Progressive

TrueMetalStories: Ark, prog. sopraffino dalle “lande” norvegesi

Di Roberto Gelmi - 16 Ottobre 2016 - 9:48
TrueMetalStories: Ark, prog. sopraffino dalle “lande” norvegesi

TrueMetalStories: la rubrica in cui presentiamo band giovani e pronte a sfondare, o band di lungo corso che ancora non hanno ricevuto il successo che meritano.

Una genesi insolita

Può una band nata dall’amicizia di musicisti tecnicamente eccellenti, ispirati e desiderosi di prendersi qualche soddisfazione musicale, lasciare il segno nella storia del prog. con solo due album in studio? Nella loro breve carriera, a cavallo tra la fine del vecchio e l‘inizio del nuovo millennio, è quello che hanno fatto gli Ark, ormai band di culto a tutti gli effetti. Mentre oggi assistiamo sempre meno a scioglimenti fisiologici di band e al protrarsi di gruppi che possono vantare un moniker altisonante, ma una formazione rappezzata, il nome Ark suona poderoso e degno di rispetto, proprio per la sua effimera unicità. Le due ore di musica circa che ci hanno regalato Tore Østby, John Macaluso e Jørn Lande hanno del miracoloso, soprattutto se pensiamo che il debutto del 1999 è stato registrato quasi amatorialmente e a quanta strada ha fatto il cantante norvegese, oggi showman con una carriera solistica, che seppur poco originale, ha una stabilità inoppugnabile.

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Ma torniamo agli anni Novanta. Un giovane chitarrista, all’anagrafe Tore Østby (classe 1972), proveniente da Toten (nell’Oppland, contea della Norvegia centrale) insieme all’istrionico Roy Khan aveva furoreggiato con i Conception con quattro platter memorabili tra il 1991 e il ’97. I cultori del primo prog. metal non posso dimenticare questi album memorabili, penalizzati da una produzione sommaria, ma ricchi di idee innovative (basti citare canzoni come “A million Gods” e “Paralell Minds”). Lo stile dello shredder è ricercato ed eclettico, va dai virtuosismi malmsteeniani alla ricerca melodica di Al Di Meola e David Gilmore, passando per il blues e il metal. Difficile inquadrare una figura così sfuggente come quella di Tore, che proprio per il suo mancato esibizionismo è ormai un chitarrista leggendario.
Lo scioglimento dei Conception fu un mezzo trauma per chi sperava potessero regalare altre perle musicali (oggi chi sono gli eredi? I Circus Maximus, i Pagan’s Mind?), in un periodo che vedeva un vero fermento in ambito progressive. Band come Dream Theater, Ice Age, Tiles, Transatlantic (di lì a breve), Ayreon, Pain of Salvation, Everon, Shadow Gallery, Threshold, Evergrey, Symphony X e altre ancora componevano dischi che hanno fatto la Storia.
L’eclettico Østby, tuttavia, conosceva un batterista e session man americano di tutto rispetto, tale John Macaluso, laureato al prestigioso California Percussion Institute of Technology e attivo con band del calibro di of Mcm, Powermad, TNT e Riot. Pur essendo in contatto dal 1990, i due musicisti decidono che è venuto il tempo propizio per una collaborazione fattiva solo nel ’99. Senza preoccuparsi di reclutare un bassista, ingaggiano un cantante di spessore: l’eletto è Jørn Lande, poco più che trentenne, già sul palco con The Snakes e i Mundanus Imperium (chi li conosce sa la peculiarità di questa band).

Il debutto

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Con l’aiuto di Tommy Newton (al mastering, ma anche collaboratore fidato di Østby) il power trio nel primo giorno d’autunno del ’99 pubblica il proprio self-titled. La copertina standard vede una specie di totem a tre teste in un paesaggio desolato (nella japanese edition si punta invece sulla fantascienza); il logo è di un’essenzialità totale.
Immaginate di essere nei panni di chi comprò l’album diciassette anni fa… una vera scommessa! In sette canzoni i norvegesi riversano un numero incredibile di influenze musicali e ardimenti azzardati. Si va dal metal, al rock settantiano, al blues, senza dimenticare un tocco di flamenco (sì, leggete bene), buona melodia e il drumming chirurgico, ricco di finezze e sincopi di Macaluso. Basso quasi assente, solo Ingar Amlien compare come ospite, anche per questo “si respira” un’aria inconfondibile ascoltando questo disco, che suona con un piglio selvaggio e imprevedibile. Tutto inizia con un fade-in virtuosistico di batteria, tutto termina con una risata di bambino. Un album artigianale, ma sincero, difficile, se non impossibile, inquadrarlo in un genere specifico. I testi sono un filo stereotipati, ma hanno un buon mordente, basti al prima strofa di “Singers at worlds Dawn”: Viking I’m a Viking / and my name is victory / I’m a snow man in a snow land / and I sail the seven seas.

