Recensione: Ancient Breath of Forgotten Misanthropy

Di Daniele D'Adamo - 25 Dicembre 2020 - 0:30
Ancient Breath of Forgotten Misanthropy
Band: Dira Mortis
Etichetta: Selfmadegod Records
Genere: Death 
Anno: 2020
Nazione:
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Dalla Polonia arrivano i Dira Mortis con il loro terzo full-length, “Ancient Breath of Forgotten Misanthropy”.

Il genere è quello più popolare nel Paese, e cioè il death metal. Nulla di strano, sin qui. Sussiste tuttavia un’anomalia, se non la si vuole proprio chiamare novità. La band non c’entra nulla, come stile, a quelli dei più blasonati Vader, Behemoth, Hate e compagnia cantante. Sì, perché il disco rappresenta la summa di un perfetto inquinamento doomoso del death di base. Il che non è insolito per una risma di act statunitensi ma, per le terre polacche, può essere visto come un’interessante singolarità.

Detto questo, a questo punto occorre osservare lo stile dei Nostri in maniera assoluta e non relativa, basandosi su modelli noti e stranoti come quelli appena menzionati. Uno stile volutamente rozzo e primordiale, dai toni cupi, gelidi, bui. Le chitarre di Mścisław e Leszek Makowiecki, infatti, che determinano in primis detta foggia musicale, cuciono tonnellate di riff involuti, tenebrosi, tenuti assieme da assoli tetri, oscuri. Un tappeto nero che nasconde un abisso di dimensioni enormi, non misurabili con Cartesio poiché esistono soltanto nella mente.

Abisso le cui pareti rocciose sono rinforzate nella statica dalla tentacolare batteria Vizun. Potente, massiccia, ricca di cambi di tempo, dagli slow tempo sino ai blast-beats, interpretata anch’essa con un approccio primordiale; determinante per dettare i tempi di un ritmo convulso, chiuso in se stesso, annichilente. Lo stesso Mścisław propone linee di basso che si confondono nel gorgo di note che, come un gigantesco maelström, vengono ingoiate nell’orrida oscurità. Accompagnate, nel loro funereo viaggio, dal roco growling di Kuba Brewczynski, dannatamente sulfureo nell’emanazione di termini inintelligibili ma intuibili nella loro negatività, nella loro leadership di un suono lisergico, da incubo.

A parte l’opener-track ‘Legions Heading for Eternity’ e la closing-track ‘The Altars Fall’, i brani scorrono per una lunghezza media di tutto rispetto, dai sei a nove minuti, giusto per dare un tocco di doom anche sotto questo specifico aspetto. Fra di esse non si può non notare la suite ‘Worshipping the Terror of Madness’ che, sin da subito, mostra l’anima del combo di Gorlice. Un’anima inquieta, ansiosa, che dimostra il suo stato di agitazione mediante ripetute, insistite variazioni dei BPM. In mezzo a questo guazzabuglio di accordi, battute, dissonanze, improvvise nonché violentissime accelerazioni e poi decelerazioni e così via in un perpetuo rimescolamento della forma-canzone, l’ascoltatore trova terreno ideale per cominciare la sua discesa verso gli Inferi, che seguono l’andamento altimetrico dell’abisso più su citato. Tombe, sepolcri, resti umani, vestigia di abomini remoti e infine ragnatele si dipanano di fronte agli immaginari occhi del coraggioso viaggiatore; immerso costantemente nell’inconfondibile, tremendo odore di morte, di irrespirabile putrefazione, di repellente marciume.

Una visionarietà davvero potente, che rende merito a un sound non originale, certo, ma sicuramente ben costruito alla bisogna.

Il problema, se così si può dire, è che le song sono talmente simili fra loro da risultare sostanzialmente uguali, anche dopo numerosi e insistiti passaggi del platter negli speaker. Come se in realtà il disco fosse composto da una sola traccia, suddivisa in sette episodi concatenati fra loro. Un difetto che, appunto, a seconda dei punti di vista, può essere interpretato come un pregio, nel senso che al variare dei pezzi non varia nel modo più assoluto lo stile. A parere di scrive, invece, sarebbe stato opportuno marcare con più decisione gli ambiti di appartenenza di ciascun episodio. Giusto per donare più longevità all’LP. Così non è, e quindi aumenta esponenzialmente il rischio-noia, a mano a mano che passano i minuti.

L’idea dei Dira Mortis non è male, poiché regala, sempre e comunque, della carne in putrefazione da addentare. Nondimeno, “Ancient Breath of Forgotten Misanthropy” è un’opera troppo limitata nella sua intrinseca variabilità.

Solo per seguaci dell’arcigno mietitore.

Daniele “dani66” D’Adamo

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