In Memory Of Chuck Schuldiner
Il 13 Dicembre di dieci anni fa, a trentaquattro anni (1967-2001), scompariva uno dei più controversi e influenti musicisti dell’intero panorama metal: Charles Michael Schuldiner (comunemente chiamato Chuck o “Evil Chuck”), leader dei fenomenali Death. Proprio in questo giorno, per noi di TrueMetal, sembrava doveroso tributare la sua memoria. Non approfondiremo comunque note biografiche, discografia o quant’altro (anche perché probabilmente non basterebbe un libro): essendo prima di tutto persone in carne e ossa dotate di sentimenti e poi estimatori dell’heavy metal in ogni sua forma, ci soffermeremo principalmente sull’aspetto umano e musicale, con la convinzione che avrebbe preferito così anche lui.
Personalmente ancora oggi, ripensando a quella tragica giornata del fatale annuncio, una lacrima amara accenna a scendere e il magone s’insinua tra le mie membra. Non lo dico tanto per fare della retorica da due soldi. Pur non conoscendolo personalmente, ho sempre avuto una sconfinata ammirazione per Schuldiner e per il suo lascito musicale. Note, riff, liriche e tutta una serie di emozioni, sensazioni e ricordi che hanno accompagnato buona parte della mia adolescenza e che, con il tempo, non si sono assolutamente affievoliti. Anzi, come per il buon vino, di pari passo con la mia crescita, hanno acquisito maggiore corposità e nobiltà. Perché Chuck non era un artista qualunque o una rockstar a caccia solo di soldi e di fama, come uno dei tanti. Ha consegnato della musica eccelsa alla Storia, creata non per scalare le classifiche o spopolare tra i teenager giusto il tempo di un’estate, ma per durare e raggiungere il cuore e l’anima della gente e possibilmente anche stimolarne mente e coscienza con testi profondi ed estremamente attuali. L’unicità della sua evoluzione artistica ha dello straordinario ed è figlia di una coerenza fuori dal comune, una volontà ferrea di superare continuamente i propri limiti per raggiungere in un certo senso la perfezione (musicalmente parlando) e una sofferenza spirituale e un malessere interiore (e poi, purtroppo, anche fisico) che fin da piccolo hanno accompagnato la sua esistenza.
L’evento chiave, che segna in maniera irreversibile la sua vita, risale a quando Chuck aveva solo nove anni: la morte del fratello maggiore, Frank, appena sedicenne, in seguito a un incidente stradale. Quella tragica fatalità porta Chuck a chiudersi in se stesso in modo preoccupante e, inevitabilmente, lo accompagnerà lungo tutto il corso della vita. Su “Open Casket”, tratta dall’album “Leprosy” del 1988, troviamo dei riferimenti alla morte del fratello:
«Never to return, memories will last
In the future, you’ll think about the past
Never to forget, what you have seen
People come to pay respect
Taking pictures of the dead
That is what life comes to be
Once they lived, now they’re deceased
Death is oh so strange
The past no one can change
What you can’t predict
Is how long you’ll exist
Life will never be the same
Death can never be explained
It’s their time to go beyond
Empty feeling when they’re gone»
In seguito alla scomparsa di Frank, i genitori di Schuldiner decidono di regalargli una chitarra classica e delle lezioni con un insegnante, nella speranza di distrarlo dalla tragedia. Tuttavia Chuck non è soddisfatto e dopo poche sedute, nelle quali impara a malapena “Mary Had A Little Lamb”, decide di mollare tutto. Padre e madre però non demordono e gli comprano una chitarra elettrica e un amplificatore e questa volta fanno centro. Il piccolo Chuck infatti non se ne separa più e rimane per ore e ore nel proprio garage a imparare da autodidatta.
Nel 1983 entra in contatto con Barney Lee (alias Kam Lee) e Frederick DeLillo (Rick Rozz), i quali condividevano una passione sconfinata per il seminale “Black Metal” dei Venom e insieme decidono di formare i Mantas (come tributo proprio a Jeff Dunn del combo britannico). Inizialmente, per sopperire ad alcune lacune tecniche, puntano tutto su un’aggressiva presenza scenica, tanto che nella loro prima (e unica) esibizione on stage si presentano coperti di sangue finto. Sulle scelte e il futuro indirizzo musicale del gruppo, però, influisce molto il leggendario e violento debutto dei Possessed, “Seven Churches” (1985), che al suo interno contiene quella che comunemente viene considerata la canzone manifesto del genere: “Death Metal”. Proprio in quel periodo i Mantas decidono di cambiare moniker nel definitivo Death. Pubblicano alcuni demo ma, per divergenze artistiche, se ne vanno prima Rick Rozz e poi anche Kam Lee (i quali formeranno i Massacre). Chuck non si perde d’animo e dopo essere entrato in contatto tramite corrispondenza con Matt Olivo e Scott Carlson dei Genocide (nome che successivamente modificheranno in Repulsion), propone loro, con successo, di raggiungerlo in Florida. Tuttavia l’esperienza dura poco perché, mentre Chuck aspira a creare una musica più tecnica e con un gran lavoro di chitarre, Olivo e Carlson vogliono, a loro dire, solo colpire forte. Trovandosi nuovamente solo il leader dei Death nel 1985 abbandona gli studi scolastici e si trasferisce a San Francisco per rimettersi al lavoro col batterista Eric Brecht (D.R.I.) ma, ben presto, insoddisfatto dalla troppa brutalità (e quindi poco dinamismo) delle composizioni, fa ritorno ad Altamonte Springs. Per lui sempre nello stesso anno anche una breve e infruttuosa esperienza, nei canadesi Slaughter. Prima di lasciare gli studi però aveva promesso ai suoi genitori che se entro un anno non avesse firmato un contratto discografico, sarebbe tornato a scuola, ma Schuldiner è intenzionato a giocarsi tutte le carte a sua disposizione prima di rinunciare. Prepara nuovamente le valigie e parte da Toronto alla volta di San Francisco e mette un annuncio sulle radio locali per trovare un batterista. Risponde un giovanissimo Chris Reifert il quale, essendo entrato in possesso tramite tape trading dei demo targati Death, non si lascia sfuggire l’occasione. I due registrano il demo “Mutilation” che vale loro l’agognato contratto con la Combat Records. Finalmente ce l’aveva fatta, tutte le sue aspirazioni si stavano concretizzando. Torna in Florida e inizia a registrare il debutto, ma la prima versione non lo accontenta e tantomeno soddisfa la Combat che invita il gruppo a recarsi a Los Angeles per affidarsi alle mani del produttore Randy Burns e da quella sessione scaturisce “Scream Bloody Gore” (1987). Un disco decisamente aggressivo per l’epoca, nel quale Chuck si occupa del cantato, delle parti di chitarra e del basso e Reifert della batteria, mentre, pur apparendo nel booklet, John Hand non suonerà mai con loro (né sull’album né dal vivo, perché ritenuto non in grado). Da molti viene considerato il primo vero e proprio disco death metal.
