Folk - Viking Power

Intervista Elvenking (Aydan)

Di Marco Donè - 12 Gennaio 2022 - 8:30
Intervista Elvenking (Aydan)

L’anno appena conclusosi, il 2021, ha sancito un traguardo molto importante in casa Elvenking: “Heathenreel”, il loro disco di debutto, ha potuto spegnere ben venti candeline! Sì, perché la formazione friulana si presentò proprio con “Heathenreel” nel 2001, siglando subito un importante deal con l’etichetta tedesca AFM. Da quel momento gli Elvenking hanno vissuto un percorso carico di soddisfazioni – che li vede tutt’ora protagonisti – sia in Italia, che all’estero. Inutile nascondere che da quel 2001, da “Heathenreel”, la band capitanata da Aydan è ben presto diventata uno degli alfieri del metallo italiano, esportando in tutta Europa, e non solo, il loro personalissimo modo di concepire l’heavy metal. E se oltre a questo consideriamo che nel 2021 gli Elvenking hanno festeggiato anche i ventiquattro anni di carriera, beh, ci è sembrato doveroso contattare Aydan, mastermind della compagine friulana, per parlare di questi due importanti traguardi.

Non rimane che augurarvi buona lettura!

Intervista a cura di Marco Donè

Ciao, Aydan, sono Marco. È un vero piacere riaverti ospite sulle pagine di Truemetal.it. Come stai?

Ciao, Marco. E’ un piacere per me tornare ospite di queste pagine, dopo un po’ di tempo. Tutto bene qui, per quanto in una situazione mondiale così strana e inedita si possa così definire.

Il 2021 ha sancito per voi un traguardo molto importante: sono passati vent’anni dalla pubblicazione del vostro primo disco, “Heathenreel”. Ripensando a quel 2001, quando vi stavate presentando al mondo con un lavoro che sarebbe ben presto passato alla storia, avresti mai pensato che vent’anni dopo saresti stato qui, a parlarne, dopo esserti tolto tantissime soddisfazioni ed essendo diventato una delle figure di riferimento del metallo italiano?

No, ovviamente mai avremmo potuto, nemmeno lontanamente, pensarlo e immaginarlo. Il nostro unico obbiettivo era la possibilità di pubblicare un album e di poter avere un nostro lavoro, marchiato Elvenking, che potesse rappresentare la nostra visione musicale e lirica. Essere considerati tra le figure di riferimento della scena è per noi oggi motivo di immenso orgoglio e guardando indietro, a tutta la storia della band, veramente credo che ripaghi gli enormi sforzi e i periodi difficili passati, per arrivare oggi a essere ancora qui, più forti che mai.

La copertina di “Heathenreel”

Che ricordi porti con te di quegli anni? Dei primi passi mossi con gli Elvenking, dell’interesse che avevate calamitato già con il vostro demo “To Oak Woods Bestowed”?

Ricordo soprattutto la determinazione massima che avevamo come gruppo. Avevamo un obbiettivo ben chiaro e tutti e quattro lavoravamo con la stessa mentalità e serietà, per raggiungerlo a tutti i costi. Provavamo almeno tre volte alla settimana, per ore e ore, nel cercare di scrivere e definire le migliori canzoni possibili, sacrificando tutto ciò che i normali ragazzi della nostra età vivevano. Forse non tutti sanno che come Elvenking non abbiamo mai suonato dal vivo prima della registrazione del nostro demo “To Oak Woods Bestowed”. Non ci interessava suonare su un palco, volevamo prima essere sicuri di avere un pugno di canzoni sufficientemente forti da poter definire il nome Elvenking, con un preciso stile musicale, di qualità. Eravamo alla ricerca del nostro suono e il nostro obbiettivo era il songwriting e l’arrangiamento ossessivo dei nostri pezzi.

In quel periodo il metallo italiano si stava imponendo a livello internazionale con formazioni come Labÿrinth, Rhapsody e White Skull, che avevano siglato contratti con importati label estere. Voi non siete stati da meno: avete debuttato subito per AFM. Cinque amici, nati in sala prove, proiettati subito in alto… Ricordi le emozioni che avete provato in quel momento? Ti va di parlarcene?

