Recensione: American Soldier

Di Riccardo Angelini - 7 Maggio 2009 - 0:00
American Soldier
Band: Queensrÿche
Etichetta:
Genere:
Anno: 2009
Nazione:
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55

È dai tempi di ‘Promised Land’ che i Queensrÿche non riescono a mettere d’accordo i propri fan. Eppure, fra mezzi passi falsi e completi scivoloni, in un modo o nell’altro Tate e soci sono sempre riusciti a restare in piedi. Certo dopo quel buco nell’acqua che risponde al nome di ‘Hear In The Now Frontier’ – non proprio soddisfacente dal punto di vista delle vendite – i sogni di grandezza di fine anni ’80 sono stati salutati una volta per tutte. Di rimando, il buon successo di pubblico e critica del secondo Mindcrime (per il sottoscritto ancora un enigma) ha restituito un certo lustro al combo di Seattle, che dopo le fallimentari sperimentazioni di ‘Tribe’ sembrava ormai bollito tanto artisticamente quanto commercialmente. Al termine dell’industrioso biennio 07/08, conclusosi con l’abbandono del chitarrista Mike Stone a inizio 2009, restava la curiosità di capire quale direzione musicale l’ammiraglio Tate avrebbe imposto alla vecchia corazzata. Insistere nella ricerca di un compromesso fra sound passato e presente? Tornare ai velleitari tribalismi del 2003? O magari concedersi al nostalgico revival classic rock inaugurato dal (discutibile) tribute-album ‘Take Cover’? Nulla di tutto questo.

Prima di intraprendere il discorso musicale in senso stretto, bisogna riconoscere la grande scaltrezza promozionale dimostrata da Tate alla vigilia della pubblicazione di ‘American Soldier’. Non soltanto la vecchia volpe ha snocciolato di mese in mese anticipazioni e approfondimenti sui singoli brani, ma è giunto persino a creare una linea telefonica alla quale i fan potevano rivolgersi per ricevere dalla sua viva voce delucidazioni circa lo stato dei lavori. Grande del resto il risalto conferito alle tematiche, offerte dalla testimonianza diretta dei veterani dell’esercito americano intervistati dallo stesso Tate nel corso degli ultimi mesi. L’abbondanza del materiale a disposizione ha permesso di sviscerare nei suoi aspetti più crudi e dolorosi il tema della guerra – tema caldo dentro e fuori dagli Stati Uniti, oltre che particolarmente sentito dal frontman di Seattle il quale, com’è noto, non ha mai risparmiato critiche aperte e talora anche colorite alla politica di Bush Jr. ‘American Soldier’ si presenta così come un disco di denuncia, se non politico in senso proprio quantomeno impegnato e, indubbiamente, ambizioso.

“On your feet!”

