Recensione: Age Of Steel

Di Marco Tripodi - 20 Aprile 2020 - 6:00
Age Of Steel
Band: Cloven Hoof
Etichetta: Pure Steel Records
Genere: Heavy 
Anno: 2020
Nazione:
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61

Inesauribile NWOBHM, a 40 anni di distanza dalla sua diffusione continua a sopravvivere nelle imprese dei propri figli (e spempre più spesso in quelle dei figli dei figli). C’è chi ha cambiato pelle (Def Leppard, Tygers Of Pan Tang), chi ha raggiunto successi planetari (Iron Maiden), chi si è mantenuto fedele e tetragono (Blitzkrieg, Girlschool, Tank), chi ha provato a fare qualcosa di diverso ma poi è ritornato più o meno spontaneamente sui propri passi (Angel Witch, Jaguar, Saxon, Savage, Venom), chi ha tentato la resurrezione ma con modeste fortune (Quartz, Mythra, Rock Goddess, Witchfynde, Witchfinder General) chi è rimasto sopraffatto dallo scorrere della sabbia nella clessidra del tempo (Ethel The Frog, Runestaff, Handsome Beasts, Heritage, Bitches Sin, Chateaux, Dark Star, Shiva, Trespass…. questo sarebbe l’elenco più lungo), chi è tragicamente caduto lungo il cammino (Samson). Al netto di qualsiasi nome possa venirvi ulteriormente in testa, l’influenza delle sonorità NWOBHM si è insinuata attraverso i decenni, i generi ed i continenti, ed è diventata patrimonio consolidato del pianeta heavy metal per sempre, nei secoli dei secoli.

Nella fila degli irriducibili vanno annoverati anche i Cloven Hoof di Wolverhampton, capitanati ora come allora dal bassista Lee Payne, rimasto unico detentore del vessillo sotto il quale militava la formazione originale degli anni ’80. La biografia della band, nata come Nightstalker, è stata travagliata; inizialmente il loro futuro pareva pavimentato di oro ed alloro, originali per tematiche ed atmosfere, dotati di costumi di scena e nomignoli d’arte che favenao riferimento ai quattro elementi della cosmogonia (aria, acqua, terra, fuoco), vennero adocchiati subito da un certo Robert Plant e da un altro certo Rob Halford grazie alla circolazione di un primo demo nel 1982. Finirono addirittura in onda sulla BBC e sempre nello stesso anno arrivò la spinta per l’autoproduzione dell’Ep d’esordio “Opening Ritual“. Tuttavia il primo full-lenght non venne pubblicato che nel 1984 (“Cloven Hoof“), ovviamente dalla Neat Records. L’85 fu l’anno della prima crepa, l’abbandono del singer David Potter in favore degli H-Bomb. Da allora la line-up dei Cloven Hoof ha conosciuto più dentro e fuori di un film di Ilona Staller e – nonostante la pubblicazione di altri album – scioglimenti e stop and go si sono susseguiti con una certa perseveranza, tanto da fiaccare il potenziale che la band pareva avere all’alba degli ’80s. Sono rimasti comunque sotto traccia, citati sempre come seme che ha donato germogli a molti epigoni che hanno guardato ai Cloven Hoof come ad una importante fonte di ispirazione.

Oggi Payne è di nuovo in pista a distanza di tre anni esatti dal precedente “Who Mourns For The Morning Star?” e con 3/5 di formazione ulteriormente rimaneggiati. Come spesso accade in questi contesti, il rimando al glorioso passato della band è d’obbligo, viene sistematicamente evocato il ritorno alle origini e, quando proprio si vuole strafare (ed è il caso di Payne), si dichiara urbi et orbi – non senza una certa sbruffoneria – che siamo al cospetto del miglior lavoro mai prodotto dalla genesi del gruppo ad oggi. A livello tematico ed estetico torna in campo anche il Dominator, figura mitica legata ai Cloven Hoof (al quale è stato anche dedicato un album nel 1988). Alle vocals troviamo George Call, che io ricordavo nei sottovalutati Aska e del quale invece non ricordavo affatto una somiglianza così stringente con la timbrica di Bruce Dickinson.

L’album si apre con “Bathory“, un bel pezzo, potente e arcigno, non il massimo dell’originalità ma disporsi ad ascoltare un album dei Cloven Hoof e pensare di doversi aspettare innovazione ed estrosità significa aver sbagliato indirizzo. Qui è di casa la tradizione, il rispetto del codex metallicum in ogni sua virgola e accezione. Segue “Alderley Edge” e qualcosa inizia a risuonarmi nel cervello, ho la netta sensazione di aver già sentito questo pezzo, forse è una cover? No, è proprio “Seventh Son Of A Seventh Son” spiccicata, stessa intro, stesso ritornello. Non intendo simili, paragonabili, affini, vagamente echeggianti tra di loro, “Alderley Edge” è proprio “Seventh Son“, punto. Sarebbe? Ma è un omaggio? Una citazione? Un tributo? Non trovo niente tra il materiale informativo relativo alla band, cerco online qualche dichiarazione di Payne che contestualizzi questa assonanza… niente, di esplicito scritto nero su bianco non c’è niente, ma basta avere le orecchie per cogliere quel che c’è da cogliere. Archiviata questa stramberia proseguo con l’ascolto inanellando del buon metal, sempre potente, intenso e refrattario alla benché minima deviazione fuori binario, ma indubbiamente gradevole. Certo, noto che rispetto al sulfureo ed epico metal degli esordi i Cloven Hoof 2020 hanno decisamente piallato la propria proposta, accostandosi molto più marcatamente al power e sciogliendo il più possibile nodi ed asperità. Questo ha portato via con sé anche un po’ di personalità e riconoscibilità.

Arrivato a “Gods Of War” si ripete un copione già scritto. Ascoltate bene strofe e ritornello, anche qui il timpano comincia a lavorare, scartabellando l’archivio della musica passata… e si ferma su “March Of Time” degli Helloween. Provate a sovrapporre il testo del ritornello delle zucche di Amburgo su quello dei cantori del Dominator, stessa metrica, rispettata al millimetro, stessa intonazione, stesso sali/scendi. Devo ammettere che a questo punto ho cominciato a sentirmi un po’ preso per i fondelli. A che gioco stanno giocando i Cloven Hoof? “Age Of Steel” è un album che mette in fila band care agli inglesi o l’idea era veramente quella di rivendere per proprie delle canzoni non esattamente inedite? D’accordo, qua e là il già sentito affiora, passando dai Virgin Steele (“Touch The Rainbow“) agli Hammerfall e ai Maiden (“Victim Of The Furies“), ma nel caso delle due canzoni che ho citato si va molto oltre un comune terreno di gioco accettabile e fisiologico, siamo al copia/incolla. “Judas” esibisce una linea melodica molto aperta ed è forse il pezzo più distante dai Cloven Hoof dei primi ’80, sospeso com’è tra visioni scandinave alla Lion’s Share, Stratovarius, Kotipelto, Jorn Lande e similia. Chiude la title track, un po’ più maschia e virile, che parzialmente ripristina lo stato (epico) delle cose. Ad ascolto concluso (e ripetuto alla enne), non posso dirmi troppo soddisfatto del lavoro dei Cloven Hoof; altro che album migliore di sempre, “Age Of Steel” è un lavoro da fascia di mezzo, ben suonato e compatto, ma troppo adagiato su sonorità che sono presenti in centinaia e centinaia di altri solchi digitali già in circolazione, e per di più viziato da alcune parentele talmente “strette” da lasciare a bocca aperta. Una sufficienza, niente più.

Marco Tripodi

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