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Live Report: Hellfest 2017 16-18/06/2017

Di Davide Sciaky - 13 Agosto 2017 - 12:30
Live Report: Hellfest 2017 16-18/06/2017

Jared James Nichols

Il nostro secondo giorno inizia nuovamente al secondo Main Stage, questa volta con l’americano Jared James Nichols (qui la nostra intervista fatta alcune ore dopo la sua esibizione).
Ovviamente il tempo a disposizione del giovane chitarrista è poco, ma nella mezz’ora circa di concerto Nichols conquista il pubblico con il suo coinvolgente mix di Blues e Hard Rock à la Jimi Hendrix.
I non abbondantissimi ma contenti fan arrivano a cantare “One more song! One more song!” [N.D.R. “Ancora una canzone!” in inglese] a fine concerto, richiesta davvero rara fatta al primo gruppo della mattina, ma ancora più inusualmente gli organizzatori concedono alcuni minuti extra al gruppo che si lancia in un’energica improvvisazione che lascia il pubblico entusiasta.

Monkey3

Ci spostiamo davanti al Valley, il palco dedicato allo Stoner, al Doom e alla Psichedelia, dove stanno per esibirsi i Monkey3, gruppo Stoner svizzero ormai alla sua terza esibizione a Clisson.
Il loro palco sembra essere ispirato a quello degli Hawkwind (che suoneranno sempre al Valley il giorno successivo) con un telo su cui vengono proiettati temi psichedelici; a questo si aggiungono i simboli alchemici degli elementi equamente distribuiti tra i musicisti.
La musica dei quattro svizzeri è uno Stoner che vira verso lo Psichedelico piuttosto che verso il Doom, come spesso capita al Valley, e l’atmosfera che si respira è quindi più sognante che opprimente.
Nel non tantissimo tempo a disposizione i Monkey3 suonano solamente 5 canzoni, i tempi dilatati come ci si aspetta da un gruppo del genere e da questo palco, che soddisfano pienamente i presenti.
Le reazioni del pubblico del Valley non sono mai estremamente espansive, ma bisogna considerare il clima che si vive sotto al tendone, relax e stati mentali alterati.

 

Phil Campbell and the Bastards Sons

È il turno di Phil Campbell and the Bastards Sons, il nuovo gruppo del chitarrista che per più di 30 anni ha asfaltato i palchi di tutto il mondo con i Motörhead; i “Bastards Sons” che lo accompagnano non sono altro che i veri figli di Campbell a cui si aggiunge Neil Starr alla voce.
Quello che ci aspettiamo da questo concerto è una buona dose di Rock N’ Roll vecchio stile e, perché no, un po’ di sana nostalgia: le nostre aspettative non sono disattese dalla band che alterna pezzi nuovi, pezzi dei Motörhead e addirittura una cover degli Hawkwind (band in cui Lemmy militò prima di fondare i Motörhead).
I pezzi nuovi della band sono piacevoli e funzionano bene, ma è con le cover che il pubblico si sveglia davvero: “Rock Out” e “Going to Brazil” sono le prime cover che si sentono e che vengono accolte con grande entusiasmo.
Si torna poi ai pezzi nuovi della band partendo da “Take Aim”, nuovamente alternati ad altre cover.
Si arriva poi a “Silver Machine”, il pezzo degli Hawkwind già menzionato, che seguito da “Ace of Spades” e “Killed by Death” conquista definitivamente il pubblico.
Da uno delle due persone (l’altra ovviamente è il batterista Mikkey Dee) che più legittimamente possono suonare musica dei Motörhead non ci aspettavamo nulla di diverso e a noi va bene così.

Steel Panther

Quello degli Steel Panther è uno show che può lasciare un po’ combattuto chi li ha già visti.
Se da un lato la qualità musicale è innegabile, le battute che vengono per la maggior parte riciclate show dopo show possono sapere un po’ di stantio e abbattere un po’ il livello del concerto.
Concentrandoci però su quello che conta, la musica, non abbiamo dubbi su una performance potente e coinvolgente.
Si inizia con “Eyes of a Panther” che stabilisce il tono del concerto concentrato sui pezzi più energici degli americani; si continua con un alternarsi di pezzi da tutti gli album della band, anche se il grosso delle canzoni viene dal primo album, Feel the Steel.
Da questo album, ad esempio, è tratta “Death to All but Metal”, ormai un classico che con la sua energia ed irriverenza fa divertire tutti i presenti.
Sempre dal debutto è tratta “Community Property”, suonata alcune canzoni dopo, ballad che viene cantata a grande voce dal pubblico.
Per “17 Girls in a Row” vengono fatte salire sul palco proprio 17 ragazze, scelte dal pubblico, che ballano in topless sul palco fino alla fine del concerto; per la fine del set si torna sul classico, “Party All Day (Fuck All Night)”, canzone che sembra un classico ottantiano di Bon Jovi, che con la sua allegria conclude lo show degli Steel Panther.
Lo show si può riassumere in Glam, tette e festa, a buon intenditore poche parole.

 

D.R.I.