Proprio le formazioni che hai citato per noi sono stati gli assoluti modelli di riferimento e, soprattutto, erano la dimostrazione che era veramente possibile fare qualcosa anche in Italia. Ricordo che quando cominciai ad interessarmi seriamente alla scena metal e a tutto il suo contesto – parliamo del 1990 – non esisteva una vera e propria scena italiana. Nei giornali del settore – che all’epoca erano ovviamente l’unico specchio della realtà musicale, per noi ragazzi – la scena italiana antecedente al 1993 veniva confinata in qualche piccola pagina. C’erano poi delle riviste come Flash che la trattavano a parte. Non esistevano nomi in grado di competere con le band straniere. I primi nomi di formazioni italiane che ricordo di aver letto erano band come Jester Beast, Alligator, Negazione, Braindamage… Formazioni che però non incontravano la mia curiosità. A sedici anni andai a vedere la presentazione dell’album “Imago Mundi” degli Asgard, a Conegliano – prendendo l’ultimo treno disponibile per tornare a casa – e rimasi sbalordito dalla qualità della musica prodotta e scoprii tutta una scena prog metal veneta molto interessante – oltre agli Asgard, appunto, i Black Jester, per esempio, o i Last Warning –. Acquistai il primo album degli Extrema, “Tensions at the Seams”, nel 1993 e, pur non essendo esattamente il mio genere, il prodotto era di eccezionale qualità e di un livello tecnico altissimo. Per una strana coincidenza il mio insegnante di chitarra dell’epoca entrò proprio negli Extrema, in sostituzione di Julius Loglio, anche se poi rimase nella band per un periodo brevissimo. Poi un amico mi passò la cassetta del “Cursed Concert” dei Sylvester’s Death – come erano stati temporaneamente rinominati i Death SS, per i noti problemi – e cominciai a trovare qualcosa che realmente sentivo interessante e vicino ai miei gusti, che piano piano si stavano plasmando. Quando poi uscì “Legendary Tales” dei Rhapsody prima, e “Return to Heaven Denied” dei Labÿrinth dopo, per noi si aprì un mondo completamente nuovo. Allora era possibile fare metal, pur provenendo dall’Italia? Questo il messaggio che ci avevano lanciato. I Rhapsody erano ancora un’entità un po’ sconosciuta, erano italiani, ma non si capiva esattamente come fossero organizzati: non suonavano dal vivo ed erano guidati da un team produttivo estero. I Labÿrinth, invece, erano sempre sui palchi. All’indomani dell’uscita di “Return to Heaven Denied” noi Elvenking andammo a vedere gli show dei Labÿrinth ogni volta che ne avevamo la possibilità: credo di averli visti almeno quattro o cinque volte nel giro di un anno, prima con Roberto alla voce e poi con Morby. Per noi era un cercare di rubare ogni singolo dettaglio possibile: dalle testate utilizzate al modo di vestire e di muoversi sul palco, l’uso degli pseudonimi… Andammo a registrare il nostro demo ai New Sin di Loria proprio perché lì era stato registrato “Return to Heaven Denided” e il nostro obbiettivo era creare il miglior prodotto possibile, anche se per permettercelo avevamo dovuto fare sacrifici economici enormi.
Con i White Skull ci fu poi un rapporto speciale: Tony era in studio per le pre-produzioni di “Public Glory, Secret Agony” proprio mentre noi registravamo il demo. Rimase estremamente colpito da quanto sentiva, tanto che si propose di aiutarci, dandoci un sacco di consigli e suggerimenti. Quello che ricordo ancora perfettamente era: «Con le idee che mettete voi in una canzone, io ne farei almeno quattro!» (sorride, n.d.r.).

L’attuale line-up degli Elvenking

Ma il 2021 vi ha visto anche raggiungere i ventiquattro anni di carriera, dato che avete mosso i vostri primi passi a partire dal 1997. Ti va se partendo da “Heathenreel” provassimo a ripercorrere la vostra storia? Io la vedo suddivisa in tre fasi. La prima è quella che io definisco “classica”, quella dei vostri primi tre album: “Heathenreel”, “Wyrd” e “The Winter Wake”. Un periodo che ha visto anche una momentanea uscita di Damnagoras dalla band. Ti va di parlarci di quegli anni, i tuoi ricordi, le incomprensioni. E soprattutto: con gli occhi di adesso come vedi quello che all’epoca è avvenuto agli Elvenking?

