Report: Gods of Metal 2005

Di Redazione - 24 Giugno 2005 - 1:00
Report: Gods of Metal 2005

Eccoci qua a tirare le somme di un festival sempre più discusso ma capace di coinvolgere un pubblico sempre maggiore. Che l’edizione 2005 sia stata un grande successo, almeno a livello di presenze, non ci sono dubbi. I modi in cui questa grande affluenza è stata gestita non sono invece esenti da qualche critica. Alti e bassi che accompagnano la maggiore manifestazione italiana da tanto tempo, e che noi ci siamo presi la libertà di sintetizzare in alcuni pregi e difetti di questo Gods of Metal 2005.

Difetti:

I suoni del sabato. Brutti, a tratti ridicoli (vedi Slayer) hanno letteralmente mutilato buona parte delle esibizioni di tutte le band della prima giornata, Iron Maiden esclusi.

La ristorazione. Come sempre caratterizzata da una scelta ridotta all’osso e prezzi altissimi, ancor più scandalosi se rapportati alla qualità delle pietanze. Offrire un servizio a una marea di persone come quella del Gods of Metal non è facile, siamo i primi ad ammetterlo, ma questo vuol dire lucrarci palesemente sopra.

La sicurezza. Siamo alle solite, lo dimostra il fatto che tornino buone le parole spese 12 mesi fa per l’edizione 2004: “Inutile dire che come sempre la ristorazione ha approfittato della situazione e del caldo insopportabile, aiutata da un servizio di sicurezza che ha requisito all’ingresso la maggior parte di cibi e bevande per problemi di sicurezza (quando poi all’interno dell’arena vi erano sassi delle dimensioni di un limone).”

Il Camping. Le condizioni di quella che è stata adibita a ‘zona campeggio’ non sono assolutamente sufficienti. Nessun tipo di servizio igienico, poco prato, tanta steppa, tanta ghiaia, tanto cemento e poco servizio di sicurezza (diversi i furti e i danni).

I prezzi. Decisamente troppo salati, in un continuo trend al rialzo che suscita non poche preoccupazioni per il futuro.

Pregi:

La location. Mancanza di ombra a parte (problema parzialmente risolto con il maxi tendone) l’Arena Parco Nord, oltre ad avere una buona conformazione, è in una buona posizione strategica a livello nazionale, vicina al centro di Bologna e con ampia disponibilità di parcheggio.

I nomi giusti al momento giusto. Tanto di cappello, quando ci vuole. Gli Iron Maiden nel tour della nostalgia, la reunion degli Anthrax, la reunion degli Obituary, la reunion dei Motley Crue, il farewell-tour (sarà vero?) dei Megadeth. Il bill di questo Gods of Metal 2005 prevedeva eventi davvero ghiotti se non unici.

SABATO 11 GIUGNO:

Evergrey
[Riccardo Angelini]

Poco più di mezz’ora in apertura di concerto per la band di Goteborg, il cui sound crepuscolare crea un insolito contrasto con il soleggiato mattino bolognese. Se si aggiunge la resa sonora tutt’altro che perfetta e un pubblico con gli occhi ancora socchiusi, le premesse non paiono proprio le migliori. Ciononostante Englund e soci sfoderano una prestazione all’altezza dell’evento, impegnandosi per coinvolgere una folla ancora esigua con una rapida sequela di hits dal popolare Recreation Day e una piacevole A Touch of Blessing. Precisa l’esecuzione, buona anche la prova del singer, positivo il giudizio complessivo.