Per il concerto dei D.R.I. ci spostiamo sotto al Warzone, il palco dedicato principalmente al Punk ma, anche, a tutti i gruppi portatori sani di “ignoranza”.
Salgono quindi sul palco i paladini del Crossover Thrash che aprono il concerto con una devastante “Who Am I”; il pubblico non si risparmia e dal primo secondo sale una nuvola di polvere causata dal violento circle pit.
Spike Cassidy macina riff schiacciasassi mentre Kurt Brecht canta gli inni contro la società della band; l’ultimo entrato nella band, il batterista Walter Ryan, intanto pesta come un dannato scatenando il pogo sotto al palco.
Il tempo a disposizione della band è sufficiente perché gli americani riescano a suonare ben 20 canzoni, d’altronde i loro brani sono sempre piuttosto brevi, andando così a rappresentare degnamente tutta la loro discografia.
Non mancano quindi “Abduction” e “I Don’t Need Society”, “Beneath the Wheel” e “Mad Man”, lasciando anche spazio all’EP con cui la band è ritornata con dei nuovi pezzi dopo più di 20 anni, “But Wait…There’s More!”, che viene suonato per intero.
A fine concerto vediamo facce imbrattate di polvere e sudore, ma con grandi sorrisi soddisfatti stampati sopra; un’ora di violenza che tutti i presenti si sono assolutamente goduti.

Saxon

Per i Saxon è quasi superfluo scrivere alcunché, gli inglesi sono una formidabile macchina da guerra che inevitabilmente conquista chiunque assista ad un loro concerto.
Lo show si apre con “Battering Ram”, unico pezzo tratto dall’ultimo album omonimo, per poi continuare con un classico, “Motorcycle Man”.
Il concerto sarà un riuscito alternarsi di pezzi più recenti e vecchi classici (per l’appunto continua con “Sacrifice”, prima, e “Power and the Glory”, poi) che convincono tutti coloro che si sono radunati sotto al secondo Main Stage; certo, come prevedibile la maggiore partecipazione la si vede sui classici, ma anche i nuovi potenti pezzi raccolgono il giusto entusiasmo e la loro dose di headbanging.
Biff, poi, da grandissimo frontman che è, si presenta nella sua classica divisa (nonostante il gran caldo) e non si risparmia un secondo: tra l’headbanging che scuote la sua chioma pallida e il suo andare da un’estremità all’altra del palco ad incitare il pubblico è impossibile rimanere impassibili.
Con un devastante trittico di classici, “Wheels of Steel”, “Denim and Leather” e “Princess of the Night”, si chiude un concerto che ci ricorda perché questi signori sono ancora qui a quasi 40 anni dal loro debutto.

Primus

Torniamo nuovamente al Valley per il concerto dei Primus, un Valley oscuro e fumoso.
Non è una metafora, il palco è davvero per lo più illuminato da una luce fioca per la maggior parte del concerto e, contemporaneamente, coperto dal fumo artificiale pompato da prima dell’arrivo dei musicisti; è quindi un’atmosfera tutta particolare, ma sicuramente adatta alla musica proposta, quella che troviamo.
Les Claypool sale sul palco, la sua bombetta in testa, e comincia da subito a sconvolgere il pubblico con le sue acrobazie al basso.
A differenza degli altri gruppi visti finora, i Primus non dedicano un secondo alla musica più recente e suonano solo pezzi dai loro primi quattro album; si succedono quindi “Those Damned Blue-Collar Tweekers”, il classico “Wynona’s Big Brown Beaver” e altri pezzi arci-noti del combo americano.
Per “Mr. KrinkleClaypool recupera una maschera da maiale, quella indossata nel video della canzone, e un contrabbasso che suonerà infondendogli la dose di follia che permea tutta la musica della band.
Probabilmente la reazione più entusiastica del pubblico arriva su “My Name is Mud”, altro classico della band, forse il pezzo più noto, che insieme a “Jerry Was a Race Car Drive” chiude il concerto.
Show davvero convincente che speriamo di rivedere al più presto.

 

Aerosmith

Arriviamo quindi agli Aerosmith, ovviamente sul primo Main Stage, secondi headliner di questo Hellfest.
La folla che si accalca sotto al palco, come prevedibile, è sterminata ed è con grande difficoltà che riusciamo ad avvicinarci venendo dal Valley; davanti a leggende di un tale calibro, per di più al presunto tour di addio, non ci aspettiamo di meno.
Il concerto si apre con “Let the Music Do the Talking” e prosegue con “Young Lust”, pezzi conosciutissimi che vengono accolti con il giusto entusiasmo.
Se sentire certi classici, magari per la prima volta come per chi scrive, può essere certamente emozionante, è però difficile soprassedere ad alcune sbavature che inficiano la qualità del concerto.
Su tutte c’è la voce di Steven Tyler che fatica non poco su vari pezzi e che viene aiutato spesso da Joe Perry; viene quindi quasi il dubbio che “Stop Messin’ Around”, cover dei Fleetwood Mac cantata proprio dal chitarrista, sia stata messa in scaletta per permettere al cantante di riprendere il fiato.
Quella delle cover, poi, è un’altra questione spinosa: se da un lato sentire qualche cover può essere piacevole, inserirne ben cinque in una scaletta di diciassette pezzi è decisamente eccessivo.
Canzoni come “Love in an Elevator”, “I Don’t Want to Miss a Thing” e “Dream On”, comunque, emozionano il pubblico che le canta a squarciagola.
Proprio per “Dream On” assistiamo ad uno degli apici del concerto quando viene posizionato un pianoforte alla fine della passerella che taglia il pubblico, pianoforte che viene suonato da Tyler e su cui poi sale Perry per suonare l’assolo.
Dopo l’ennesima cover la band suona un ultimo classico, “Walk This Way” e si congeda.
Come abbiamo scritto prima emozione, sì tanta, ma qualche riserva su un concerto che, almeno nella scaletta (se la voce non c’è non si può fare molto), avrebbe potuto essere migliorato.