Report: Gods of Metal 08 – Day III (29/06/08)

Di Nicola Furlan - 12 Luglio 2008 - 12:00
Report: Gods of Metal 08 – Day III (29/06/08)

DAY 3 – 29/06/2008

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JUDAS PRIEST
ICED EARTH
Y.MALMSTEEN
MORBID ANGEL
OBITUARY
ENSLAVED
INFERNAL POETRY
FRATELLO METALLO
NIGHTMARE
THE SORROW

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[Foto a cura di Nicola Furlan]

L’ultima giornata del Gods Of Metal è senza dubbio la più bilanciata delle tre. Dopo un’apertura all’insegna dell’underground, dagli Infernal Poetry fino agli headliner il bill è equamente diviso fra i campioni dell’estremo e quelli del metal classico. Equilibrati anche i tempi concessi alle singole band, in modo tale da permettere a gruppi come Obituary e Morbid Angel di gestire concerti degni della loro fama. Peccato solo per Enslaved e Infernal Poetry, che per ovvie ragioni logistiche si sono dovuti accontentare di spazi brevi nelle ore più calde: probabilmente si sarebbero potuti valorizzare maggiormente se fossero stati collocati nel bill della prima giornata. Decisamente meglio è andata nel tardo pomeriggio, complice la provvidenziale invocazione delle nubi da parte di Dave Vincent e soci, grazie alla quale almeno gli ultimi gruppi hanno potuto godere di temperature quasi umane. Ottima comunque a tutte le ore la risposta di un pubblico sudato ma soddisfatto – eloquente testimonianza del valore indiscutibile di cotanta parata di fuoriclasse, chiusa non a caso dai veri e unici Metal Gods.

Ecco dunque il report della terza e ultima parte del Gods Of Metal 2008. Già disponibili quelli della prima e della seconda giornata.

Riccardo Angelini

THE SORROW
(A cura di Davide ‘Ellanimbor’ Iori)

La giornata comincia con i The Sorrow, band che già l’anno passato è venuta in Italia come act di apertura per l’Hell on Earth tour e che quest’anno torna forte di una lunga serie di date già programmate in svariati altri festival europei tra cui il Metalcamp. Rispetto alla scorsa prestazione (documentata a suo tempo) i nostri guadagnano in impatto e tenuta di palco, anche grazie a suoni, udite udite, migliori rispetto a quelli del Transilvania Live di Milano (RIP) e di una tenuta di palco migliorata anche forse in virtù del minor tempo a disposizione e quindi della non possibilità di perdersi in fronzoli e quant’altro.

Finalmente Tobi (il bassista) resta zitto o quasi e lascia il compito di arringare le folle al frontman Andi, il quale gli cede la ribalta vocale raramente e solo quando l’alternanza screaming – cantato melodico è troppo serrata per permettere ad un’unica persona di svolgere entrambi i compiti. Uno show coinvolgente dunque di stampo marcatamente core, che molto prende dalle sonorità degli Heaven Shall Burn e riesce a risultare godibile anche se i breakdown (inseriti in ogni singola canzone) alla lunga cominciano a stancare e denotano una mancanza di idee compositive. Venti minuti sono comunque troppo pochi per dare un giudizio definitivo, attendiamo dunque i The Sorrow al varco quando finalmente verranno in italia in una situazione con meno gruppi e dove quindi potranno imbastire una scaletta più articolata, magari con suoni fatti su misura.

NIGHTMARE
(A cura di Nicola Furlan)

Per chi non li conoscesse, i Nightmare sono una storica metal band francese nata nel 1979 e rimessasi in piedi a fine anni 90 dopo lo sciolglimento avvenuto nel 1987. Da quel giorno sono stati rilasciati sul mercato un EP, quattro full-length e un live album.
Parlare di ‘voglia di fare’ può esser quindi riduttivo. Tale entusiasmo, unito alla maestria dell’esperienza maturata in campo NWOBHM e nell’attuale deformazione della stessa verso il power, si è rivisto on-stage. Sono rimasto davvero impressionato dalla capacità di gestire uno show difficile perchè accompagnato da un caldo ai limiti della sopportazione fisiologica.