Mastodon
[Matteo ‘TruzzKiller’ Bovio]

Ero curioso di assistere alla prova dei Mastodon, presenti sulle scene da tempo ma passati alla ribalta dopo l’ultimo eccezionale Leviathan. Come prevedibile i brani sono “intermezzati” da spezzoni dall’atmosfera imponente che rinforzano l’immaginario creatosi intorno alla band: ardua impresa, visto che la performance si svolgeva sotto il sole del primo pomeriggio. Per nulla scoraggiati, i nostri inforcano un brano dietro l’altro, facendo un ottimo uso della propria encomiabile tecnica e innalzando un muro sonoro quasi degno dei loro album. Caratteristiche che emergono sin dalla prima Iron Tusk: spettacolare la prova di Brann Dailor, più sottotono invece Troy Sanders, che durante l’esibizione andrà progressivamente in calando. Nel complesso comunque siamo di fronte a uno degli act più importanti della scena post-core, e non ci sono molti dubbi al riguardo: ottima tecnica, ottimi album, buona presenza nei live. Non hanno accusato particolarmente le condizioni poco ottimali e di questo va tenuto conto. Mi aspettavo qualcosa in più, ma essere terzo gruppo in scaletta al Gods of Metal non è mai facile, dunque i miei complimenti.

Dragonforce
[Riccardo Angelini]

Il sole del primo pomeriggio bolognese picchia anche sul palco, ma i londinesi Dragonforce sembrano non accorgersene. Corrono, saltano, piroettano come se avessero l’argento vivo addosso trasmettendo grinta ed entusiasmo: il pubblico apprezza. Zp dietro il microfono si mostra capace di gestire le note più alte anche dal vivo, rivelandosi frontman dinamico e coinvolgente, mentre i chitarristi Li e Totman si divertono e fanno divertire. Peccato per la qualità del suono tutt’altro che impeccabile. Scaletta naturalmente all’insegna del power più diretto e incalzante, saggiamente spezzata dalla ballad Dawn over a New World. Piacevole sorpresa.

Strapping Young Lad
[Matteo ‘TruzzKiller’ Bovio]

L’amatissimo, folle, geniale Devin Townsend sale sul palco intenzionato a dar prova, con i suoi Strapping Young Lad, di dove possa sconfinare l’estremo una volta messo nelle mani sbagliate. Con tre perle in studio da cui poter andare a pescare, il gioco sembra facile, ma un suono a dir poco ridicolo riesce a prevalere sulla prestazione. Non importa, si prosegue, e i momenti da ricordare non mancano: eccezionale la successione Velvet Kevorkian – All Hail The New Flesh – Oh My Fucking God, non da meno l’incazzatissima Aftermath. La formazione è piuttosto piantata sul palco, ma Devin non manca di fare presenza, regalando in continuazione risate diaboliche alle prime file: la sua dimostrazione di coinvolgimento è più che sufficiente a dare l’idea di un gruppo convinto e partecipe. Impossibile poi non rimanere affascinati dall’eleganza e dalla naturalezza con cui Gene Hoglan macina uno dopo l’altro i pattern ritmici: non ci si poteva aspettare altro da uno dei pilastri del metal odierno e passato. Per chiudere, da segnalare una Shitstorm, molto gradita dal pubblico e il finale con Detox, purtroppo troncata troppo presto. Con i suoni giusti sarebbero stati sbalorditivi: ci è invece toccata una “semplice” performance accattivante. Peccato.

Obituary
[Matteo ‘TruzzKiller’ Bovio]

