Live Report: Hellfest – 21/22/23 Giugno 2013 – DAY 2

Di Orso Comellini - 30 Giugno 2013 - 21:55
Live Report: Hellfest – 21/22/23 Giugno 2013 – DAY 2

LIVE REPORT – HELLFEST – CLISSON (FRANCIA) – 21/22/23 GIUGNO 2013

Report a cura di Orso Comellini

Archiviato il primo giorno di concerti e il lungo viaggio, ci concediamo qualche ora di sonno in più al mattino e al risveglio ci accorgiamo che il campeggio è andato riempiendosi completamente, causando tra l’altro lunghe file davanti ai bagni, dislocati in numero non del tutto sufficiente esattamente come l’anno scorso. Per fortuna, invece, all’interno dell’area concerti sono stati aumentati sensibilmente e riposizionati facilitandone l’accesso e sono stati confermati i bagni dedicati esclusivamente al gentil sesso. Per il futuro qualcosa andrà ancora messo a punto sotto questo aspetto, ma la strada è quella buona. Dal punto di vista dei rifiuti, costatiamo che le buste di differenziata lasciate fuori dalla tenda il giorno prima sono state raccolte e sostituite con buste nuove. Lattine e bottiglie di birra gettate in terra dai meno sensibili all’ambiente, vengono raccolte costantemente dagli addetti. Ci viene dato il buongiorno poi da alcuni simpatici venditori di croissant al cioccolato, per una tipica colazione alla francese.
 

 

Il menù di giornata prevede intorno all’ora di pranzo lo show degli storici rocker elvetici KROKUS, capitanati dal frontman Marc Storace, in forma discreta. La scaletta del gruppo è tesa a promuovere la loro ultima fatica, “Dirty Dynamite”, dal quale estraggono vari brani, come “Go Baby Go” e “Dog Song” che si amalgamano piuttosto bene con il repertorio più classico come “Long Stick Goes Boom” e “Eat The Rich”, unito a qualche brano più recente tra i quali segnalo “Hoodoo Woman”. Il loro è uno show molto apprezzato dai presenti, dato che la band appare tutt’altro che arrugginita, c’è da dire però che i più affezionati si sarebbero aspettati qualche classico in più per un’esibizione in un grande festival del genere. Poco male, comunque, dato che gli animi sono andati progressivamente surriscaldandosi sulle note di “American Woman”, cover dei The Guess Who spesso presente nelle loro setlist già dai tempi di “One Vice At A Time” (1982) e soprattutto con la conclusiva e reclamata a gran voce “Headhunter”, cantata poi da tutti senza risparmiarsi. Ci spostiamo quindi sotto il tendone del Valley per assistere agli UNCLE ACID AND THE DEADBEATS band inglese dedita ad un doom metal dalle forti tinte lisergiche che trae linfa vitale dalla scena a cavallo tra Sessanta e Settanta. Autori di ben tre album nel giro di pochissimi anni ed accasatisi presso la Rise Above Records di Lee Dorrian, i Nostri si dimostrano fin da subito a loro agio sulle assi del palco, pescando a piene mani da tutt’e tre le loro release. La loro proposta, snella e frizzante, non lascia mai il tempo di annoiarsi, anche durante gli episodi un po’ più lunghi come “Death’s Door” e “Mt. Abraxas”. Giusto un po’ ripetitiva “Valley Of The Dolls”, anche se probabilmente è una cosa voluta considerando il ritornello ossessivo con una linea vocale che potrebbe ricordare alla lontana lo stile di Layne Staley. Rimaniamo nelle vicinanze del Valley dato che di lì a poco si esibiranno gli svedesi WITCHCRAFT, altro gruppo portato alla ribalta dall’infallibile fiuto di Lee Dorrian ed autore di tre album di successo sotto la Rise Above prima di una lunga pausa dalla quale sono tornati con una formazione profondamente rimaneggiata ed un contratto con Nuclear Blast che ha pubblicato lo scorso anno il loro quarto album, “Legend”. Nonostante i vari cambi di line-up il loro stile settantiano influenzato dalle primissime produzioni di band come i Pentagram è rimasto pressoché intatto, facendo ruotare la loro musica attorno alla voce carismatica di Magnus Pelander, quest’oggi piuttosto in forma. La loro scaletta, purtroppo, esclude quasi del tutto le passate produzioni (forse in virtù proprio dei vari cambi, oppure perché credono molto nel nuovo materiale), concentrandosi  sulla riproposizione di buona parte del loro ultimo album, con l’eccezione del primissimo singolo apripista “No Angel Or Demon”. I nuovi brani, comunque, dal vivo funzionano a dovere garantendo anche una certe eterogeneità alla loro esibizione. Colpisce la loro grinta e il coraggio (o incoscienza?) di scegliere come primo brano “Dead End” che supera abbondantemente i dieci minuti. Non passa poi inosservata la disposizione anomala della batteria completamente alla destra del palco.

