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Live Report: Hellfest 2019 21-23/06/2019

Di Davide Sciaky - 22 Luglio 2019 - 10:00
Live Report: Hellfest 2019 21-23/06/2019

Deadland Ritual:

Lo show dei Deadland Ritual era stato annunciato quasi in sordina, ma la recente nascita della band ha segnato il ritorno sulle scene del leggendario Geezer Butler che era sparito dopo l’ultimo concerto dei Black Sabbath a febbraio 2017.
A fianco al bassista troviamo altri musicisti noti e amati, alla batteria Matt Sorum (ex Guns n’ Roses), alla chitarra Steve Stevens (Billy Idol) e alla voce Freddy Perez (Apocalyptica). Il concerto si apre con ‘Symptom of the Universe’ e consiste perlopiù in cover: troviamo un altro pezzo dei Sabbath, ‘Neon Knights’, uno dei Billy Idol, ‘Rebel Yell’, uno dei Velvet Revolver, ‘Slither’, a fianco ad una manciata di pezzi originali dei Deadland come ‘Dimas’ e ‘City of Night’. Ovviamente il pubblico risponde più calorosamente alle canzoni che riconosce, le cover, e letteralmente esplode col pezzo finale, ‘War Pigs’. Che bello ritrovare sul palco Geezer in ottima forma, un Matt Sorum sorridente e contento ed in generale una band che diverte i fan e si diverte sul palco.

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Eagles of Death Metal:

Questo gruppo il cui nome può far pensare a musica estrema o ad una sperimentazione azzardata, crea in realtà un buon Rock, con un sound piuttosto riconoscibile e una buona dose di sarcasmo alle spalle. Sul palco si presentano senza pretese, senza vestiti appariscenti né gran scenografia. Suonano sette canzoni senza fermarsi troppo se non per ringraziare e dare il benvenuto agli spettatori.Ciononostante, il pubblico resta attivo e l’atmosfera non si raffredda (sarebbe stato comunque difficile, visto il clima) e il concerto si rivela un buon successo anche prima che il cantante, Mr. Jesse Hughes, decida di farsi un bagno nella folla: per il penultimo pezzo, il cantante va su e giù lungo la transenna a stringere la mano ai fan e a cercare un punto in cui oltrepassare. Dopodiché, per l’ultima canzone (cantata dai membri rimasti sul palco) si lancia nella folla, e per qualche minuto tutto ciò che si vede di lui sui megaschermi è la punta della chitarra che si muove tra il pubblico. Quando tenta di risalire però, le guardie lo fanno tornare nel backstage: la conclusione del concerto passa aspettando il suo ritorno. Quando riesce a tornare sul palco, però, il tempo è scaduto, ma, nonostante l’evidente fastidio di almeno un membro del gruppo (e le conseguenti scuse di Hughes), il concerto si può considerare un buon successo e riceve il benestare del pubblico. 

 

Whitesnake:

I Whitesnake hanno celebrato l’anno scorso i 40 anni di carriera ma non accennano a rallentare. Saliti sul Main Stage 1 del Hellfest si trovano davanti una grossa folla entusiasta che ricompensano con Rock di qualità e tanto testosterone. La scaletta include molti classici e qualche pezzo nuovo: l’appena uscito “Flesh & Blood” si vede rappresentato da ‘Hey You (You Make Me Rock)’ e ‘Shut Up & Kiss Me’, poi si torna indietro nel tempo con tanti classiconi come ‘Slide It In’, ‘Is This Love?’, ‘Here I Go Again’. Nel mezzo troviamo anche una “guitar battle” e un assolo di batteria che permettono agli strumentisti di brillare, e che spettacolo vedere una leggenda come Tommy Aldridge picchiare così la sua batteria! Coverdale mostra tutta la sua esperienza trascinando il pubblico abilmente e, se la sua voce non raggiunge più certe note, rimedia con la sua presenza scenica e con l’aiuto della seconda voce del tastierista Michele Luppi (orgoglio italiano!).