Per quanto mi riguarda proprio con “Scream Bloody Gore” conobbi i Death, anche se alcuni anni dopo grazie alla collana “Metal” (Armando Curcio Editore) che non finirò mai di ringraziare abbastanza e che mi ha permesso di allargare molto gli orizzonti musicali. L’impatto iniziale fu alquanto devastante ma senza dubbio esaltante, tanto che con la compagnia d’amici di allora spesso ci si ritrovava a fare headbanging ascoltando a rotazione un classico come “Zombie Ritual” e compagnia bella. Poi fu la volta di dischi in grado di lanciare i Death nell’Olimpo del metal come il fenomenale “Symbolic” del 1995 (il riff iniziale della title-track accompagnerà a lungo le varie scorribande adolescenziali) e “Individual Thought Patterns” del ’93. Quest’ultimo oltre a due funamboli come Steve Di Giorgio e Gene Hoglan vedeva anche la presenza di un altro dei miei eroi di gioventù, essendo un fan sfegatato di tutti i progetti e collaborazioni di King Diamond, ovvero il grande Andy LaRocque. L’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Ricordo una significativa intervista di quel periodo proprio al chitarrista svedese, nella quale raccontava di aver espresso le sue perplessità riguardo alla sua presenza sull’album allo stesso Chuck, il quale gli rispose con la celebre frase: “Let the metal flow!”. Il risultato fu uno dei capolavori massimi del genere. Il passo successivo fu andare a recuperare tutti gli altri lavori passati e acquistare sistematicamente le release seguenti (compreso l’album dei Control Denied). Tutto ciò avrebbe dovuto culminare col Gods Of Metal del 1999 che vedeva in scaletta (oltre ai miei amati Mercyful Fate) proprio i Death. Dico avrebbe, perché a manifestazione in corso arrivò l’annuncio che purtroppo non avrebbero partecipato e che con sommo rammarico dei presenti (non me ne vogliano i loro fan) per l’ennesima volta avremmo rivisto in sostituzione gli Stratovarius… Ma il peggio doveva ancora arrivare e ben presto ci rendemmo tutti conto che forse non ci sarebbe stata una seconda occasione: sul finire dell’anno infatti ci fu l’annuncio che Chuck aveva un cancro al cervello e che necessitava di cure immediate. Una forma molto rara che solitamente prende corpo in tenera età, con la quale quindi aveva convissuto per buona parte della sua vita e che ora stava presentando il proprio, spietato, conto. Non solo, la sua famiglia dichiarò di non potersi permettere di affrontare le consistenti spese mediche. Quello che ne seguì fu straordinario: gran parte del popolo metal si mobilitò per far avere loro i soldi necessari a combattere quella terribile malattia e l’operazione in un primo momento ebbe successo. La cattiva sorte però si era accanita col povero Chuck e poco dopo il tumore si ripresentò e più insidioso di prima. Di nuovo ci fu una corsa contro il tempo per fornirgli quanto necessario, molte band misero all’asta oggetti e strumenti per procurare del denaro e alcuni dei fan stessi inviarono quanto potevano alla famiglia. Le cure furono efficaci ma lo debilitarono talmente tanto che il giorno in cui fece ritorno a casa, morì di polmonite.
In vita, fu ampia la schiera dei detrattori che, per via del suo carattere difficile e complesso, lo dipingevano come una sorta di dittatore, cercando talvolta di sminuirlo o di mettergli i bastoni tra le ruote o che lo accusavano di aver tradito il death metal con l’evoluzione della sua musica. Tuttavia nessuno ha mai messo in discussione il suo talento cristallino o gli avrebbe mai augurato una (prematura) fine del genere. Ecco perché un po’ tutti si sono dati da fare quando ce n’è stato bisogno, con una mobilitazione che non esiterei a definire commovente e che non ha molti precedenti.
Addio Chuck, noi non ti scorderemo mai, neanche tra altri dieci (o cento) anni e la tua musica straordinaria e i tuoi testi ispirati, continueranno sempre ad accompagnare le nostre esistenze!