Chiusa la parentesi Valley ci spostiamo sotto il doppio tendone a V degli stage Altar e Temple per cambiare decisamente sonorità e farci travolgere da un po’ di sana brutalità targata SINISTER. Come nel caso dei Witchcraft anche i deathster olandesi hanno completamente cambiato formazione ad eccezione del frontman Aad Kloosterwaard, in passato batterista del gruppo ed ora dietro al microfono. Il loro ultimo “The Carnage Ending”, però, ha destato più di qualche perplessità e vederli dal vivo è senz’altro l’ideale banco di prova per valutarne l’attuale stato di salute. Purtroppo anche dal vivo il combo di Schiedam non riesce del tutto a far valere tutto il proprio passato valore e, come afferma Kloosterwaard, preferiscono proporre principalmente brani dal loro ultimo lavoro perché loro stessi sono i primi a credere nella bontà di quel lavoro… In ogni caso va detto che canzoni come “Transylvania (City Of The Damned)”, “My Casual Enemy” e soprattutto la spietata “The Carnage Ending” (posta in chiusura, con quel finale che concettualmente può ricordare quello di “Left Hand Path” degli Entombed o di “Future Consciousness” dei Therion, in versione ridotta) sono in grado di fare piuttosto male. Del resto non è che i Sinister si siano messi a suonare hip hop o musica dance, il loro è sempre un death assassino, solo che da una band che ha dato vita a dischi fondamentali per la scena europea come “Cross The Styx”, “Diabolical Summoning” o “Hate” ci si deve aspettare di più. Viceversa ci è parso di riconoscere uno dei loro pezzi forte come “Sadistic Intent”, ma l’esecuzione un po’ troppo approssimativa ha lasciato alcuni dubbi al riguardo (forse anche per via dei suoni non ancora messi del tutto a punto). Più convincenti, invece, “Afterburner” e la violenta “The Grey Massacre”. Giusto il tempo di voltarci alla nostra destra e fare qualche passo avanti che sul palco Temple – caratterizzato da un enorme pentacolo luminoso che sovrasta lo stage – salgono i ROTTING CHRIST, altra storica band della musica estrema europea; in questo caso sul versante black, specie ad inizio carriera. Il combo greco, capitanato da Sakis e Themis Tolis, parte a spron battuto con “The Forest Of N’Gai”, mentre ai due lati del palco Vagelis Karzis (basso) e George Emmanuel (chitarra) scuotono per tutto il tempo in sincrono le lunghe chiome con moto circolare, come fossero due ventole. Più che promuovere il nuovo “Κατ? τον δα?μονα εαυτο?”, uscito da pochi mesi (dal quale estraggono comunque la title-track e “In Yumen – Xibalba”), propongono un brano (di solito la opener) ad album, comprese le primissime produzioni. Particolarmente distruttive dal vivo “The Sign Of Evil Existence” e “Χαος γενετο (The Sign of Prime Creation)”, oltre a “Societas Satanas”, cover dei Thou Art Lord, che provoca inesorabilmente il pogo tra le prime file salvo poi fermarsi per urlare in coro il ritornello. Complessivamente davvero una buona prova la loro, solida e soddisfacente.

