza del martial industrial. Sono fuori strada? A caldo vi vedrei orientati verso aperture più schiette a questo genere, in futuro, senza riscontrare forzature o ‘tradimenti’.

Alex: la scelta di inserire la voce di Caterina non è stata casuale. Caterina è una cantante straordinaria (ha militato in diverse formazioni indie ed elettroniche delle Marche). Ha un timbro molto particolare ed ho pensato, mentre lavoravo al mix del disco, fosse la perfetta interprete di alcuni momenti del disco. Ho sentito parlare della band che citi e del movimento musicale del folk apocalittico, ma onestamente non seguo questo tipo di musica. Però è interessante notare come le interpretazioni e le suggestioni siano così varie. Per quanto riguarda gli sviluppi futuri del nostro percorso, non ci poniamo sicuramente limiti. Vedremo…

Lo chiedo perché il modo di cantare di Mike, né veramente growl, né veramente scream, anche in alcuni momenti di questo disco – penso alla conclusione di “Victory” così come a diversi altri momenti in cui emerge la teatralità del tuo cantato – mostra di tendere a quel tipo di musica o comunque lascia con l’idea che vi si potrebbe adattare con naturalezza e precisi fini creativi.

Mike: sarò molto sincero a riguardo. Ciò che la mia voce può dare all’ascoltatore, è solo ed esclusivamente ciò che Mike ha deciso di essere in quel particolare momento. Non mi sono mai definito un cantante, ma un semplice narratore che attraverso le gioie e i tormenti della propria anima, racconta una storia da egli stesso creata. Tante sono le voci importanti nel panorama musicale, alcuni a mio avviso incredibili e inarrivabili. Da sempre, a ogni voce importante presto attenzione e inevitabilmente ne traggo insegnamento. Tuttavia, forse per troppa passione verso il mondo dei Dark Lunacy, ho sempre escluso qualsiasi influenza esterna, concentrandomi solo su me stesso. La voce deve essere in primo luogo e la chiave di lettura di un racconto. Tocca all’ascoltatore trarne sfumature e concetto.
 

Hai mai pensato di cimentarti su brani lunghi? In “The Day Of Victory” ho avvertito la ‘mancanza’ di una canzone che raccogliesse e amplificasse il discorso musicale del disco. Forse è una scelta stilistica? Forse no, forse è la domanda a essere oziosa perché non c’è mai stato un discorso a priori su brani corti / brani lunghi.

Mike: sostanzialmente la risposta sta nella riflessione della domanda. Il disco doveva avere ed ha avuto un approccio ben definito in grado di mostrarne il carattere dalla prima all’ultima nota. Se ci fossimo imposti minutaggi ancor prima di eseguire la stesura dei brani, ci saremmo inutilmente auto condizionati. I Dark Lunacy fanno ciò che sentono e non ciò che vorrebbero sentire gli altri. È una frase assolutamente scontata, ma altrettanto veritiera e costante nella nostra filosofia di band.

Veniamo all’artwork. Non ti chiedo un’esegesi minuziosa di quanto scopriamo sfogliando il booklet o aprendo il digipack, vorrei però che tu me ne parlassi con l’idea di darci delle chiavi di lettura, spunti che insieme alla musica, anche l’ottimo lavoro di Frazzitta può fornirci.

Mike: Gaspare non è solo un grande artista, un amico fraterno ed un uomo straordinariamente colto. Ma anche un elemento complementare alla band. Egli è quell’artista capace di darti ancora il piacere di stringere un disco tra le mani. Ogni impresa grafica dei Lunacy, è preceduta da una lunghissima chiacchierata con Gaspare. In questo nostro confronto, io racconto storia e messaggio che voglio dare al disco. Lui prende appunti, riflette e dopo pochi giorni, con ineguagliabile capacità tecnica e mentale, mi presenta il lavoro finito. Lavorare con lui, è come commissionare un dipinto a un pittore capace di raccogliere mille parole in una sola immagine. Venendo alla chiave di lettura, abbiamo scelto un approccio che unisca storia e futuro attraverso il presente. Troviamo quindi immagini di un passato carico di elementi evocativi del periodo, proiettate in un’epoca futura a noi ancora sconosciuta che abbiamo provato a immaginare. Il presente, quindi il grimaldello, è la musica che i Dark Lunacy dipanano nel mentre.

Qui ci salutiamo Mike, grazie per il tuo tempo, i tuoi contenuti e la vostra musica. Come di consueto, a te l’ultimo spazio per un messaggio ai lettori di Truemetal.it. Lo ricordiamo, “The Day Of Victory” è uscito il 9 maggio.

Mike: è stata un’intervista intensa e coinvolgente. Grazie di cuore per l’attenzione che ci ha dedicato e che hai dedicato a “The Day Of Victory”. Concludo salutando i vostri lettori con un abbraccio fraterno che li prenda tutti, invitandoli a entrare nel nostro mondo. Quello in cui ogni nota, ogni parola, è stata scritta con un unico scopo:
«resistere con coraggio fino all’ultimo respiro, per esistere fieramente fino all’ultimo dei nostri giorni.»

Ed io ringrazio voi per l’intensità e la sincerità delle vostre risposte, perché con la persona, oltre che con la musica, che siano 1000 o 10 i dischi che escano in un anno, voi avrete sempre il posto che vi spetta, un luogo a parte rispetto a tanta plastica retorica e inautentica venduta come musica. Un saluto e a riascoltarvi in questo splendido viaggio.

Intervista a cura di Marco “Fleba_il_Fenicio” Migliorelli.