Ricordo il periodo della lavorazione di “Heathenreel” come uno dei periodi più belli da me vissuti. Eravamo giovani e carichi di passione ed entusiasmo. Avevamo registrato un demo e pochi giorni dopo avevamo già un contratto firmato per un’etichetta estera: eravamo al settimo cielo e totalmente concentrati nel cercare di produrre il meglio possibile dalle nostre capacità. Le registrazioni dell’album e poi il viaggio in Svezia per mixare il tutto ai celebri Fredman Studios – che per noi erano l’assoluta mecca del metal mondiale – lavorare con Fredrik Nosdstrom, giocare a ping pong in studio con gli In Flames… tutte esperienze che per noi erano veramente sogni a occhi aperti. E poi, improvvisamente, la doccia fredda. La AFM, che si sarebbe aspettata di ricevere un album in puro stile Blind Guardian-Rhapsody, non comprese il lavoro che avevamo fatto sull’album. Ci ritrovammo a Wacken, invitati come ospiti dalla nostra label, e proprio lì scoprimmo che le prime reazioni della stampa che realmente contava – Rock Hard Germany, su tutti – avevano stroncato l’album… in un attimo tutto si è spezzato. Non eravamo pronti a ricevere critiche e non eravamo forti abbastanza per poterle affrontare. Credevamo di avere fatto una grande lavoro, ma in realtà i primi feedback furono totalmente negativi. Ci era caduto il mondo addosso. Purtroppo sarebbe bastato aspettare un attimo perché di lì a poco il resto della stampa avrebbe in realtà salutato “Heathenreel” come un album coraggioso e originale, diventando album del del mese in moltissimi magazine di tutto il mondo, ma sfortunatamente quei primi giudizi negativi, e il non appoggio della nostra label, avevano già creato una frattura nella band, che non si sarebbe risanata. Cominciammo ognuno a voler procedere verso direzioni diverse. Jarpen voleva completamente spostarsi da alcune soluzioni folk, voleva eliminare tutte le parti acustiche e diventare più aggressivi. Per un periodo provammo ad abbassare le accordature delle chitarre e ci spostammo addirittura su sonorità più vicine ai Nevermore o ai Soilwork. Poi, io e Damna, capimmo che la cosa non stava funzionando. Forse non tutti sanno che il primo ad uscire dalla band fu proprio Jarpen, che fu allontanato dalla band poco dopo l’uscita di “Heathenreel” proprio perché voleva portare gli Elvenking su coordinate completamente differenti. Ne nacque un periodo estremamente confuso. Io e Damna ricominciammo tutto il songwriting per il secondo album, da capo, cercando di riprendere le fila della nostra direzione musicale. Alcuni mesi dopo Jarpen chiese di poter rientrare nella band e accettammo alle condizioni di ricreare il sound Elvenking che avevamo in mente. Poi successe l’imprevedibile: l’allontanamento di Damna, di cui mi sento responsabile perché, pur spinto da Jarpen, non fui sufficientemente forte da comprendere la situazione e i suoi risvolti. Il periodo seguente fu uno dei peggiori momenti della mia vita professionale come musicista, e non solo. Provai a riportare Damna nella band poco dopo il suo allentamento, ma il resto della band si oppose e Damnagoras stesso, giustamente, si sentì tradito, e la cosa non si concretizzò. Preferisco saltare completamente la fase “Wyrd”, perché per il sottoscritto è stato un periodo terribile, sotto ogni punto di vista. Posso solo dire che a un certo punto, non vedendo nessuna via d’uscita, chiamai Zender e gli dissi: «Io lascio la band. Chiederò a Damnagoras se mi vuole nel suo gruppo e se non vorrà comunque mi tiro fuori». Lui rispose: «Se tu lasci, la band non può proseguire». Io comunque chiesi a Damna di incontrarci e uscimmo a bere una birra. Parlammo liberamente del passato e di cosa il futuro potesse portarci. Sapevo che questa mossa avrebbe portato dei grossi cambiamenti, in un modo o nell’altro, e così fu, come sappiamo. Kleid fu allontanato dalla band e Jarpen se ne andò praticamente subito dopo. “The Winter Wake” riprese lo spirito degli Elvenking, ma con un nuovo approccio, e diventò in breve il nostro album più venduto, che ci portò in tour in Europa per la prima volta. Da lì conosciamo la storia.

