Recensione: 7

Di Eric Nicodemo - 20 Giugno 2014 - 7:00
7
Band: Seven
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2014
Nazione:
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78

 

La storia si ripete.

Se il detto valeva per numerose bands della risorta NWOBHM, lo stesso può essere applicato ai melodic rockers Seven, quintetto inglese capitanato dai fratelli Keith Mcfarlane e Simon Lefevre, che, dopo la pubblicazione dei singoli “Inside Love” e “Man With A Vision” (entrambi usciti nel 1990), si sciolse tra attriti e conflitti interni, prima di dare alle stampe il fatidico debut album.

Negli anni i Seven divennero ciò che ora chiamiamo band di culto, una “venerazione” alimentata da voci ufficiose, che sostennero per anni l’esistenza di un full-lenght conservato dalla Polydor e mai pubblicato. In realtà, il tanto vociferato album in questione non vide mai la luce per mancanza di un contratto discografico vero e proprio, dato che i Nostri firmarono un bill esclusivamente per i singoli già citati.

Lo stesso Mick Divine, talentuoso singer del combo, ha smentito l’esistenza di un album d’esordio, precisando che l’unico materiale registrato corrispondeva a diversi demo incisi in località come gli studios di Rockfield. Da quanto detto, è facile trarre le debite conclusioni: 7 raccoglie brani inediti e singoli già pubblicati, proponendosi come disco di debutto che, dopo innumerevoli vicissitudini, vede la luce grazie alla sempre attiva Escape Music.

Parlando della release, 7 è attraversato dalle suggestioni hi-tech delle tastiere e dei sytns, chiave necessaria per accedere al magico mondo dei Nostri. Non a caso, se vi è capitato di buttare l’occhio sugli special guests coinvolti, potrete notare, oltre al main keyboarder Simon Lefevre, la presenza di ben quattro (!) tastieristi di primordine coinvolti nel progetto tra cui spiccano Mark Mangold (mastermind degli indimenticabili Touch e songwriter per Michael Bolton) e Adam Wakeman, figlio di Rick YesWakeman e attualmente membro della band solista di Ozzy Osbourne.

Capirete meglio questa dialettica non appena vi avventurerete nelle sinuose tastiere di “Shoot to Kill”, che si nutre di innesti elettrici e di sintesi per creare un’immagine sognante, quasi vivessimo una notte passionale tra le vie illuminate della metropoli di Los Angeles. E mentre ci dibattiamo nel cuore della notte, “Inside Love” ci risveglia con placidi tocchi per poi stregarci con quel brivido creato nell’attimo dal duo Mick/Keith, un connubio di armonie che ci invade e penetra risvegliando le nostre emozioni sopite.

I più attenti noteranno che “Inside Love” è il rifacimento del singolo suddetto, che suscitò grandi aspettative in passato: nulla di più vero perchè la magia è rimasta intatta nell’elegante, struggente semplicità di quel coro che abbiamo appena descritto ma che difficilmente scorderemo.

L’atmosfera si fa più tenue e soffusa quando le note del piano fanno capolino come gocce di rugiada. La voce soave di Divine è un ponte che ci proietta verso l’enfasi romantica di “Diana”, una poesia trasposta in musica, che trasmette tutta la nostalgia dei momenti trascorsi ad ascoltare vecchie ballad perse nel tempo. “Still” è ancora sospesa sulle ali di suadenti rintocchi ma presto arde un riff rovente come il vecchio hard rock esigeva.

L’irruenza si stempera in un ritornello cadenzato, che incede attraverso l’eleganza dei tasti e scivola sul ruvido pulsare della chitarra. La fusione delle voci completa un ritornello ammaliante, plasmato su quella breve, intensa parola: “Still”. Un altro episodio di classe e passione, pur non raggiungendo l’avvolgente estasi di “Inside Love”.

Headlines” ci riporta a solcare la notte guidati da un assolo vibrante: un flash che si tramuta in un pre chorus riverberato dai synts. Il refrain non si fa attendere e affonda le sue hooklines nel nostro cuore. Su “Strangers” cala il velo degli anni ’80, intessuto dalle tastiere di Lefevre. Ma se l’intro potrebbe lasciare indifferenti gli habitué del genere, presto vi arrenderete al chorus e sarete completamente succubi una volta giunti alle strofe centrali, che soffieranno così forti da non sentirvi stranieri in una terra inospitale ma a casa, nella dimora della melodia, la dimora dell’AOR. Il vostro rifugio, cari maniaci del melodic rock.