Wicked White Demon e The Winds of Sin, brani tratti dall’ultimo studio album, indicano la nuova strada che la band percorre: un heavy metal tinto di power che dona maggior calore e potenza ad un sound interpretato alla perfezione dal cantante, vero maestro dietro al microfono e grande interprete della scena. Ottimi i suoni. Davvero un eccellente concerto, uno dei migliori della giornata. I prolungati applausi a fine show ne sono il giudizio più attendibile. Promossi a pieni voti.

FRATELLO METALLO
(A cura di Riccardo Angelini)

Il sole troneggia alto nella volta celeste irradiando le terre con copiosa benevolenza termica, quando il palco del Gods Of Metal viene calcato dal borchiato sandalo di un autorevole rappresentante del Dio del Cielo, della Terra e quindi anche del Metallo (ben suonato). Accolto da un boato ultraterreno, frate Cesare, per gli amici Fratello Metallo, saluta con il medesimo entusiasmo le turbe pagane in festa e le avide telecamere dei media. L’evangelizzazione delle masse è promossa con una veemenza lirica degna degli apostoli Manowar e dotte citazioni dal Vangelo degli Atroci. Ma non di solo Metallo (ben suonato) vive l’uomo: le orazioni del sacro pastore non dimenticano infatti l’attualità e i suoi temi scottanti – in primis un soggetto del quale ogni uomo di Chiesa è notoriamente appassionato oratore – il sesso. Grande è infatti la commozione dei fedeli durante l’inno “fornicator” e l’accorata preghiera “sexus sexis sexos” (variazioni vocaliche a piacere).

La metallica messa si conclude dopo una ventina scarsa di minuti, ma prima di andare in pace il buon Fra’ Metallo trova spazio ancora per un’ultima, profonda riflessione. Là dove il pregiudizio dell’infedele – spiega il reverendo padre – crede di vedere un teschio disegnato su una maglietta, l’occhio senza peccato del Popolo Metallo (ben suonato) distingue una bellissima donna in contemplazione innanzi a uno specchio lucente, allegoria del Metallo (ben suonato) e della sua energia pura e celestiale. Sulla maglietta in questione, comunque, è disegnato un teschio. Rivelazione divina o cataratta incipiente? Meditate gente, meditate…

INFERNAL POETRY
(A cura di Federico ‘Immanitas’ Mahmoud)

Tra le cose migliori del Gods of Metal 2008 annotiamo l’esibizione dei marchigiani Infernal Poetry, invertiti all’ultimo istante con il più “mediatico” Fratello Metallo.

Tecnica, presenza scenica (nelle movenze dell’indiavolato Paolo Ojetti) e una manciata di ottime canzoni è l’offerta del quintetto originario di Ancona, che vanta un rispettabile curriculum maturato sui palchi della penisola. Il pubblico è affascinato dal piglio cerebrale e “schizofrenico” delle composizioni, eseguite con perizia da tutta la band (sugli scudi una puntuale sezione ritmica) e baciate – finalmente! – da suoni corposi e potenti sin dalle prime ore della giornata.

Una spettacolare versione di Crawl, con Trevor (Sadist) gradito special guest, chiude in bellezza un “cameo” breve ma intenso, che serva da monito a chi bolla con sufficienza i prodotti del vivaio nostrano. Teneteli d’occhio, è in arrivo un album di inediti.

ENSLAVED
(a cura di Pier Tomasinsig)

Alla una e trentacinque, persino in anticipo di dieci minuti sulla tabella di marcia, è il turno degli Enslaved. Il sole battente e l’afa soffocante non sono probabilmente il miglior contesto per apprezzare la band di Grutle Kjellson e soci. Devo ammettere in effetti che ho nutrito più d’una perplessità circa la scelta di far suonare un gruppo storico della scena black, considerato da molti il capostipite del viking black norvegese, in una posizione così infelice. I nostri però sono professionisti navigati, e, a dispetto della calura atroce e del poco tempo a disposizione, si presentano sul palco determinati a rendere una gran prestazione, anche se Arve Isdal nel momento in cui si piazza a bordo palco assume l’inequivocabile espressione di chi vorrebbe trovarsi altrove, magari nelle refrigeranti terre norvegesi. Si parte con ‘Entroper’, opener dell’ultimo album e l’impressione è subito più che buona.