La seconda fase è quella che definisco “della sperimentazione”, una fase che secondo me comprende “The Scythe”, il vostro disco più aggressivo, “Two Tragedy Poets (…and a Caravan of Weird Figures)”, dove vi siete presentati come novelli menestrelli, e “Red Silent Tides” ed “Era” – uno dei miei dischi preferiti degli Elvenking – dove avete puntato su un approccio più diretto e melodico. Come descriveresti questo periodo degli Elvenking? Eravate alla ricerca di voi stessi?

È un po’ difficile per me parlare di questo periodo intermedio, proprio perché è stato estremamente caotico e confuso. Lo dividerei in due fasi differenti: una che comprende “The Scythe” e “Two Tragedy Poets (…and a Caravan of Weird Figures)”, e una con “Red Silent Tides” ed “Era”. Entrambe le fasi sono probabilmente state caratterizzate dal fatto che, pur essendo stati uno dei primissimi gruppi a proporre un certo tipo di folk metal – sicuramente influenzato dall’approccio degli Skyclad ma, mi sento di dire, personale e parzialmente originale per l’epoca – non siamo mai stati considerati forse a livello di altre band che in quel periodo avevano approcciato lo stesso stile, anche se in forma più estrema come gli Ensiferum o gli Eluvetie, giusto per citare due nomi che sono nati nello stesso nostro periodo, o poco dopo. A quel punto abbiamo probabilmente voluto dimostrare di essere in grado di proporre musica di qualità, seguendo anche altre nostre influenze. Così “The Scythe” è stato un album molto estremo, legato a certe sonorità death metal del periodo, con anche alcune influenze elettroniche molto tipiche di quegli anni – che oggigiorno rinnego –. A mio avviso il concept attorno a quell’album era estremamente interessante, ma probabilmente non è mai stato capito completamente. Con “Two Tragedy Poets (…and a Caravan of Weird Figures)” – che inizialmente era stato concepito come un EP e non come un full length – abbiamo invece volutamente deciso di andare nella direzione opposta, dimostrando di essere stati tra le prime band a raccogliere la lezione degli Skyclad e di volerla proporre in una forma totalmente priva di apporti elettrici e metallici, esplorando soltanto l’aspetto più folkloristico e acustico, con un approccio lirico estremamente personale e lontano dagli stereotipi del genere. Ovviamente queste non sono state le mosse più intelligenti possibili da un punto di vista meramente commerciale e, nonostante l’enorme successo del singolo ‘The Divided Heart’, probabilmente la definizione del sound della band si era fatta ancora più confusa, anche per il pubblico stesso. Questo, inevitabilmente, si avvertì anche all’interno della band, che entrò in una fase estremamente confusa, tanto che si formarono due gruppi distinti: uno che voleva fortemente staccarsi da qualsiasi riferimento al sound folk che ci aveva caratterizzato agli esordi, e un altro che invece voleva mantenere un legame con il sound originario. “Red Silent Tides” è stato un album estremo come lo era stato “The Scythe”, ma nella direzione diametralmente opposta. L’album è estremamente melodico e mostra molte influenze spiccatamente hard rock, spinte da una parte della band. In ogni caso trovo l’album perlomeno interessante poiché si tratta di un lavoro molto romantico e decadente. “Era”, invece, è forse il lavoro che apprezzo meno nella nostra discografia – a differenza tua, ma sicuramente perché lo lego all’atmosfera che si respirava nella band, all’epoca – perché frutto di un periodo estremamente incerto all’interno del gruppo, molto difficile, e questo a mio avviso si sente nella composizione dell’album, dove da una parte c’è un timido tentativo di ritorno alle origini, ma dall’altra non riesce nell’obbiettivo.

In quel periodo, inoltre, la formazione degli Elvenking è stata rivoluzionata: se da un lato Rafahel entrava in pianta stabile in line-up, a duettare con te alla sei corde, membri storici come Zender, Gorlan ed Elyghen decidevano di intraprendere altre strade. Ti va di parlarci di quei momenti, di cosa sia successo? Hai mai pensato, o avuto paura che potesse calare la parola fine sugli Elvenking?