Come nel caso di “Inside Love”, “Strangers” è la riproposizione di un vecchio brano, “Stranger (In The Night), extra track del cd del singolo “Man With A Vision”.America” ha un titolo non equivocabile e ci proietta ancora nella vita notturna, dove le voci non smettono di accarezzarci come velluto sulla pelle. I nostri sensi sono percorsi dal dolce brivido del vibrato che balena in mezzo alla canzone, ipnotizzandoci come una visione suggestiva nel buio.

Questo viaggio attraverso la notte non ha fine mentre i nostri passi si incrociano con il basso galoppante di “Thru The Night”. Il coro non si fa attendere: è un incontro seducente, dall’appeal dolce e al contempo intenso, come l’AOR d’annata ci ha abituato. Il reprise mai dimentica la delicatezza e l’atmosfera della tastiera, amica insostituibile del nostro genere preferito.

Disinibita e veloce si introduce l’energica “Never Too Late”, attenuata da scorci tastieritici e dalle carezze di raffinate di Devine. La chitarra, infatti, convive con le lievi keyboards, per sussultare nei riff che, dietro le quinte, iniettano piccole dosi di pura energia rock. Un’inflessione che prende il sopravvento nel guitar solo, quasi a rendere interlocutorio il titolo: non è mai troppo tardi per un po’ di sano hard’n’roll!

Ancora una dimostrazione di forza ed eleganza con “Don’t Break My Heart”, che consegna il proprio messaggio esclusivamente alle armonie delle tastiere, le vere protagoniste di un ritornello affettivo che sboccia quando i Seven, guidati da Devine, si elevano all’unisono. In chiusura, “Say Goodbye” più che un commiato sembra un invito ad un futuro, nuovo incontro: la pioggia argentina dei tasti scende mentre strofe festose ci salutano e la chitarra ci chiama per l’ultimo sentimentale assolo.

In definitiva, 7 è un album che si commenta da solo: è la prova procrastinata di un gruppo abile nel ricreare vecchie melodie codificate nella genetica dell’AOR, soprattutto quello di matrice europea, che tentò a fine anni ottanta di proporsi alle classifiche d’oltreoceano. Di conseguenza, non meravigliatevi se durante l’ascolto vi verranno in mente complessi come i compatrioti FM e gli svedesi Alien.

Secondo un’analisi lucida e oggettiva, infatti, l’album è null’altro che un accattivante, fantastico revival. Una simile operazione implica, quindi, la presenza di formule già consolidate ma comunque attraenti, come testimoniano le ballads “Diana” e “Say Goodbye”, che preferisce un refrain più solare e meno passionale della seducente “Inside Love”.

In secondo luogo, si potrebbe imputare ai Seven di aver svolto un mero lavoro di rifacimento, rielaborando e mettendo assieme vecchi singoli ed inediti. Una sensazione che sembrerebbe avvalorata se avete già ascoltato “Inside Love” e la precedente versione di “Strangers” (“Stranger (In The Night)). Tutti quelli, invece, che non hanno mai ascoltato le suddette tracks o aspettavano una riedizione del vecchio materiale, appoggeranno in pieno la scelta operata. 

Ciò nonostante, i pezzi risaltano al meglio all’interno di un platter finalmente completo e armonizzato, dove le vecchie hit trovano la giusta collocazione grazie anche alla qualità dei restanti brani. Questo grazie anche alla voce espressiva di Devine, che regge il confronto con le vecchie performance: incredibile a dirsi ma la timbrica di Mick è rimasta cristallina e incantevole come se il tempo si fosse fermato ai primi anni novanta. Rimane, tuttavia, inspiegabile la mancanza del singolo “Man With A Vision” che, reinciso e perfezionato con gli standard attuali, non avrebbe sfigurato in mezzo al lotto, costituendo valore aggiunto alla proposta.

Speculazioni a parte, quel che più importa è che queste canzoni hanno mantenuto intatto il loro feeling e la loro innata forza, proprio come l’ugola del buon Devine.

Il resto è storia. Una storia a lieto fine.

 

Eric Nicodemo

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