Recensione: Affinity

Di Lorenzo Maresca - 30 Aprile 2016 - 10:00
Affinity
Band: Haken
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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90

Considerati da subito una delle band più promettenti nel panorama progressive, dal 2013 gli Haken sembrano essere diventati una realtà solida all’interno di questo vasto genere. Con il terzo album, The Mountain, la band inglese è arrivata un punto di svolta, riuscendo finalmente a imporsi al pubblico internazionale grazie a un lavoro maturo, che ha portato a un livello superiore la grande creatività emersa già nei precedenti album. Un anno dopo è arrivato l’ottimo Restoration, ma si trattava di un EP contenente tre pezzi di un vecchio demo ri-registrati con una nuova produzione e un nuovo arrangiamento. Per il vero ritorno degli Haken abbiamo, quindi, dovuto aspettare Affinity, un album che, come sempre quando si comincia ad avere successo, ha il difficile compito di soddisfare le aspettative create dal disco precedente senza risultare una brutta copia: insomma una prova del nove per la band e una delle uscite più attese del 2016.

Già dalla copertina Affinity si presenta in modo diverso dal solito: la sua grafica essenziale, geometrica, con figure stilizzate e pochi colori, ci dà un primo indizio sulla natura dell’album. La title-track è una breve introduzione elettronica dall’atmosfera inquietante; i suoni si ripetono in maniera ossessiva e minacciosa fino a collegarsi con il vero opener, nonché primo singolo, “Initiate”. La ritmica iniziale, che viene ripresa nel ritornello, mostra qualche influenza da parte dei Leprous, band che, tra l’altro, ha condiviso un tour con gli Haken nel 2014. Molto raffinate inoltre le tastiere di Diego Tejeida che, nella prima strofa, si limita a pochi efficaci accordi carichi di riverbero, regalando sensazioni di pace e di vago mistero, come se l’ascoltatore si ritrovasse a volteggiare nello spazio. Si passa quindi a un pezzo più lungo e complesso, “1985”. Il titolo dice tutto: questo brano è un esplicito tributo alle sonorità degli anni Ottanta, in barba alla mania per gli anni Settanta che spopola nell’ambiente progressive. Quello degli Haken tuttavia è un tributo intelligente, tutt’altro che passivo, che finalmente fa emergere lo spirito dell’album, il forte cambio di direzione rispetto ai lavori precedenti. Quei sintetizzatori e quella batteria elettronica che oggi possono apparire datati acquistano nuova freschezza e si mescolano con grande disinvoltura a complicate parti strumentali, riff massicci degni dei migliori Meshuggah, e uno splendido ritornello che fa del brano una vera perla.

Lapse” ci permette di rilassarci per quattro minuti con una sorta di ballata, che comunque non fa a meno delle sonorità più pesanti. Da segnalare qui un bellissimo scambio di assoli dal sapore fusion. Altro pezzo da novanta è “The Architect”: l’umore si fa da subito più cupo, i riff diventano più contorti e aggressivi, ma l’arrangiamento è maestoso come sempre. Nella parte centrale possiamo ascoltare un contrappunto di chitarre che sembra uscito da un disco dei King Crimson degli Eighties, mentre verso il finale torna prepotente il metal con una strofa cantata in growl (chi ricorda Aquarius?) da Einar Solberg dei già citati Leprous. “Earthrise” è la traccia più serena e orecchiabile, un brano molto gradevole che mantiene, però, il potente impatto sonoro tipico degli Haken. E se “Red Giant” rallenta per puntare su atmosfere notturne, “The Endless Knot” riparte subito alla carica, rivelandosi il pezzo più esplosivo del disco. Qui le tastiere sono protagoniste e più moderne che mai (si arriva addirittura a uno stacco dubstep), ma nonostante l’aggressività del brano non mancano i momenti di assoluta finezza, come l’assolo di chitarra. “Bound By Gravity”, infine, parte come una ballata e si sviluppa in un crescendo che chiude l’album in grande stile.

Dopo vari ascolti l’album merita un giudizio complessivo di riguardo. Con Affinity gli Haken ci consegnano, infatti, l disco più particolare della loro carriera, almeno fino a questo punto. Non solo confermano la qualità che li ha sempre contraddistinti, ma lo fanno in un modo che non ci aspettavamo, dimostrando di voler sperimentare soluzioni nuove senza sentirsi obbligati a ripetere quello che è piaciuto al pubblico negli anni passati. In effetti alcuni fan di vecchia data, così come i puristi del progressive, potrebbero storcere il naso di fronte a un disco che si spinge così tanto verso le sonorità più moderne e allo stesso tempo recupera il sound degli anni Ottanta. Ma basta qualche ascolto per entrare completamente nell’atmosfera creata dall’album, per apprezzare la cura nei suoni, davvero notevole, e per riconoscere l’ispirazione che ne sta alla base. Soprattutto ci si rende conto, ancora una volta, di come questa talentuosa band riesca a gestire e miscelare generi lontanissimi tra loro come se fosse la cosa più naturale del mondo, e sempre mantenendo un buon gusto invidiabile. Gli Haken hanno fatto centro un’altra volta.

 

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