Recensione: 20/20

Di Fabio Vellata - 11 Giugno 2020 - 0:05

In mezzo a parecchie sicurezze, ci sta pure il prendersi il rischio di qualche scommessa.
Tra le molte novità proposte da gruppi di fama consolidata, per questo ipertrofico mese di giugno a Frontiers Music è balenata l’idea d’infarcire il piatto con un paio di novità prodotte da band ad oggi sconosciute.
Scommesse si diceva. Se la prima, quella con gli Electric Mob sembra ampiamente vinta, un po’ meno bene è andata con gli Smackbound. Con questi ultimi l’azzardo non è magari proprio perso. Diplomaticamente poniamolo come se fosse un “pareggio”.
In buona sostanza, rivedibile.

Finlandesi al debutto anche se, uno per l’altro, dotati di esperienza consolidata in ambiti heavy, rock e affini, gli Smackbound vivono essenzialmente sulle abilità vocali della singer e fondatrice Netta Laurenne. Un passato di collaborazioni in varie realtà più o meno note (in curriculum ci sono Amorphis, Lordi ed Elvenking, tra gli altri) ed una carriera parallela da attrice per un’interprete molto dotata ed espressiva. Abilità conclamate, facilmente riscontrabili attraverso i tanti video delle sue performance presenti su youtube.
Ed era proprio su di lei e sulla sua versatilità in grado di spaziare dall’heavy metal di Doro Pesch, al symphonic dei Within Temptation, che puntavamo per vedere garantite le buone aspettative nutrite nei confronti di questo curioso debutto.

Detto per inciso, miss Laurenne non delude affatto. La voce c’è e la grinta – tantissima – pure. Una potenziale metal queen dai riverberi antichi che negli anni ottanta avrebbe detto la sua assieme alla già citata Doro ed all’indimenticabile Lita Ford.
Ci sono anche dei bei suoni, confezionati probabilmente per accattivare i favori di un uditorio attratto dalle sensazioni metal-sinfonico-orecchiabili. Un genere diffusissimo tra i più giovani, ipnotizzati da qualche bella chitarra sullo sfondo, atmosfere un po’ drammatiche ed un impasto tra atmosfere epicheggianti e spigoli nu-metal.
Un impianto che può rivelarsi talvolta molto godibile ed “easy”. Facile da ascoltare e metabolizzare.

Tutto bene e svolto come da copione. Non fosse che, purtroppo, è proprio la qualità dei brani a non convincere appieno.
Talvolta un po’ banali e davvero carichi di cliché, “Those who Burn”, “Hey Motherfucker” e “Troublemaker” rischiano concretamente di essere dimenticati nel giro di un paio di ascolti. Non funzionano, le melodie sono scontate, le parti vocali a volte eccedono in parossismi e la voglia di passare oltre prende piede troppo presto.
Altrove, quando la strada del mainstream è presente ma non al punto da prevaricare l’estro artistico, gli esiti sono senz’altro migliori.
La sventagliata iniziale proposta da “Wall of Silence” ha un buon ritornello e beneficia di un’ottima interpretazione vocale. Esattamente come la successiva “Drive It Like You Stole It”, singolo che ci aveva fatto conoscere gli Smackbound con qualche settimana d’anticipo e ci aveva fatto molto ben sperare. In effetti, qui l’amalgama tra vecchio e nuovo esce parecchio bene: ci sono suoni moderni ma il “taglio” ha un che di classico ed ottantiano. Come le già più volte citate Doro e Lita rivisitate in chiave 2020.
Fosse stato tutto così, sarebbe stato un esordio coi fiocchi.

Non spiacciono neppure “Run”, per quanto non si ravvisino gli estremi della hit memorabile, e le armonie symphonic metal della drammatica “The Game“. Netta Laurenne, lo abbiamo detto, è un’ottima cantante, versatile e con ugola ugualmente potente ed espressiva. Elementi che in questo brano specifico emergono in pieno, facendoci un po’ mangiare le proverbiali mani per come un talento così limpido non sia stato sfruttato davvero al massimo del suo potenziale. Per perdersi cioè, in pezzi davvero inutili come le già citate “Hey Motherfuckers“, “Troublemaker” o la stessa “Date With The Devil“. Una canzone che Sharon Den Adel avrebbe probabilmente relegato a b-sides di un qualche singolo dei Within Temptation. O forse avrebbe direttamente tenuto negli archivi.

Un debutto altalenante ed in chiaroscuro. Come detto, avremmo preferito trovare più canzoni ben bilanciate come l’ottima “Drive Like You Stole It“, emblema di un disco che avrebbe potuto essere ma non “è”.
La magia che si genera dall’equilibrio tra vecchio e nuovo è percepibile solo di tanto in tanto. Altrove, la preferenza sembra sia stata quella di privilegiare la piacioneria facile che occhieggia ad un pubblico distratto, accalappiato più dal “fumo” di contorno che non dal vero “arrosto” che infarcisce il piatto del quale facevamo cenno in apertura.

Questione di scelte.

 

 

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