Usciamo dall’oscuro tendone doppio, poi, per spostarci verso il Mainstage dove si esibirà uno dei gruppi heavy metal più in forma degli ultimi anni: gli ACCEPT, forti di due solidissimi album di scintillante acciaio teutonico come “Blood Of The Nations” e “Stalingrad”. Che il combo di Solingen stia attraversando un periodo di grazia è testimoniato dall’energica esecuzione di “Hung, Drawn And Quartered” e “Stalingrad” poste in apertura. Da manuale la prestazione dei due axemen Wolf Hoffmann e Herman Frank che macinano riff rocciosi e soli a profusione come fabbri e impeccabile la prova del frontman Mark Tornillo, in grado di non far rimpiangere più di tanto la mancanza di Udo Dirkschneider (il quale, con buona probabilità, oggi non riuscirebbe più a offrire le garanzie che può dare il singer statunitense dal vivo). La scaletta del gruppo poi verte sui maggiori successi come “Restless And Wild”, “Princess Of The Dawn”, “Breaker”, “Metal Heart”, “Losers And Winners” e l’acclamata “Balls To The Wall”, che vengono cantati dai presenti come se non ci fosse un domani. Il loro show (e il tempo a loro disposizione) scorre via senza neanche accorgersene e in un batter d’occhio siamo già arrivati al gran finale, quando lo stridente urlo interrompe la celebre canzoncina di Heidi che apre la leggendaria “Fast As A Shark”. Nel frattempo è salito sul palco un Phil Anselmo visibilmente emozionato, il quale prima si mette in ginocchio di fronte a loro e poi si mette a cantare la canzone, a suo modo, assieme a Tornillo. Finita l’energica esibizione degli Accept ne approfittiamo per mangiare qualcosa prima che calino le tenebre e la serata entri nel vivo. Quando ci avviciniamo nuovamente all’arena, però, costatiamo che nel frattempo si è completamente riempita e non è poi così facile avvicinarsi al palco principale per uno degli show più attesi, evidentemente. Billy Gibbons e Dusty Hill, con le loro leggendarie barbe canute, accompagnati al solito da Frank Beard (l’unico sbarbato nonostante il cognome), stanno per salire sul palco: è il turno degli ZZ TOP. La loro è un’entrata in grande stile, andando a pescare da due dei loro maggiori successi: “Eliminator” e “Tres Hombres”, dai quali estraggono nell’ordine “Got Me Under Pressure”, “Waitin’ For The Bus”, Jesus Left Chicago” e la celebre “Gimme All Your Lovin’”, acclamata da un pubblico che non riesce più a rimanere fermo e si fa coinvolgere tenendo il tempo e accennando le movenze dei loro beniamini. Solo dopo un inizio del genere i Nostri cominciano a recuperare qualche brano più recente da album come “La Futura” e “Antenna”. Inaspettata e accolta calorosamente poi la cover di “Foxy Lady” interpretata più alla loro maniera, piuttosto che riproporla del tutto fedele all’originale. Piccolo cameo dedicato anche all’album del loro ritorno nei Novanta, “Recycler”, con il blues polveroso di “My Head’s In Mississipi”. Il loro è uno show estremamente coinvolgente, ma dato il continuo affollarsi di pubblico valutiamo la possibilità di andare via un pochino prima per evitare la calca e trovare una posizione favorevole sotto il tendone del Valley per seguire lo show dei Manilla Road che si preannuncia  particolarmente succoso ed intenso dato il forfait di alcuni gruppi e la disponibilità del gruppo ad allungare il proprio show. Proposito che svanisce però immediatamente sulle note, travolgenti, di brani proposti a ripetizione come “Sharp Dressed Man”, “Legs”, “Tube Snake Boogie” e la mitica “La Grange”. Semplicemente impossibile rinunciarvi. Finale poi affidato a uno dei riff più celebri e copiati della storia del rock, quello di “Tush”, sulle note della quale qualcuno si mette a ballare, altri cantano senza risparmiarsi. Dopo più di quarant’anni i loro show sono sempre travolgenti e impagabili: semplicemente leggendari. Un gruppo da vedere dal vivo almeno una volta nella vita.
 