Erano già passati in Italia durante il tour seguito alla reunion, ma questo non bastava a smorzare l’entusiasmo, a rovinare il sapore di “grande ritorno”. E proprio questo è stato la base dello show degli Obituary: a ogni canzone si percepiva la soddisfazione del gruppo nel vedere il pubblico scaldarsi e agitarsi al ritmo dei loro classici. Il vero trascinatore è stato John Tardy, la cui voce non è stata intaccata dal trascorrere degli anni, e la cui presenza scenica è specchio della loro musica: semplice ed efficace. Con la scaletta non azzardano troppo, e, fatta eccezione per tre brani, propongono un sunto del loro unico live ufficiale: i fan, facendosi spazio a fatica in mezzo a un pubblico poco reattivo, sembrano gradire. Da un lato la band non ha timore a proporre pezzi dal contestatissimo Back From The Dead, dall’altro chi sta sotto il palco non fa certo lo schizzinoso alle prime note di Threatening Skies o By The Light. La carica dei pezzi è perfetta per un live-show così che i suoni, anche per loro orribili, non possano rovinare più di tanto la performance. La band fa pregustare una canzone dal nuovo imminente album, e abbiamo modo di metterci il cuore in pace, almeno per il momento: lo stile del riffing è riconoscibile in mezzo a mille altri, e da là sotto molti devono aver pensato che forse è ancora presto per considerarli un gruppo alle corde. E avanti. I pezzi volano, uno di fila all’altro, passando da ‘Til Death, Chopped In Half o Dying. Ovviamente il lento incipit di Cause Of Death scatena la follia di chi, come me, aspettava da tempo questa occasione, ma questo ovvio picco di entusiasmo non smorza l’eccitazione per il resto della scaletta. Tardy ringrazia a parole e a sguardi il supporto dei fan; il resto del gruppo è forse meno coinvolgente, meno convinto, ma sono loro, gli originali, e si sente. Si arriva al finale: tutti sanno cosa li attende, eppure sentire Tardy annunciare Slowly We Rot, con la formula nota a chiunque abbia abusato del loro live, costringe ogni nostalgico a mischiare commozione e frenesia.

Lacuna Coil

Conoscete un modo migliore per combattere la combo ‘piadina appena tiepida + porzione minimale di patatine + 25 cl di birra a 11 euro’? Noi no, non ce ne vogliano i Lacuna Coil.

Slayer
[Alessandro ‘Zac’ Zaccarini, Matteo ‘TruzzKiller’ Bovio, Federico ‘Immanitas’ Mahmoud]

Senza alcun dubbio, i suoni sono stati la rovina di questa edizione del Gods of Metal, in particolare del primo giorno. Se tra tutti c’è chi ha di che lamentarsi più di altri, questi sono gli Slayer. Partono con l’accoppiata Disciple e War Ensemble, e fin qui, suoni da villaggio dei puffi e microfono di Araya inesistente a parte, tutto bene. Poi, all’improvviso, stanco evidentemente di proporre sempre i soliti ritriti brani, il combo di Huntington Park stravolge completamente la scaletta prevedibile. Potevamo assistere a un massacro siglato da chicche come Blood Red e Born Of Fire, ci è toccato invece allungare le orecchie per riuscire a capire cosa succedesse sul palco. Qualcuno, oltre a tenere un volume ri-di-co-lo per una band simile, ha avuto la brillante idea – *attenzione, ironia* – di spostare tutta la chitarra di King sulla destra e tutta quella di Hanneman sulla sinistra. Risultato? Un buon 70% dei presenti ha sentito gli Slayer a una chitarra, metà degli assoli e un tappeto ritmico mai completo. Ok, questo non basta ad arginare gli effetti devastanti che grandi classici come Raining Blood, South Of Heaven, Dead Skin Mask o Angel Of Death hanno sul pubblico di Bologna; ma è più che sufficiente per alimentare la rabbia nello stomaco di chi salutava i cari vecchi Slayer come apice della giornata. Torniamo alle chicche: Show No Mercy, Silent Scream… e mentre qualcuno (noi) rimaneva shockato da presenze inaspettate come una Mandatory Suicide completamente a sorpresa tra South of Heaven e Angel of Death, qualcuno (in verità molti, troppi) aveva il coraggio di lamentarsi, non dei suoni però: “Ma quanto suonano questi qui? Quando arrivano gli Iron”. Scusate se la storia del thrash metal, in formazione originale, sta pescando dal cilindro una perla dopo l’altra a 30 metri da voi, il prossimo anno chiederemo 12 ore di Fear of the Dark.
Detto questo, inchino dovuto a Dave Lombardo, alla coppia Hanneman –King e a un Araya sottotono con la voce, visibilmente in difficoltà, ma sufficientemente carismatico per non danneggiare troppo la resa dei pezzi: non avevamo bisogno di conferme, sapevamo che la vecchia formazione non tradisce, ma grazie ai suoni ce li hanno mutilati, e questo è imperdonabile.