Quando la musica vuole essere qualcosa in più che semplice musica, il rischio è quello di perdere di vista il fattore centrale – la musica, appunto. Con questo rischio ‘American Soldier’ deve fare i conti fin dalle prime battute. L’iniziale ‘Silver’ si affida al lirismo della voce di Tate, pesantemente effettata, mescolandolo a un chorus militaresco che un po’ goffamente tende a scimmiottare un semi-parlato hip hop (una soluzione che fortunatamente non troverà seguito nel resto del disco). Il brano tende ad addormentarsi su se stesso nella sua seconda parte, e non basta un tagliente solo di chitarra a destarlo dal proprio sopore. Le cose non vanno meglio con ‘Unafraid’ – tutt’altro. Tate prova ora a sovrapporre la registrazione di una delle interviste raccolte fra i veterani di guerra a una composizione dal taglio più heavy: la musica passa totalmente in secondo piano e un ritornello che più asettico non si può porta dolorosamente a termine questo sciagurato tentativo di suicidio artistico. ‘Hundred Miles Stare’ si annuncia come il brano della provvidenza: non un capolavoro, ma senz’altro un buon pezzo, forte di un bridge avvolgente e di un refrain finalmente incisivo. Con ‘At 30 Thousand Ft’ si cominciano a definire con maggiore precisione le coordinate generali del disco. A livello di stile, i punti di riferimento maggiormente prossimi possono fin qui rintracciarsi in dischi come ‘Hear In The Now Frontier’ e ‘Q2K’, in un ideale incontro di influenze grunge, bluesy e hard rock alle quali presto si aggiungerà un tocco di psichedelia. L’enfasi è tutta sulle linee vocali di Tate, che profonde ogni sforzo nel tentativo di infondere calore e spessore nella propria interpretazione. Il timbro non può ragionevolmente essere quello di una volta, e per questo il buon Geoff ricorre volentieri all’ausilio di cori e backing vocals assortite: complessivamente la sua prova pare una delle migliori sentite negli ultimi dischi da studio. Il drumming di Rockenfield tenta a più riprese di conferire dinamicità ai pezzi, ma soffre un modus componendi piuttosto lineare e alla lunga prevedibile. A deludere però sono soprattutto le chitarre, spesso in sordina, fiacche nei suoni, capaci di riscattarsi solo parzialmente con alcuni interventi solistici ben confezionati. L’altro problema esiziale resta quello del songwriting: troppi i brani che si spengono senza lasciare il segno, troppe le occasioni in cui uno spunto interessante resta isolato, senza trovare il terreno adatto a svilupparsi. Tardivo giunge l’intervento del sassofono nel finale di ‘A Dead Man’s Word’, che non riesce a valorizzare un riffing dal buon potenziale; improduttive le reminiscenze psichedeliche (cui s’accennava poc’anzi) della soporifera ‘Middle Of Hell’. I tentativi da parte delle chitarre di incattivirsi stentano a trovare continuità: ‘The Killer’ affossa una sezione mediana promettente nella ripetitività della struttura base, ‘Man Down!’ vede un Tate impegnato nel suo massimo sforzo interpretativo soverchiare involontariamente linee strumentali una volta tanto grintose. Da parte sua il singolo ‘If I Were King’, a conti fatti uno dei pezzi meno lineari del lotto, ripropone stralci di interviste che interferiscono in modo inopportuno con il continuum musicale. Il medesimo inconveniente tornerà a tratti nella ballad ‘Remember Me’, dotata peraltro di un ritornello molto orecchiabile, a dimostrazione del fatto che dopotutto fra Tate e la melodia c’è ancora speranza di trovare un’intesa. Magari un’intesa che non suoni patetica, come nel caso della (troppo) retorica ‘Home Again’, salmastro conato psichedelico in cui trova spazio al microfono anche la giovane Emily Tate. Il compito di chiudere i giochi tocca a ‘The Voice’, che tenta il colpo a sorpresa con un inatteso arrangiamento sinfonico, senza però riuscire a staccarsi dal livello medio(cre) dell’album.

La decima prova da studio dei Queensrÿche non scioglie i dubbi circa la posizione della band nel panorama musicale odierno. Sul lungo periodo ‘American Soldier’ si rivela un disco mal bilanciato, in cui la componente concettuale sovrasta a più riprese quella musicale in senso stretto, avara di autentiche novità nonché arida dal punto di vista emotivo. Se l’intento di Tate e soci era quello di montare un documentario musicale capace di porre attenzione sulla testimonianza di chi la guerra l’ha vista, vissuta e combattuta in prima persona, ad ‘American Soldier’ va senz’altro riconosciuto un impegno apprezzabile. Se invece l’intento era quello di comporre un buon disco, il metodo di lavoro appare quantomeno inadeguato. Il peso e l’attualità delle tematiche non possono compensare un songwriting opaco, spento, che anche nella relativa ampiezza di influenze stenta a modellare un sound sufficientemente versatile e dinamico. Nemmeno a distanza di settimane l’album trova grazie nascoste da rivelare, ma anzi si chiude sempre più su se stesso, riportando all’ordine del giorno il discutibile stato di forma del combo di Seattle. L’assenza di De Garmo non può più valere da giustificazione – se mai lo è stata: dalla band che nel 1988 riuscì a coniare una sintesi di musica e concetto ai confini della perfezione è imperativo chiedere di più. E in tempi possibilmente brevi, poiché presto potrebbe diventare troppo tardi.

Riccardo Angelini

Tracklist:
1. Sliver
2. Unafraid
3. Hundred Mile Stare
4. At 30,000 Ft.
5. A Dead Man’s Words
6. The Killer
7. Middle Of Hell
8. If I Were King
9. Man Down!
10. Remember Me
11. Home Again
12. The Voice

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