Il capolavoro

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Il successore, Burn the sun, consacrò gli Ark negli annali. Un disco pressoché perfetto, con una produzione adeguata e una line-up stellare. Ad affiancare i tre mattatori troviamo niente meno che il bassista Randy Coven (Steve Vai, Steve Morse, Mountain) e il tastierista Mats Olausson (Yngwie Malmsteen). Questi ultimi arrivano a musica già composta, ma il loro tocco arricchisce indubitabilmente il sound del platter. Pensare a un altro quintetto simile è difficile, il bagaglio tecnico in questo caso è sinonimo di riuscita eccellente.
Se l’artwork questa volta è anonimo, tuttavia il concept è ambizioso.

“The album tells of unrest and disturbance in the universal balance of our planet. Beginning at the Earth’s core, the music unfolds to encompass dry land, the sea, and the creatures of the Earth, the sky, space and beyond. When you think about it, you really can’t burn the sun – still we all try every day of our lives, pushing to get ahead not taking notice of the people around us, on a course or mission leading to the unknown. Always pushing toward a common goal but sometimes that goal is an impossible one and some will die trying, trying to “Burn The Sun”.

L’album racconta del conflitto e del rovello nell’equilibrio universale del nostro pianeta. Iniziando dal centro della Terra, la musica si svela man mano nell’intento di squadernare la terra arida, il mare, e le creature della Terra, il cielo, lo spazio e oltre. A pensarci bene, non si può davvero bruciare il sole – tuttavia continuiamo ogni giorno le nostre vite, sforzandoci di andare avanti senza far caso alle persone che ci circondano, su una strada o con una missione che porta all’ignoto. Sforzandosi sempre di mirare verso un unico obiettivo, ma qualche volta questo obiettivo è impossibile e alcuni moriranno nel provarci, provando a “bruciare il sole”.

Solo retorica? Siamo di fronte, semmai, alla sensibilità nordica per il rapporto Uomo-Natura, tema che si presta a una rilettura musicale dalle sfumature infinite e toccanti.
Riascoltando un album così longevo, non possono non venire alla mante il suono della monetina che rotea in “Heal the waters”, l’attacco di basso di “Turn”, oppure la chitarra acustica imbizzarrita in “Just a Little Crazy” (una delle ballad da lasciare al nuovo millennio), la pazzia falotica di “The absolute zero” (una strofa recita “electrical conductors / hundreds of years freezing / trigonometric flight to the sun / fragments of galaxies on the run / escaping from the eclipse of eternity / waiting for the big bang”) e la Sehnsucht di “Missing You”. Anche il mesto cammeo semiacustico “Silent is the rain” è una bonus track da brividi.

L’effimero futuro

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Dopo un tour di supporto all’album gli Ark prendono un periodo di pausa e poi si sciolgono nel 2002, come un fuoco fatuo destinato a un’estinzione precoce. Il seguito è noto a tutti: Lande andrà a far parte dei Masterplan insieme a Roland Grapow, uscito dagli Helloween (in vena di un ritorno al power più happy), e Uli Kusch. I due dischi, Masterplan e Aeronautics, restano buoni platter metal, soprattutto il primo. Circa la carriera solistica del cantante norvegese inutile dilungarsi più di quanto già fatto. Ieri avevamo Worldchanger, oggi abbiamo tra le mani Heavy Rock Radio, è detto tutto.
A dare qualche speranza di un ritorno sulle scene degli Ark, nel 2007 viene pubblicato un disco a titolo John Macaluso & Union Radio, un album che nell’intento del batterista racchiude le idee che avrebbero dovuto confluire in un nuovo disco degli Ark. Così non è stato e il CD in questione non regala troppe emozioni, se escludiamo un bell’opener, con due ospiti di riguardo come James LaBrie e il sommo Vitalij Kuprij.

Due anni dopo Macaluso, sempre più mastermind a fronte di un Østby poco convinto sul futuro della collaborazione, annuncia l’inizio dei lavori su un nuovo album, dal suggestivo titolo Aradiokaos. Line up invariata, non fosse per la defezione di Lande. Al suo posto Adrian Holtz, volenteroso cantante di New York, conosciuto da Macaluso che ne rimane subito colpito. Tutto prometteva bene, tutti avremmo voluto il terzo disco, a comporre magari un trittico destinato a concludersi nell’eccellenza (ma già Burn the sun non è un capolavoro?). Nel 2011 lo scioglimento del progetto è definitivo, restano in mano solo ceneri e speranze infrante. La morte di Randy Coven e Mats Olausson è storia recente.
La nascita e l’alchimia di una band è qualcosa di estremamente fragile: l’equilibrio tra esseri umani necessario per comporre musica di alto livello è quanto di più impalpabile e necessario al contempo. L’identità degli Ark era racchiusa nel moniker, un’arca cosmopolita, una satura lanx di influenze musicali disparate ma non idiosincratiche: con tali ambizioni si poteva solo tentare esprimere il meglio in uno sbocciare estemporaneo di creatività. Meglio un grande album che più album solo discreti…
Ringraziamo gli Ark per averci regalato canzoni memorabili, la vita di molti (la mia in primis) sarebbe meno intelligente e profonda senza aver conosciuto e amato questa band unica.