Iron Maiden
[Alessandro ‘Zac’ Zaccarini, Federico ‘Immanitas’ Mahmoud]

Un concerto della Vergine di Ferro ha il magico potere di mobilitare masse sterminate di fan: in qualunque angolo del pianeta la band dedica di accendere le polveri, ci si ritrova sempre con un sold-out o quasi. Non fa eccezione la data di sabato 11 giugno all’arena Parco Nord di Bologna, mai così gremita, di questi tempi, per un evento musicale. Il sestetto inglese (sì, c’è Janick Gers all’animazione turistica) ha risposto all’appello con una prestazione encomiabile, iper-costuita vero, ma davvero ottima sotto ogni punto di vista. A partire da una scaletta completamente dedicata ai primi quattro album della band, mossa di cui negli ultimi anni si sentiva tremendamente il bisogno, gli Iron Maiden danno vita a uno show degno del loro nome: musicisti affiatati, buone scenografie e un Bruce Dickinson in forma strepitosa, che migliora col passare degli anni – chi ha detto Ian Gillan? Dal vivo il materiale tratto dai primi quattro album dimostra ancora grande freschezza, oggi come vent’anni fa, e non poteva essere altrimenti: dopotutto siamo di fronte a una sorta di best-of dell’apice della produzione maideniana. Ovviamente dispiace per l’assenza di Charlotte The Harlot e Killers, ma non si può avere tutto. Il resto del lavoro lo fa una cornice di pubblico pronto e presente, che rende ancor più suggestivi brani come Hallowed Be Thy Name, Phantom Of The Opera o Wrathchild. Le tanto sbandierate due ore sono accorciate di una ventina di minuti, ma lo spettacolo non ne risente: specialmente se a chiudere ci sono due perle come Drifter e Sanctuary, non è proprio il caso di mettersi a guardare l’orologio. Grandi.

DOMENICA 12 GIUGNO:

Hammerfall
[Federico ‘Immanitas’ Mahmoud]

Gli svedesi Hammerfall sono il primo gruppo di un certo prestigio a calcare le assi del palcoscenico nella giornata di domenica. Quarantacinque minuti per loro, durante i quali Oscar Dronjak e compagni hanno riproposto vecchie e nuove hit (da Renegade a Hearts On Fire), richiamando una discreta folla nonostante l’orario poco congeniale. Discreta presenza scenica e buona l’esecuzione dei vari brani, che dal vivo risentono in maniera più lieve del fastidioso senso di dejà-vu che pervade una bella fetta di composizioni; bravo soprattutto Joacim Cans, che il sottoscritto non ha mai particolarmente gradito in studio, autore di una prova senza stecche e coinvolgente. Una band ideale per un open-air a base di solido heavy metal. Gradita sorpresa.

Black Label Society
[Alessandro ‘Zac’ Zaccarini]

C’è una discreta attesa per lo show di Zakk Wylde e i suoi Black Label Society: tanti ragazzi con la maglietta della band e tanto pubblico pronto a riversarsi sotto il palco nonostante l’ora ancora piuttosto presta. Fiducia pienamente ripagata dalla formazione americana ma soprattutto dal suo main-man, bravo a tenere il pubblico e a sfruttare tutto il suo carisma per le sue parti soliste, sia alla voce che alla chitarra. Lo show è suo, e più passa il tempo e più ci si accorge di quanto il buon Zakk, piuttosto che i brani della band, sia il motivo per cui tanta gente sfida il caldo e la polvere. Sì, ci sono anche i pezzi, ma vedere il mainman suonare con la chitarra dietro la testa ha più presa di qualsiasi cavallo di battaglia. Praticamente una one-man-band.