Anche i differenti cambi di formazione hanno caratterizzato fortemente quel periodo difficile: a volte ne sono state una causa, altre un effetto. Quando abbiamo registrato “Heathenreel” eravamo un gruppo coeso e inattaccabile e ci sentivamo probabilmente invincibili, come tutte le band che raggiungono con i propri sforzi i primi grandi obbiettivi. L’aver perso per strada non solo dei musicisti, ma soprattutto degli amici, ha avuto forti ripercussioni, in ogni senso. Jarpen per me era come un fratello e insieme abbiamo costruito dal niente questa band. Vederlo andare via per me fu un duro colpo. Elyghen si allontanò pian piano a causa del suo trasferimento in Irlanda e la cosa era inevitabile; anche di Gorlan sapevamo da tempo che la sua permanenza avrebbe avuto una scadenza perché ce lo aveva già comunicato per tempo, con la volontà di dedicarsi alla famiglia. Vedere andare Zender, che fin dall’inizio era stato sempre un membro importantissimo, silenzioso gran parte del tempo, ma fondamentale le poche volte che imponeva le sue idee e volontà, fu un duro colpo. Purtroppo tutte le band sono soggette a questi cambi, ma il passaggio dall’essere un gruppo di amici, che suona con la passione di creare qualcosa insieme, a essere una band di musicisti professionali che suona ad alti livelli per mandare avanti un brand è una cosa che per noi ragazzi di provincia, che venivamo da paesini di campagna, è stato uno scoglio difficile da accettare e saper gestire.
Per quanto riguarda la seconda parte della tua domanda, posso affermare che ci sono stati almeno tre momenti specifici in cui la parola FINE è stata estremamente vicina per questa band.

Concludiamo questo percorso di “riscoperta” degli Elvenking con l’ultima fase, quella che io definisco “della maturità”. Un periodo che a detta di molti comprende i vostri dischi migliori che, forse, vi hanno dato le soddisfazioni maggiori: “The Pagan Manifesto”, “Secrets of the Magick Grimoire” e l’ultimo “Reader of the Runes – Divination”, in cui avete iniziato un personalissimo concept che proseguirà nei dischi successivi. Concordi con questa mia visione? Ti va di approfondire un po’ il pensiero?

Prima di approcciare il songwriting di quello che sarebbe stato “The Pagan Manifesto” io e Damna abbiamo deciso di fermarci un attimo e capire esattamente cosa volevamo fare con questa band. “Era” da un lato era stato un album interlocutorio, ma dall’altro i nuovi membri Jakob e Symhon avevano portato il gruppo a un livello decisamente più alto, che ci avrebbe potenzialmente permesso cose che non avevamo potuto affrontare in precedenza. Era necessario guardarci negli occhi e capire cosa avremmo voluto fare con questa band. Siamo entrambi giunti alla conclusione che sarebbe stata una cosa corretta darci un un’altra possibilità. Non ti nascondo che il primo approccio è stato: «Facciamo un ultimo album che però ritorni totalmente alle origini degli Elvenking, sia musicali che concettuali». Posso confessarti che per un lungo periodo ho ritenuto che “The Pagan Manifesto” fosse l’ultimo disco degli Elvenking. L’approccio a quel lavoro fu completamente diverso e totalmente stimolante: io e Damna andammo alla ricerca di vecchissime cassette – o file – dove avevamo registrato bozze di idee, accenni di canzoni, riff e melodie risalenti ai diversi periodi degli Elvenking, soprattutto pre “Heathenreel”, alla ricerca di riscoprire lo spirito con cui approcciavamo il songwriting e l’idea della band che avevamo in quel periodo, che possiamo definire pura e innocente. Non volevamo per forza utilizzare vecchi pezzi o idee, ma ricercare lo spirito che – era chiaro – avevamo completamente perso lungo il nostro cammino. In questo modo ci siamo completamente immersi in un entusiasmo e uno spirito che abbiamo letteralmente riscoperto, e da cui ci siamo lasciati ispirare. Non per nulla “The Pagan Manifesto”, dalla maggior parte delle persone, è considerato il nostro album migliore, oltre al lavoro più ascoltato su Spotify, per esempio. Alcune canzoni erano state parzialmente scritte dieci-quindici anni prima, altri riff o melodie hanno fatto da punto d’ispirazione per altre tracce, ma tutto il songwriting di quell’album è figlio dello spirito originale, quando eravamo dei semplici ragazzini che non vedevano l’ora di ritrovarsi in sala prove, pronti a lavorare sulle proprie idee, nel tentativo di trasformarle insieme in grandi pezzi. L’ottimo risultato di “The Pagan Manifesto”, sicuramente commerciale, ma soprattutto di intesa e di coesione della band, ci ha portato a rivedere completamente le nostre idee e ci ha riconnesso al 100% con l’essenza degli Elvenking: dall’idea di chiudere la carriera con un grande album, pian piano ci siamo resi conti di essere pervasi da una completa nuova linfa vitale. Non avrebbe avuto senso fermarci in quel momento, anche perché proprio in quel periodo la band ha cominciato a essere sempre più richiesta per tour e festival, e a ogni concerto, da ogni parte del mondo, il pubblico era entusiasta nel rivedere le spirito originale, portato anche a livello live. A quel punto ci siamo ripromessi che da quel momento in avanti il nome Elvenking avrebbe continuato a esistere e a crescere, ma solo e soltanto con lo spirito musicale, lirico e concettuale con cui la band era stata fondata a fine anni Novanta, e che lo stile non avrebbe mai dovuto scostarsi da quello definito in origine con “Heathenreel”.