A quel punto siamo costretti a fare una corsa per non perdere neanche una nota dello show dei MANILLA ROAD, che, lo dico subito, si rivelerà uno dei migliori in assoluto dei tre giorni. Da anni ormai Mark “The Shark” Shelton ha abbandonato quasi del tutto il suo ruolo di cantante dedicandosi quasi esclusivamente alla chitarra lasciando il posto a Bryan “Hellrodie” Patrick, il quale, oltre ad avere una voce molto simile allo “Squalo” è anche un infaticabile animale da palco. Questo ha permesso loro di ricominciare a proporre brani accantonati in passato e di poter premere maggiormente sull’acceleratore. Un esempio che altri gruppi farebbero bene a seguire, non c’è bisogno di fare nomi, credo. Digressioni a parte, torniamo allo show, caratterizzato da una spettacolare scaletta – certo, più breve rispetto alle tre ore di concerto a cui hanno abituato i propri fan – che pesca a piene mani da tutti gli album più acclamati come “Open The Gates” (davvero irresistibile la title-track dal vivo e ancora più difficile non sgolarsi cantando l’epico ritornello pugni al cielo), “The Deluge” e “Mystification”. Dischi che dovrebbero figurare nella discografia di qualsiasi metallaro che si rispetti. In particolare, però, dedicano tutta la parte finale del concerto ad estratti da “Crystal Logic”, come la title-track, “The Riddle Master”, “Flaming Metal Systems” (presente nelle ristampe successive) e “Necropolis”, in un tripudio di epicità e colate di metallo incandescente. In ogni caso è inutile riportare tutte le singole tracce, ma mi preme sottolineare l’energia con cui il combo di Wichita (Kansas) – che può essere considerato di diritto il gruppo che ha inventato un certo tipo di metallo epico, dato che i Manowar sono arrivati almeno tre anni dopo e si sono ispirati a loro sotto vari aspetti) – suona i propri pezzi. Altro che “vecchietti”, sono ancora in grado di dare la paga a molti e di spingersi verso sonorità quasi più affini al thrash che all’heavy metal. La loro esibizione è stata una lezione di stile e di umiltà, essendo un gruppo che non ha mai raccolto quanto avrebbe meritato e, nonostante la concomitanza con i gruppi principali della serata, anche in quest’occasione potevano e dovevano avere un numero maggiore di sostenitori. Quel gruppo di fan irriducibili, d’altra parte, arriva quasi a strapparsi i capelli dalla gioia, come è successo per pochi altri gruppi presenti nel bill del festival. Come dicono i nostri cugini d’oltralpe: c’est la vie…

(Altro giro) Altra corsa, quella che facciamo per assistere allo show dei CANDLEMASS sullo stage Altar. Anche se di lì a poco avrà inizio lo show dei Kiss, reputiamo quasi imperdibile l’esibizione dei doomster svedesi dato che il loro futuro è parecchio incerto. Probabilmente, infatti, non ci sarà mai un successore di “Psalms For The Dead”, dello scorso anno, e poi l’allontanamento di Robert Lowe subito dopo aver registrato l’album, avvenuto come un fulmine a ciel sereno e mai chiarito del tutto, sono tutti elementi che lasciano fin troppi punti interrogativi sulla loro carriera. Attualmente il posto di vocalist è rivestito da Mats Levén, un cantante molto esperto che però ha un compito assai arduo nel tentare di emulare i suoi tre principali predecessori, ognuno con una voce molto particolare ed una personalità forte e carismatica. Tra l’altro, pur avendo qualche problemino con i pezzi cantati originariamente da Messiah Marcolin e Johan Längquist, le maggiori difficoltà sembra averle proprio sui pezzi di Lowe, che comunque rappresentano circa la metà della scaletta. In ogni caso la sua prova sull’acclamata “Emperor Of The Void” (da “King Of The Grey Islands”) è piuttosto buona e più in generale il suo contributo e senz’altro più che sufficiente. Particolarmente evocativa, per una prova maiuscola di tutta la band, “Dark Reflections” e molto buona anche la prova sui due classici estratti da “Nightfall”: “Bewitched” e soprattutto “At The Gallows End”, forte di uno dei più cattivi ed azzeccati riff non solo del combo di Leif Edling e soci, ma di tutto il genere doom. Ottimo il contributo dei due storici chitarristi Lars “Lasse” Johansson e Mats “Mappe” Björkman sia sugli assoli sia sugli arpeggi, anche se purtroppo i roadie degli Immortal (che si esibiranno subito dopo sull’adiacente stage Temple) sembrano quasi mettersi d’impegno per rovinare la festa mettendosi a fare il soundcheck proprio in certi fondamentali passaggi, provocando più di qualche mugugno tra i presenti. Lo show poi arriva a chiusura con la splendida “Solitude”, con quel celebre ritornello simile ad una litania funebre cantata da tutti senza risparmiarsi, mettendo la parola fine su un’esibizione davvero degna di nota. Usciamo dal tendone e ci avviciniamo al palco principale per assistere alla seconda metà dello show dei KISS. Arriviamo mentre il combo di New York sta eseguendo i vari segmenti solisti, che si chiudono con quello di basso, distortissimo, che apre alla suggestiva “God Of Thunder”, mentre Gene Simmons sputa sangue finto dalla bocca. Purtroppo, giungendo a concerto inoltrato siamo costretti ad assistere da posizione arretrata e, vuoi per dei volumi non all’altezza e in parte per colpa del vento, va a finire che si sentono di più i cori del pubblico che non le canzoni stesse. In compenso possiamo gustarci un classico dopo l’altro come “Love Gun” (durante la quale Paul Stanley con una pedana passa sopra il pubblico ed arriva sull’impalcatura del mixer), “Rock And Roll All Nite”, “Detroit Rock City” e “Black Diamond”, mentre sul palco è un tripudio di fuochi d’artificio, fiammate enormi, camionate di coriandoli e pedane meccaniche che salgono a diversi metri di altezza dal palco per ciascun membro. Insomma, i Kiss non si risparmiano e sono sempre in grado di offrire uno spettacolo di altissimo livello – volumi permettendo – sia dal punto di vista musicale, sia da quello prettamente visivo e scenografico.
 