Y. J. Malmsteen
[Federico ‘Immanitas’ Mahmoud]

Prima assoluta al nostrano Gods Of Metal per il guitar hero svedese, tornato in pista con Unleash The Fury (in Europa disponibile dal 4 luglio): per l’occasione l’ex-Alcatrazz si è circondato di musicisti di un certo calibro, tra cui spiccano il tastierista Joakim Svalberg e Doogie White, con un passato nei Rainbow e nei Praying Mantis. La partenza al fulmicotone con la bellissima Rising Force è un’illusione che dura quattro minuti, quanto basta perché la Stratocaster del vichingo si metta a fare i capricci; suoni pessimi, uniti a una prestazione incolore da parte di un White svociato (in difficoltà soprattutto nei pezzi tratti da Marching Out, come Don’t Let It End), hanno condizionato un concerto altrimenti convincente, con buone versioni di Demon Driver e del classico Burn (Deep Purple), gradito encore nel finale. La scelta di dedicare spazio a un prolungato assolo di chitarra, che ha incluso stralci della mitica Trilogy Suite Op. 5, non è sembrata molto azzeccata – anche considerando il fastidioso andirivieni della 6 corde, con l’artista visibilmente infastidito – ma a conti fatti si tratta di una tappa obbligata per ogni esibizione dello svedese. I fan di Malmsteen hanno gradito, il resto del pubblico un po’ meno: rimandato a situazioni più congeniali.

Accept
[Federico ‘Immanitas’ Mahmoud]

Letteralmente sprecato da una posizione vergognosa nel bill, il leggendario act teutonico ha marchiato a fuoco l’edizione 2005 del Gods Of Metal, regalando una prestazione memorabile. In un’ora di spettacolo Udo e soci hanno improvvisato un best-of senza punti deboli, dall’opener Starlight alle scorribande chitarristiche di Restless And Wild, passando per un’intensa riproposizione del classico Metal Heart. Tra hit senza tempo e qualche sorpresa (Monsterman, tanto per fare un nome) lo show è filato via in un battibaleno, mostrando una band in ottima forma: precisa e grintosa l’accoppiata Hoffman/Frank, puntuale il basso di Peter Baltes (chiamato ad aprire, come da tradizione, Head Over Heels) e senza pecche la prestazione di Stefan Schwarzmann dietro le pelli, peraltro già rodato anni or sono in seguito all’abbandono obbligato di Stefan Kaufmann. Che dire del colonnello Udo Dirkschneider? Vederlo on stage a fianco dei compagni di tante avventure è sempre un’esperienza unica, come è unica la verve con cui il minuto frontman sa introdurre i cavalli di battaglia di una lunga carriera: su tutti Princess Of The Dawn e Balls To The Wall, straordinari encore che salutano il pubblico. Per chi scrive nella top-3 dell’intero festival.

Anthrax
[Alessandro ‘Zac’ Zaccarini, Federico ‘Immanitas’ Mahmoud]

Sotto la voce ‘vincitori del Gods of Metal 2005’ è scritto a caratteri infuocati il monicker Anthrax. Il combo originario di New York torna in Italia con una reunion da testare in presa diretta e convince il pubblico nell’unico modo possibile: spaccando tutto (musicalmente parlando, ovviamente). Among The Living è il piatto forte dell’esibizione di Scott Ian e soci, che sfoderano ben cinque brani dal mitico platter del 1987: la title-track in apertura, quindi una spettacolare Caught In A Mosh, N.F.L., Indians e l’acclamata I Am The Law. L’affiatamento ritrovato tra i cinque musicisti è qualcosa di spettacolare, e anche se Joey Belladonna (comicamente indeciso tra Bologna e Barcellona) è ancora in fase di rodaggio, non stenta a buttare tutta la sua voce più che decorosa su un tappeto strumentale in cui il redivivo Dan Spitz si muove con soli estremamente fedeli e precisi. La risposta del pubblico, apparso più competente di quello che sabato aveva riservato accoglienze fin troppo tiepide a nomi che meritavano ben altro, è di quelle che contano. Tanta carica e tanta partecipazione per un concerto brillante e notevole per intensità, con zero cali e tanto divertimento per tutti: in un’ora a disposizione non si poteva chiedere di più.

