Recensione: Agenda 21

Di Matteo Bevilacqua - 18 Maggio 2022 - 12:00
Agenda 21
Band: Zero Hour
Etichetta: Frontiers Records
Genere: Progressive 
Anno: 2022
Nazione:
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80

Gli statunitensi Zero Hour celebrano il nuovo giorno dando alla luce Agenda 21 che rappresenta non solo la loro settima fatica in studio ma un vero e proprio nuovo inizio per la band progressive metal recentemente riformata. Originariamente costituiti nella San Francisco Bay Area negli anni ’90 dal chitarrista Jasun Tipton e suo fratello Troy al basso, gli Zero Hour hanno pubblicato sei album in studio dal 1998 al 2008. La band al tempo era stata acclamata in più occasioni per l’approccio heavy, per la diversificazione del riffing e le affinate combinazioni armoniche e ritmiche di strumenti e voce, il tutto all’interno di un impianto ben collaudato con il risultato di un sound assolutamente personale. Purtroppo un infortunio al braccio di Troy Tipton, poco dopo l’uscita del loro album del 2008 Dark Deceiver, ha segnato la fine apparente della band. Oggi Jasun assieme ad un altro dei membri originali Erik Rosvold (voce) hanno reclutato il bassista Andreas Blomqvist (Seventh Wonder) e il batterista Roel Van Helden per unirsi a loro in quest’ultimo capitolo.

L’opener “Demoside” colpisce fin da subito per l’intensità e passionalità vocale di Erik nonostante a livello strumentale il brano sembra partire in sordina. Tuttavia questa è solo l’illusione del primo minuto e mezzo (su 14 totali del brano). Gli intricati riff all’unisono di chitarra e basso si inframezzano a momenti di pura bellezza vocale elegantemente sostenuta dalla band. La matrice è sicuramente il progressive metal di influenze 90’s (Fates Warning in primis) ma con un timbro vocale con inflessioni carnose e quasi gutturali, un’arma vincente. Altro punto a favore del combo è l’assoluto minimalismo della stratificazione strumentale, con un uso ridotto se non assente di pads ed effettistica mettendo così a nudo la cruda carica metallica perfettamente amalgamata con le composizioni progressive.  A metà brano il breakdown melodico funge da apripista per una sezione strumentale di rara bellezza, ed ecco la voce di Erik ergersi potente e spiccare il volo. Le parti vocali più soft ricordano il migliore Geoff Tate con il plus di avere a portata di mano un timbro che riesce a inspessirsi a comando. Le ritmiche serrate e il passaggio ostinato finale non annoiano grazie ad un suono potente, coeso e dritto al punto che ha il solo scopo di sorreggere il climax emotivo dei vocals.

Continuiamo con “Technocracy” dove il mantra «The digital drug is the lobotomy» viene urlato con insistenza. Il messaggio non può passare inosservato, un chiaro specchio dei nostri tempi. Il brano generalmente non evolve e resta ferrato sull’ostinato senza comunque stancare. Una menzione speciale al basso di Andreas Blomqvist, elemento in grado di garantire quel minimo di variazione all’interno dell’ostinato che arricchisce il prodotto finale e tiene l’ascoltatore ancorato. Spiccano le chitarre ritmiche che riportano la mente, con una certa nostalgia, ai bei tempi andati.

Un intro di synth pads introduce “Stigmata”, brano carico di impatto e cambi di direzione dove la voce di Erik dà il meglio di sé (quasi creando l’effetto “sirena” del compianto Warrel Dane) mentre la band si districa nelle complesse linee ritmiche e melodiche. Le chitarre onnipresenti non lasciano spazio alla riflessione, ai limiti della cacofonia, il che rende ancora più spettacolare lo stacco netto di voce e pianoforte che ricorda i momenti sognanti dei primi Kamelot. Un nuovo cambio di tempo, una nuova accelerazione ed eccoci nell’universo propriamente progressive. Una sezione minimalista ed evocativa chiude il cerchio.

Con un perfetto tempismo si giunge al momento della ballad ed ecco “Memento Mori”,  brano caratterizzato da chitarre pulite pesantemente effettate da un riverbero spaziale e la batteria di Roel Van Helden con un incedere quasi da marcia. La band sa molto bene come punzecchiare l’emotività dell’ascoltatore con un crescendo vocale ben strutturato, il tutto posizionato su due semplici accordi. Finito il climax, il brano termina esattamente là dove è iniziato. Non c’è nulla che stupisca veramente ma ciò non ha alcuna importanza. Gran bel lavoro davvero.

La title-track parte con un bel tiro, un riff granitico caratterizzato da intrecci ipnotici e accelerate improvvise alla chitarra di Tipton (suo marchio di fabbrica), scale discendenti di petrucciana memoria suonate ad un bpm impazzito. Come per gran parte dell’album, la traccia è pura nostalgia e presenta uno splendido ritornello supportato da un ottimo uso di backing vocals, intrecciati con la linea vocale principale e un’elegante linea melodica alla chitarra.

Si chiude con “Patient Zero” della durata di ben dieci minuti. Ritornano le già note chitarre effettate di “Memento Mori”. A livello strumentale l’attacco potrebbe apparire un po’ incerto, non fosse per la sempre impeccabile voce di Erik in grado di guidare davvero l’ascolto ed accentrare su di sé la nostra attenzione. Ecco un cambio di direzione netto che sfocia in un riff squisitamente progressive. A livello melodico il brano decolla davvero solo dal quarto minuto dove la band dimostra una grande prova tecnica con stacchi ritmici precisissimi alternati da accelerazioni chitarristiche e da una intensa prova vocale. Unica pecca, forse non si riesce pienamente a giustificare l’eccessivo minutaggio in quanto il brano fallisce nel cercare di accompagnarci in un viaggio sensoriale dove le lancette paiono scorrere incredibilmente in fretta, come solo i veri maestri del genere sanno fare.

La chiusura di questo Agenda 21 ci lascia con un senso di soddisfazione, con l’idea di un barlume di speranza per il destino della musica, quella vera. Musica pesante, melodica, oscura e intricata. Musica scritta col cuore. Tale intenzione trasuda da ogni poro di questo lavoro.

 

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