Gli Enslaved sono precisi e compatti, a dispetto dei suoni non eccezionali. Isdal resta in disparte con espressione burbera, lasciando a Kjellson e Bjørnson il compito di concedersi maggiormente alle attenzioni del pubblico. Si passa senza soluzione di continuità a ‘Fusion of sense and earth’, molto convincente dal vivo anche grazie al suo break centrale, con quel riffone potentissimo e martellante che dovrebbe scatenare un headbanging sfrenato: purtroppo fa troppo caldo, e il massimo che gli stoici fans presenti possono fare è levare le braccia in segno di apprezzamento. Lo show è quasi completamente incentrato sul materiale degli ultimi due album, ad eccezione della sola ‘As fire clean swept the earth’ da “Below the lights”, con parziale delusione di alcuni fan che si aspettavano qualche classico, possibilmente tratto da “Frost”.

Penso però che, essendo i pezzi nuovi molto più melodici e improntati a sonorità più progressive che viking, la scelta degli Enslaved, alla luce del poco tempo a disposizione, sia stata dettata dall’esigenza di rendere lo show più omogeneo possibile, fermo restando che tra i nuovi pezzi ci sone delle perle di cui andare orgogliosi, come il trittico ‘Isa’, ‘Return to Yggdrasill’ e ‘Ruun’ con cui si chiude il concerto. Ottimi davvero, ma sprecati: aspetto di rivederli al chiuso, e magari da headliner.

OBITUARY
(A cura di Nicola Furlan)

Vent’anni di carriera sulle spalle fanno valere il proprio peso e temprano l’artista, nel fisico e nell’esperienza. Questi sono gli elementi che più hanno colpito della prestazione di questa storica death metal band floridiana. Lo show è stato energico dal primo all’ultimo secondo, coinvolgente canzone dopo canzone.

I fratelli Tardy, supportati dai compagni di gruppo, sfoderano una prestazione eccellente, una delle migliori della giornata. Si potrà appuntare la mancata proposizione di un classico atteso dai più come Dying (brano compreso in “Cause of Death” (1990)), ma nel complesso la setlist propone pezzi di calibro superiore come Find the Arise, On the Floor, il masterpiece Chopped in Half o Turned Inside Out. L’impressione che Evil Ways (brano tratto dall’ultima fatica discografica “Xecutioner’s Return”) sia al momento una delle hit più interessanti in ambito death metal è stato ben evidenziato in sede live, così come lo show su Slowly We Rot dimostra quanto sia ancora viva l’attitudine estrema del combo statunitense.

L’etica professionale impone due parole su Ralph Santolla. Il chitarrista, già al lavoro con Deicide, Death, Iced Earth, Sebastian Bach & Friends, è la principale attrazione per i presenti. L’interazione spontanea e amichevole con il pubblico delle prime file, i sorrisi, le smorfie lo fanno amare dai più che ne riconoscono, oltre alla simpatia, anche una bravura fuori dal normale. Pochi hanno infatti distolto lo sguardo durante l’esecuzione dei soli (difficile farne a meno…). Nel complesso quindi uno show da lode supportato da un lavoro fonico di tutto rispetto. Imperdibili davvero.

MORBID ANGEL
(A cura di Davide ‘Ellanimbor’ Iori)

Con i Morbid Angel si è conclusa la parte death della giornata, facendo sì che essi siano divenuti in un certo senso gli headliner di un sotto-festival che, una volta conclusosi, ha lasciato spazio all’heavy metal di Yngwie Malmsteen, Iced Earth e Judas Priest. Ben consapevoli di essere il motivo principale della venuta di molti metallari italici (le magliette dell’Angelo Malato si sprecavano nel pit) i nostri non si sono certo risparmiati, sfoderando una prestazione davvero molto buona che ha privilegiato soprattutto il trittico Altars of Madness / Blessed Are the Sick / Covenant, proponendo pezzi come Rapture, Pain Divine, Maze of Torment, Immortal Rites, Fall from Grace, Evil Spells e God of Emptiness.