Megadeth
[Alessandro ‘Zac’ Zaccarini, Matteo ‘TruzzKiller’ Bovio, Federico ‘Immanitas’ Mahmoud]

Poveri Megadeth, costretti a salire sul palco dopo il putiferio scatenato dai carichissimi Anthrax. Ma Mustaine e soci (discutibili, acquisiti, etc etc) hanno qualche anno di esperienza da far valere, nonché un trademark inconfondibile che fa sempre la sua figura, come un buon vino d’annata. Inizia così un’esibizione fatta di alti e bassi, ma nel complesso piuttosto soddisfacente. Meglio di quanto visto a Milano la prestazione tecnica (fare peggio era difficile), qualche dubbio in più sulla scaletta. Purtroppo, a parte una buona Blackmail the Universe in apertura, gli alti coincidono esattamente con i classici, i bassi con la nuova produzione. Set The World Afire, numero due della scaletta, scalda il pubblico, ma è solo con In My Darkest Hour che si inizia a fare sul serio. Quando poi si va nei dintorni di Risk o dell’ultima uscita cala il gelo, almeno nelle retrovie. Skin O’ My Teeth, Hangar 18, Tornado Of Souls, Peace Sells…, Symphonies Of Destruction, la conclusiva Holy Wars: è qui che il pubblico reagisce come si deve. Un effetto comune alla maggior parte dei live-set di gruppi famosi, ma che in questo caso è davvero spropositato. Quando sul palco si aggira l’ombra dei vecchi Megadeth c’è partecipazione; quando Mustaine ci riporta alla realtà, ai Megadeth di oggi, ecco scomparire l’entusiasmo generale.
Fa riflettere.

Motley Crue
[Alessandro ‘Zac’ Zaccarini]

Tre maialone maggiorate seminude, un pagliaccio, un trampoliere, un giocoliere col fuoco, un nano incatenato: ssiore e ssiori, i Motley Crue sono in città.
Si parte subito alla grandissima con Shout at the Devil, e le speranze per due ore di intensissimo glam targato eighties si innalzano come non mai, ma, ahimè, le speranze non hanno fatto i conti con l’ego di Sixx e Lee, oltre che con un’età che avanza e un bisogno di tirare il fiato che talvolta pare avere la meglio sull’attitudine. Così, in una lacerante progressione di accoppiate siparietto/canzone (ogni pezzo sembra un encore) la prima ora se ne passa sì e no con 6 brani. È decisamente troppo poco: pare lo sappiano pure i Crue e pare sia tutto calcolato. In alto il braccio destro, muovere la mano, così… così… marmitta che ruggisce e Girls Girls Girls a seguito: si comincia a fare sul serio. Il pubblico sale di tono, condotto da una band che sembra trasformarsi e finalmente comincia a proporre uno dopo l’altro i classiconi che l’hanno resa famosa. Non che nella prima metà di show fossero mancate le Looks That Kill, solo che proposte a distanza di 10 minuti l’una dall’altra, l’impatto non era proprio uno dei migliori. Per fortuna, come detto, la storia cambia. Da Dr. Feelgood a Same ol’ Situation i Motley Crue cominciano a sprizzare rock’n’roll da tutti i pori. Non importa se Home Sweet Home viene come viene, se la band (Mick Mars in primis) da notevoli segni di cedimento e se Smokin in the Boys Room viene dimenticata nel camerino. Questo è solo fottuto dannato rock’n’roll, e va bene così.