Qual è il disco degli Elvenking a cui sei più legato, e perché?

Vorrei nominarne tre: “Heathenreel”, perché lo spirito che c’è stato dietro quell’album è una storia di passione, entusiasmo e vera amicizia, che mai potrà ritornare a creare quella magia, come un grande film degli anni Ottanta, che sappiamo non potrà mai essere riproposto nello spirito. Lo ritengo sinceramente – e probabilmente poco modestamente – come uno degli album più personali e magici nella scena.
Poi nomino “The Winter Wake”, perché rappresenta il ritorno di Damna nella band e la rinascita degli Elvenking. Infine “The Pagan Manifesto”, probabilmente il nostro album più completo e riuscito di sempre.

Una domanda che mi piace spesso fare alle figure storiche della scena metal tricolore: supponiamo che tra i nostri lettori ci sia qualcuno che non conosca gli Elvenking e tu devi consigliare loro tre dischi con cui iniziare a conoscere la tua band. Che album sceglieresti e perché?

Probabilmente gli direi di cominciare con “The Pagan Manifesto”, proprio perché è l’album più completo e che può rappresentare al meglio tutte le sfaccettature della musica degli Elvenking. Poi proseguirei con “ Reader of the Runes – Divination” e “Secrets of the Magick Grimoire”, il nostro album più legato ad alcune influenze oscure e black metal, prima di inoltrarsi nella discografia più datata.

Torniamo un attimo ai venti anni compiuti da “Heathenreel”. Diciamo che l’attuale situazione che stiamo vivendo, con la pandemia e tutte le limitazioni annesse, non vi ha permesso di poter festeggiare a dovere questo importante traguardo. Avete comunque qualcosa in programma?

Sì. Il piano originale era quello di suonare tutto l’album in un concerto dedicato, al Live di Trezzo, che era già stato organizzato. Poi, ovviamente, tutto è saltato per ovvi motivi. Oltre a questo posso dirti che abbiamo già preparato un’edizione speciale di “Heathenreel” in vinile, rimasterizzato per l’occasione da Jacob Hansen, che avrebbe dovuto essere già disponibile. Sfortunatamente, come forse sai, l’industria del vinile è in grossissima difficoltà a causa dell’improvvisa crescita esponenziale della richiesta di materiale e i tempi per stampare un vinile variano oggi da sei mesi a un anno. L’edizione speciale di “Heathenreel”, che era prevista in uscita a settembre 2021, di conseguenza è stata posticipata a inizio 2022. Speriamo di annunciare a brevissimo la data ufficiale. In pratica, quindi, festeggeremo in ritardo i vent’anni, ma lo faremo comunque e magari con l’occasione potremo anche portare dal vivo tutto l’album, chissà! E l’edizione in vinile non sarà l’unica cosa dedicata: abbiamo girato anche uno speciale documentario sulla realizzazione dell’album, con tutto il materiale video che abbiamo trovato nei nostri archivi, come ad esempio alcune interviste alla formazione originale completa e un sacco di altro materiale interessante. Dovrebbe uscire in concomitanza con la release in vinile, in un’edizione speciale limitata. Ci piacerebbe anche poter organizzare una première del documentario, proiettandolo in un piccolo cinema, o in un locale, con tutta la band e i membri originali presenti. Anche qui, ovviamente, tutto COVID permettendo. Le idee sono tante, ma stiamo attendendo di capire gli sviluppi della pandemia per sapere come muoverci.