Scaletta da festival dunque, nella quale ha trovato spazio anche una canzone che dovrebbe andare a far parte nel nuovo album, ad oggi in lavorazione, intitolata Never More. I suoni, anche se non perfetti, sono stati abbastanza buoni da permettere una fruizione piacevole dello show, problemi invece per Pete Sandoval alla batteria: a causa di un trigger probabilmente settato troppo sensibile infatti si sono sentiti colpi di cassa fuori posto che, sebbene non abbiano rovinato lo spettacolo, hanno disturbato le orecchie dei più attenti.

Alla chitarra bisogna notare una prestazione leggermente sottotono di Trey Azagthoth, che soprattutto in sede solistica ha perso il confronto con Thor Anders Myhren, mentre il frontman David Vincent si è caratterizzato per una gestione dello show molto teatrale, inteso come adeguato alla musica proposta dalla band, al contrario di altri cantanti (vedere ad esempio Frank Mullen dei Suffocation) che tra una canzone e l’altra non si curano di restare “nel personaggio” e dialogano con il pubblico in maniera disinvolta.

YNGWIE J. MALMSTEEN
(A cura di Riccardo Angelini)

Pochi musicisti al giorno d’oggi possono vantare uno stuolo di detrattori ampio come il suo. Incrollabile, esuberante ed esagerato, il buon vecchio Yngwie come al solito se ne frega, e mette in scena uno show all’insegna della magniloquenza e del culto della (propria) personalità. La curiosità maggiore era scoprire come se la sarebbe cavata l’ultimo arrivato Tim “Ripper” Owens, secondo qualcuno più adatto ai pezzi veloci in crescendo che all’hard rock d’impatto. Non far rimpiangere un Joe Lynn Turner su Rising Force sarebbe del resto impresa improba per chiunque ma, complice un ugola in evidente stato di grazia, da Never Die in avanti la prova dell’ex-Iced Earth è pressoché perfetta.

I cori di un pubblico a ragion veduta entusiasta si fanno progressivamente più alti con i classici immortali I’m A Viking, I’ll See The Light Tonight e You Don’t Remember (I’ll Never Forget), inneggiando ora a sua maestà Malmsteen, ora all’alfiere Ripper. Non mancano come da programma lunghe digressioni neoclassiche in cui le strumentali Far Beyond The Sun e Trilogy Suite tornano per esaltare la burbanzosa prosopopea chitarristica del panciuto mago delle sei corde.

Appare una volta in più evidente che uno showman come Yngwie dal vivo va seguito da vicino, per apprezzare non soltanto la precisione e la pulizia dell’esecuzione ma anche (per non dire soprattutto) lo sterminato repertorio di smorfie, gesti e pose teatrali che rappresentano l’anima di ogni suo spettacolo. E spettacolo è stato ancora una volta, per la piena soddisfazione dei molti fan e con buona pace di chi non lo sopporta più. Del resto questo è Yngwie Malmsteen, questo è sempre stato, questo sarà sempre. E a noi piace così.
– Like the sky, I’m perpetual, I’ll never die.

ICED EARTH
(A cura di Angelo ‘KK’ D’Acunto)

Quando il sole continua ancora a picchiare duro sulle teste del pubblico bolognese, arriva l’ora di una delle band più attese di questo Gods Of Metal: gli Iced Earth di John Schaffer, freschi di reunion con il figliol prodigo Matt Barlow. La band statunitense si rende subito protagonista di uno show ad altissimi livelli.