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Candlemass:

Il doom dei Candlemass, leggende indiscusse nel campo, tuona dal tendone dell’Altar Stage, colpendo con lente e fragorose ondate la massa di gente che si muove tra un palco e l’altro. La scena che si presenta agli occhi è quasi surreale: le tonalità basse e cupe fanno vibrare l’aria, mentre la maggioranza del pubblico sembra quasi ipnotizzata dalle sonorità, muovendosi a tempo con il suono o restando immobile a contemplare lo spettacolo. Come normale nei tre tendoni, il palco è quasi invisibile in una coltre di fumo. Di tanto in tanto si scorge la sagoma di Johan Langquist, cantante del primissimo disco del gruppo, da circa un anno tornato a far parte della formazione dopo quasi trent’anni di assenza, la cui abilità vocale riesce a rendere bene anche sulle canzoni dei suoi successori, creando un ottimo risultato che riporta indietro negli anni a “Epicus Doomicus Metallicus“, confermando la posizione dei Candlemass nel Pantheon del Doom mondiale. 

 

Def Leppard:

I Def Leppard sono stati introdotti quest’anno nella Rock And Roll Hall of Fame, ma i tanti riconoscimenti e i 42 anni passati dalla formazione della band inglese non hanno certo inficiato sull’energia che i cinque mettono sul palco. Lo show vede i Leppard suonare 14 canzoni la cui meno vecchia (‘When Love and Hate Collide’) ha più di 20 anni, insomma, una scaletta “best-of” che non può che soddisfare tutti i presenti, dai fan più accaniti a quelli più occasionali. Si apre con ‘Rocket’, e l’album da cui è estratta, “Hysteria”, verrà suonato per metà: d’altronde pezzi come ‘Animal’, ‘Love Bites’ e ‘Pour Some Sugar on Me’ sono classici immortali e non possono certo mancare dalla setlist. La band è carica e tutti i musicisti distribuiscono sorrisi mentre la batteria di Rick Allen tuona dal fondo del palco. L’ora e un quarto a disposizione del quintetto inglese letteralmente vola ed in un attimo si arriva all’ennesimo classico, ‘Photograph’, che chiude un grande show che ha catapultato per un po’ i migliaia di spettatori negli anni ‘80.

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ZZ Top:

Delle leggende del genere non hanno bisogno di presentazioni. Uno spettacolo semplice, tre settantenni sul palco, un singolo logo sui megaschermi e innumerevoli migliaia di persone davanti al palco. Festeggiano i 50 anni di carriera insieme, con abilità ed esperienza, senza perdere un colpo nonostante l’età. I tre Texani, famosi per essere sempre stati assieme senza aver mai cambiato formazione, attirano un pubblico dei più eterogenei: non c’è un range d’età, si riconoscono anziani, giovani e bambini, gente di tutti i sessi e di tutte le sottoculture musicali di cui questo genere è pieno. Il repertorio rasenta la perfezione: Mr. Beard, batterista, entra e dà il via a ‘Got Me Under Pressure’, sulle cui note salgono sul palco Mr. Gibbons e Mr. Hill, dando inizio alla festa. Le prime canzoni non sono più recenti del 1983 (tratte  dai dischi “Eliminator“, “El Loco” , “Degüello” , e “Tres Hombres” ), mentre da metà concerto, con ‘I Gotsta Get Paid’, si passa anche ai dischi più recenti. Ogni qualche canzone, poi, chitarra e basso cambiano, seguendo la storia degli strumenti usati dalla band nel corso degli anni. L’effetto del concerto è un crescendo, partito in alto e destinato a finire in altissimo, con le quattro canzoni più famose ‘Sharp Dressed Man’, ‘Legs’ (suonata sulle famose “White spinning fur guitar” del video originale) , ’La Grange’ e ‘Tush’ a chiudere lo show. Nonostante gli effetti dell’età si vedano sui tre texani, che non si muovono molto sul palco e hanno più di qualche aiuto per il cambio chitarre, musicalmente non perdono un colpo e la performance è ottima. Inutile dire che raccontare un’esperienza simile non le rende giustizia, va provata con le proprie orecchie. 