Per chiudere “in bellezza” la serata, raccogliamo le ultime forze residue e ci avviciniamo verso lo stage Altar dove stanno per esibirsi i MORBID ANGEL e troviamo gli IMMORTAL sul Temple intenti a mietere le ultime vittime con le debordanti “Withstand The Fall Of Time” e “One By One”. Ne approfitto per avvicinarmi il più possibile alle transenne e godere del prossimo show da posizione favorevole. Quando Trey Azagthoth e soci salgono sul palco, nonostante la tarda ora e la giornata sfiancante, il tendone è praticamente pieno. Il primo brano in scaletta è, al solito, “Immortal Rites”. L’esecuzione è perfetta, ma d’altra parte capita veramente di rado di trovare imperfezioni durante i loro show. Come accaduto nel 2011, sempre all’Hellfest, però, David Vincent inserisce quella fastidiosa (a livello personale, dato che alcuni apprezzano) voce baritonale al posto delle tastiere nella sezione in cui le chitarre fanno quell’inquietante fraseggio in solitaria. Solo che in questa occasione estenderà l’esperimento anche ad altri brani. Considerazioni personali a parte, il loro show è devastante, quasi asfissiante sulle note pesantissime di “Fall From Grace” e sulla breve, ma letale “Day Of Suffering”, che mette definitivamente alle corde i meno resistenti, costringendoli alla resa. Lo show poi prosegue con Vincent che ci svela che proprio quel giorno esatto ricorre il ventesimo anniversario di “Covenant” e per l’occasione snocciolano nell’ordine “Rapture”, “Pain Divine” (prima della quale Destructhor è costretto a fare un po’ di esercizi di stretching alla mano), pezzo assolutamente devastante dal vivo, e “Sworn To The Black”. Dopo un assalto del genere inizio a chiedermi quando e se proporranno anche qualche brano del deludente “Illud Divinum Insanus” e invece proseguono con una versione al fulmicotone di “Maze Of Torment” e solo allora, quando Vincent ricorda che i Morbid Angel sono sempre stati un gruppo all’avanguardia e che continueranno sempre ad esserlo, comincio a temere che il prossimo brano in scaletta sia per esempio la discutibile “I Am Morbid”. Invece partono con il coltello tra i denti con “Blasphemy”. “Existo Vulgoré” e “Nevermore”, però, sono solo state rimandate, ma tutto sommato poteva andare peggio. I Nostri poi chiudono alla grande con “Lord Of All Fevers And Plague” e “Chapel Of Ghouls” uno show distruttivo che rispedisce tutti verso il campeggio barcollanti, consapevoli, però, che il successivo e ultimo giorno di festival metterà un po’ meno alla prova la resistenza di tutti, ma vedrà alternarsi sul palco alcune band d’eccezione più o meno di culto e fornirà qualche ultima sorpresa.
 

 

…Continua!