La forma dei singoli componenti è a livelli eccelsi (prima su tutte la prestazione di Barlow) e i suoni sono più che ottimi (escludendo gli iniziali problemi al microfono di Matt che hanno fatto temere subito il peggio). Nonostante un minutaggio piuttosto scarso (75 minuti) che costringe il quintetto floridiano ad escludere qualche classico di troppo dalla setlist (peccato per la mancanza di A Question Of Heaven, ma ci si accontenta), bisogna ammettere che le emozioni non sono mancate. A cominciare dalle onnipresenti Burning Times e Coming Curse (entrambe dal capolavoro Something Wicked This Way Comes), passando per una Dracula da lacrime e senza dimenticare la strepitosa esecuzione di Declaration Day, in cui gli acuti di Barlow annientano completamente la versione originale registrata con Owens.

Distruttivo il muro di suono ricreato dalle chitarre della coppia Schaffer/Seele e ottima la sezione ritmica guidata dal basso del nuovo arrivato Freddie Vidales, quest’ultimo sempre a suo agio su tutti i pezzi della band. La chiusura del set viene affidata allo strepitoso encore composto da una Melancholy da brividi e dall’immacabile Iced Earth. Monumentali.

JUDAS PRIEST
(A cura di Angelo ‘KK’ D’Acunto)

Dopo aver assistito allo show pirotecnico dei Maiden del venerdì e alla furia cieca degli Slayer del sabato, tocca ai metal gods per eccellenza chiudere questa edizione 2008 del Gods Of Metal. I Judas Priest, per questa serata, si trovano sicuramente sull’ennesimo banco di prova: gli occhi del pubblico sono tutti puntati sull’ormai sessantenne Rob Halford e non ammettere che gli anni passano per lui come per tutti sarebbe come andare contro le leggi della natura. Ma in ogni caso le differenze rispetto all’ultima calata italica dei Priest sono nette: la voce del metal god risulta essere più in forma che mai e ne sono la prova i numerosi acuti che si concede durante le quasi due ore di concerto. Ma andiamo per ordine, prima di tutto bisogna apprezzare il completo stravolgimento della setlist: fuori tanti classici (un po’ rimpianti) che la band porta on-stage da quasi oltre trent’anni come Victim Of Changes, The Ripper e Beyond The Realms Of Death, dentro una manciata di pezzi che non si sentivano da decenni (primi su tutti i due innesti dal capolavoro Defenders Of The Faith). Ed è così che, escluse l’iniziale Prophecy e Death (entrambe estratte dal nuovo Nostradamus), ci ritroviamo con grandi classici del calibro di Metal Gods, Breaking The Law e Painkiller, più le new entry già citate.

Su tutte spiccano il ritorno di Hell Patrol e Between The Hammer And The Anvil (direttamente da Painkiller), le coinvolgenti Eat Me Alive e Devil’s Child e le settantiane Dissident Aggressor e Sinner. Tutti brani suonati in maniera eccellente, che ci hanno messo di fronte al grande stato di forma in cui si ritrova la band inglese. L’unica pecca si può riscontrare nell’esecuzione decisamente sottotono della splendida Rock Hard, Ride Free, sicuramente l’unico rimpianto della serata. Tempo qualche minuto per riprendersi dai pugni nello stomaco ricevuti durante l’esecuzione di Painkiller e si dà il via al gran finale con il classico encore aperto da Hell Bent For Leather (con l’immancabile Harley di Halford sul palco), completato da The Green Manalishi e da una You’ve Got Another Thing Coming cantata a squarciagola da tutti i presenti che pone fine ad uno show pieno zeppo d’energia ed entusiasmante come non mai. Immortali.