E degli Skyclad che mi dici? Sono sempre importanti per te e gli Elvenking, come lo erano vent’anni fa?

Io rimango saldamente legato agli Skyclad del periodo Noise, con la vecchia formazione con Dave Pugh e Keith Baxter e, chiaramente, con Martin alla voce. Il periodo più metal, in cui la definizione del sound che unisce le influenze folkloristiche a quelle più aggressive di un certo thrash anni Ottanta è stata perfetta. Ho amato molto anche il periodo successivo, molto più acustico e folk, che poi si è riaffacciato alle sonorità più metal con due ottimi album come “Vintage Whine” e “Folkemon”. Purtroppo dopo l’uscita di Martin Walkyier la band non è più stata in grado di proporre materiale della stessa qualità.

Una domanda che è più una curiosità personale… So che come me sei un grande appassionato degli Helloween. Cosa pensi della loro ultima fatica? Ti ha convinto?

Posso dirti senza paura che l’uscita dell’ultimo Helloween per me è stata la release discografica più importante di tutta la mia vita. Io sono cresciuto con gli Helloween. ‘Eagle Fly Free’ è stata la canzone che ha letteralmente cambiato la mia vita quando l’ho sentita per la prima volta e “Keeper of the Seven Keys Part II”, oltre a essere l’album migliore della storia, a mio parare, è stato la colonna sonora della mia vita. Ho conosciuto gli Helloween alla fine del 1989 quando ancora non sapevo che Kai Hansen aveva lasciato la band e il sogno di rivedere una reunion era una possibilità in cui ho sperato da sempre, ma a cui, per scaramanzia, non ho mai voluto credere troppo. E invece quello che è successo è semplicemente incredibile e averli visti dal vivo a Praga per me è stata un’esperienza inenarrabile. L’album è veramente ottimo, la produzione è incredibile, con quel feeling analogico degli eighties che ormai ci sogniamo nelle produzioni odierne – ormai tutte identiche e tristemente appiattite – e le canzoni contenute sono eccellenti. Posso dire a mente più fredda, dopo alcuni mesi di ascolti incessanti, che avrei forse preferito un paio di tracce in più a firma Hansen e credo che un lavoro più corale e collaborativo tra i songwriter avrebbe potuto dare ancora di più. Qui ci sono le canzoni di ogni singolo membro a livelli eccellenti. Weikath ha scritto alcune cose eccelse, le canzoni di Deris sono Deris al 100% ma con quel guizzo in più che spesso è mancato in passato e ‘Skyfall’ è la summa di tutto. Ma sono certo che se ci fosse stata qualche collaborazione Hansen-Weikath o perché no, qualche inedita Deris-Hansen, avremmo avuto ancora di meglio, se possibile. Sono quasi certo che il prossimo album potrebbe rivelarsi a sorpresa ancora migliore di questo, magari con la collaborazione nel songwriting anche di Kiske.

Aydan

E adesso? Cosa ci riserveranno in futuro gli Elvenking?

Il COVID ha completamente scombinato e rivoluzionato qualsiasi piano avessimo in programma. Siamo riusciti a suonare qualche concerto nell’estate del 2020 e nel 2021 abbiamo suonato in condizioni limite due live: uno in Italia e uno in Repubblica Ceca, qualche settimana fa. Alla fine posso anticiparti che l’unica cosa sensata da fare per noi, con tutto il tempo vuoto a disposizione, è stata metterci totalmente al lavoro e immergerci completamente nel songwriting e posso anticiparti che in questi due anni abbiamo completato la scrittura di entrambi i prossimi capitoli della trilogia “Reader of the Runes” e che a breve cominceremo le registrazioni del successore di “Divination”. Non posso anticiparti di più al momento.

Beh, ci hai dato delle grandissime anticipazioni, direi! Aydan, siamo giunti alla fine di quest’intervista. Ti ringrazio per il tempo che ci hai dedicato e lascio a te l’ultima parola, per un saluto ai lettori di Truemetal.it. Noi ci vedremo presto on the road!

Grazie infinite per l’opportunità di condividere questi vecchi ricordi con i lettori di Truemetal. Ci vediamo prestissimo on the road e a breve avrete notizie per quanto riguarda il nostro nuovo album!