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Kiss

“You wanted the best, you got the best. The hottest band in the world. KISS!”.
Una frase scolpita nel cervello di tutti gli amanti dell’Hard Rock, la leggendaria introduzione dei Kiss risuona a Clisson uscendo dagli altoparlanti e dalle gole di tutti gli spettatori. Il boato non si è ancora spento e inizia ‘Detroit Rock City’, poi fuoco, esplosioni, sparisce il telo che copriva il palco rivelando tre piattaforme che calano dall’alto Paul Stanley, Gene Simmons e Tommy Thayer. Questo inizio è un buon indicatore di cosa saranno le prossime due ore: un grandissimo show con tanti effetti speciali per la band che, forse più di ogni altra, ha introdotto lo spettacolo nel Rock decenni fa. I classici si susseguono senza sosta, ‘Shout It Out Loud’, ‘I Love It Loud’, ‘Lick it Up’, e non potrebbe essere altrimenti in quello che, essendo il tour di addio della band, vuole essere una celebrazione della sua storia. Gli scettici diranno che, avendo già visto un tour di addio dei Kiss 20 anni fa, gli americani potrebbero mangiarsi di nuovo la loro parola. Davanti ad uno show di questo livello, però, ci dimentichiamo subito tutte le polemiche e le critiche, e non possiamo che essere in ammirazione davanti ad una grandissimo spettacolo. Non mancano scene che ormai sono classiche come Gene Simmons che sputa fuoco poco prima di ‘War Machine’ e l’assolo di batteria durante il quale Eric Singer e la sua batteria vengono sollevati a vari metri di altezza. Durante il concerto i membri si muovono per il palco – ci sono tanti microfoni in giro che permettono una certa spensieratezza a Stanley e Simmons – e vanno a fissare negli occhi e ad indicare quanti più fan possibili, mosse semplici ma che non possono che coinvolgere ancora più i presenti. Prima di ‘Love GunPaul chiede al pubblico di urlare se vogliono che venga tra di loro; il pubblico esegue ed il frontman sale su una carrucola che lo porta, dopo un volo sopra agli spettatori, su un palchetto in mezzo alla folla. Da lì il musicista suona un paio di pezzi prima di tornare sul palco dove viene suonata una stupenda ‘Black Diamond’. Dopo una rapida ritirata dietro le quinte, Singer ricompare con un pianoforte su cui suona ‘Beth’. Gli altri tre musicisti ricompaiono al suo fianco al termine della canzone e suonano ‘Crazy Crazy Nights’ e ‘Rock and Roll All Nite’ che concludono uno show di altissimo livello. Il giorno in cui i Kiss si ritireranno davvero sarà davvero un giorno triste per il Rock.

 

Sisters of Mercy:

Cosa può esserci meglio nel fine serata di un po’ di vecchio goth? Inizia all’Hellfest il tour 2019 dei Sisters of Mercy, dopo due anni di assenza dai palchi. L’ora tarda fa in modo che non ci sia troppo pubblico, rendendo lo show quasi intimo (se paragonato alle dimensioni degli altri concerti). Il freddo della notte, l’umidità, il silenzio del resto del festival iniziano subito a creare l’atmosfera giusta. Una fitta coltre di fumo, poi, completa il quadro: di Andrew Eldritch, frontman e mente della band, e dei suoi compagni non si vedono che le sagome, e i giochi di luce ricordano le discoteche goth dei tempi andati. Aprendo con ‘More’, uno dei loro più grandi classici e chiudendo con ‘Temple of Love’ e ‘This Corrosion’, il quartetto inglese impegna il pubblico e fa dimenticare la stanchezza, chiudendo gloriosamente la penultima giornata.