Recensione: Architecture of a God

Di Marco Donè - 13 Aprile 2017 - 0:28
Architecture of a God
Band: Labyrinth
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2017
Nazione:
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80

Finalmente! Un’esclamazione che esce così, con impeto, quando ci ritroviamo a stringere tra le mani Architecture of a God, ottava prova sulla lunga distanza dei toscani Labÿrinth. Una formazione che non ha sicuramente bisogno di presentazioni. Uno dei nomi di punta della scena italiana, e non solo, che, senza un vero perché, forse solo per sfortuna, o per delle combinazioni astrologiche sfavorevoli, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe dovuto e potuto. Sette anni sono passati da Return to Heaven Denied Pt. II – “A Midnight Autumn’s Dream”, sette anni di cambiamenti che, allo stesso tempo, hanno creato aspettative e paure tra i fan.

 

Come dicevamo, molti sono i cambiamenti avvenuti in seno alla band che, in questo 2017, si presenta con una lineup rivoluzionata e un nuovo deal discografico. Elementi da cui il sestetto toscano sembra aver tratto nuovi stimoli e, come già evidenziato nel nostro track by track, estrae dal cilindro un’ispirazione che da tempo non incontravamo in un lavoro griffato Labÿrinth.

 

Entrando nel dettaglio, Architecture of a God è un album che trova particolari punti di contatto con dischi come Sons of Thunder e l’omonimo Labyrinth, ripescando, in alcuni passaggi, quelle atmosfere magiche di Return to Heaven Denied. Come se i “nuovi” Labÿrinth guardassero al passato della propria discografia, a quel periodo che va da fine anni Novanta a inizio Duemila, il tutto, ovviamente, riletto con la maturità e l’esperienza accumulata nel corso degli anni. In Architecture of a God il marchio Labÿrinth è vivo ed evidentissimo. Un disco che si erge attorno a delle trame chitarristiche ricercate e articolate e, allo stesso tempo, melodiche e originali, ben interpretate dal duo Cantarelli-Thörsen. Due asce che non temono il confronto con nessuno. Ad arricchire il loro lavoro ci pensa il talentuoso neo acquisto Oleg Smirnoff, il cui operato alle tastiere si rivela un assoluto valore aggiunto nell’economia del platter. Un musicista vero, capace di mettere in evidenza la propria personalità senza snaturare il Labÿrinth sound. A valorizzare quanto messo in mostra da chitarre e tastiere, ci pensa una sezione ritmica rinnovata, composta da un’autentica garanzia come John Macaluso alla batteria e Nick Mazzuconi al basso. Una sezione ritmica al servizio della struttura canzone ma che, quando le viene data la possibilità e lo spazio, inserisce dei passaggi che evidenziano le doti dei due interpreti, aumentando il fascino, la bellezza delle composizioni. Su questo curato ed elegante tappeto sonoro si staglia la splendida voce di un Tiranti in forma strepitosa. Se le sue doti tecniche non sono mai state messe in discussione, nella nuova fatica risulta avvincente e in grado di “dialogare” con il lato più emotivo dell’ascoltatore, come da tempo non gli sentivamo fare.

 

Architecture of a God è, forse, il disco più maturo fin qui prodotto dai Labÿrinth, a tutti gli effetti una band che sa cosa vuole e come metterlo in pratica. È anche un album che richiede più ascolti per essere compreso e assimilato. Sebbene, infatti, compaiano tracce veloci come Bullets, Stardust and Ashes o la violenta Take on my Legacy, vere e proprie stoccate in grado di restare impresse sin da subito, per poi svelare piano piano nuovi elementi, il lavoro si muove su atmosfere e dinamiche più “adulte”. Meno aggressività e maggiore attenzione nei confronti di melodia ed emozioni. Spiccano quindi canzoni come Someone Says, che nella dimensione live farà sicuramente la differenza, l’elegante Still Alive, il cui titolo sembra voler lanciare un messaggio, come se i Labÿrinth volessero sottolineare che, nonostante tutte le difficoltà, sono ancora qui, pronti a dire la loro. Senza dimenticare We Belong to Yesterday, canzone caratterizzata da un altro titolo significativo e che si rivela melodica e malinconica allo stesso tempo. Una traccia che sembra possedere una certa rilevanza all’interno di Architecture of a God, dato che il suo fraseggio di chitarra compare come sottofondo in altre composizioni. Lo incontriamo, infatti, anche nell’articolata title track, sicuramente la canzone che richiederà più ascolti per essere assimilata, e nella semiballad Those Days. Ovvero in quella parte di disco in cui i Labÿrinth sembrano voler creare un contatto con il lato più emotivo dell’ascoltatore. Proprio in questa direzione, la scelta di inserire Children, rilettura in chiave Labÿrinth del successo trance composto da Robert Miles negli anni Novanta, oltre che riportare in vita una tradizione dei primi album della band e creare continuità con la “riscoperta” del proprio passato, sembra quantomai azzeccata. Children si rivelerà uno degli assoluti higlight del platter.

 

Architecture of a God è un disco che non deluderà i fan della band toscana, un lavoro che, come accennato in precedenza, non presenterà l’irruenza degli esordi, quella di Return to Heaven Denied per intenderci, ma risulta più attento ai particolari, all’eleganza dei passaggi, allo spessore emotivo di ogni capitolo di cui è composto. Sensazioni positive o malinconiche che siano. Un album ispirato, di qualità elevata, il cui unico neo risulta essere la già citata semiballad Those Days, una traccia che non riesce a ricreare e trasmettere quelle emozioni che il resto del platter dà. Architecture of a God può essere definito come la sintesi di Sons of Thunder e Labyrinth, un disco attraverso cui i Labÿrinth, fregandosene delle leggi di mercato, hanno deciso di tornare solamente quando il materiale composto avesse rispecchiato le aspettative della band. Non un lavoro per colmare un vuoto, ma un album che avesse realmente qualcosa da dire, da trasmettere. L’obiettivo è stato centrato. Bentornati Labÿrinth, non potete immaginare quanto abbiamo sentito la vostra mancanza.

 

Marco Donè

 

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