(A cura di Alessandro ‘Zac’ Zaccarini)

Quando sei i Judas Priest, ma soprattutto quando sei un fan dei Judas Priest, devi sapere scendere a compromessi. Se il 29 giugno 2008 ti presenti all’Arena Parco Nord di Bologna aspettandoti che Rob Halford canti come nel 1984, bhè allora forse era meglio risparmiare i soldi della trasferta. Se invece mente e corpo sono pronti per divorare un po’ di indimenticabile acciaio britannico, questa potrebbe essere una serata da ricordare, perchè sul palco ci sono quei tutori che presero l’heavy metal per mano e lo portarono a quello che è, o ancora meglio fu.
È sicuro che, anche questa sera, qualche testa cadrà.
Si parte con Prophecy, forse unica scelta che mi sento in diritto (e in dovere) di criticare al 100%: ruba il posto dell’accoppiata The Hellion – Electric Eye (che ritroveremo comunque pi tardi) e non svolge nemmeno al 30% il lavoro sopraffino del già citato combo di Screaming for Vengeance. Troppo lenta, troppo lontana dal treno in corsa che notoriamente deve investire in faccia il pubblico a inizio concerto. Finisce in Mi, però, quindi nessun problema per il passaggio diretto a Metal Gods, che invece dal secondo posto nella setlist non si schioda neanche di un centimetro.
Dopo la marcia metallica targata British Steel, Tipton e Downing si allineano come pianeti (stelle lo sono) e quando la congiunzione astrale è completa ecco partire la prima graditissima sorpresa della serata: una splendida Eat Me Alive. Bellissima, decisa, ha il compito di riportare in auge quello che è probabilmente il più grande dei capolavori partoriti dalla band, quel Defenders of the Faith che venne completamente ignorato lo scorso tour (sorte funesta che oggi spetta al suo vicino Ram it Down) ma che oggi rivive in quel di Bologna con ben due splendidi estratti. Le sorprese non finiscono, e arriva Devil’s Child, prima che la band ritorni su classici abituati a scaldare e scatenare le platee di tutte le terre emerse e conosciute su cui Priest hanno poggiato piede. Si parla metallo inglese con Breaking the Law, Electric Eye.

Ancora sorprese con l’inno Rock Hard Ride Free, terreno davvero ostico per il povero Rob, che infatti fatica non poco. La gioia di risentire brani del genere è comunque più grande degli acuti mancati. La band non ha paura di confontarsi con l’ombra minacciosa di se stessa ai tempi che furono e ripropone la devastante Hell Patrol e, sempre dall’osannatissimo Painkiller, anche Between the Anvil and the Hammer. È proprio la title track di quest’ultimo a chiudere il primo set, mettendo un po’ in crisi Halford, mentre inaspettatamente anche Tipton arranca un po’ sulle linee insidiose dell’assolo datato 1991.
Dopo qualche istante Rob Halford si ripresenta in sella alla moto e tra una sgasata e l’altra apre le porte per il riff di Hell Bent for Leather. L’encore è dei più canonici, costruito per un headbanging assicurato, con i tempi di The Green Manalishi (unica cover della giornata, visto che manca la versione acustica di Diamonds and Rust) e di You’ve Got Another Thing Coming, epilogo rodato e insostituibile.
I Judas Priest sono ancora gli dei del metal, magari un po’ acciaccati, ma sempre grandi e pronti a regalare emozioni di primissima categoria. Questa volta la setlist piange diverse assenze importanti, specialmente dal primo periodo: Living After Midnight, Beyond the Realm of Death, The Ripper, Victim of Changes… ma c’è da dire che la band rimpazza queste glorie d’altri tempi con rande coraggio, pescando brani difficili, veloci, potenti e decisamente pericolosi. Non eccelle, ma il proprio dovere lo assolve con piena sufficienza.
Arrivederci alla prossima, sperando di ritrovare qualche vecchia conoscenza stile Come and Get It rifare capolino su quel foglio di carta attaccato con nastro isolante nero ai piedi della coppia di chitarristi più prestigiosa del mondo.

Setlist:
Dawn Of Creation (Intro), Prophecy, Metal Gods, Eat Me Alive, Between The Hammer And The Anvil, Devil’s Child, Breaking The Law, Hell Patrol, Death, Dissident Aggressor, Angel, The Hellion/Electric Eye, Rock Hard, Ride Free, Sinner, Painkiller, Hell Bent For Leather, The Green Manalishi (With The Two Pronged Crown), You’ve Got Another Thing Coming

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