Recensione: Ascension

Dalla fine degli anni Ottanta a oggi, da ‘Gothic‘ (Peaceville, 1991) – che nell’underground metal tracciò un solco indelebile, rappresentando un vero e proprio turning point, e diede il via al sottogenere gothic metal (d’accordo, insieme a altri…) – ispirando diversi artisti, nonché contribuendo alla nascita di band come i Katatonia, passando attraverso pietre miliari del genere quali ‘Icon‘ (Music For Nations, 1993) e ‘Draconian Times‘ (Music For Nations, 1995), fino a quell’altro capolavoro di oscurità che è ‘Obsidian‘ (Nuclear Blast, 2020), il quintetto originario di Halifax ritorna con l’attesissimo ‘Ascension‘ (Nuclear Blast, 2025).
‘Ascension‘ è un disco che, se da un lato “rassicura” perché riconferma il canone che Holmes & Soci portano avanti, con alterne vicende, da oltre trent’anni, dall’altro è frutto delle costanti sperimentazioni della band, le stesse per cui, ad un certo punto, i puristi del metal si sono agitati e allontanati, storcendo il naso di fronte a lavori come ‘Host‘ (EMI, 1999), l’album più controverso della carriera dei Paradise Lost, dove l’immissione di sonorità electro aveva incorporato nel discorso musicale suggestioni darkwave/synth pop che dagli echi dei Sisters of Mercy li spostava drasticamente ai riverberi dei Depeche Mode. Suggestioni che, solo a brevissimi sprazzi, appena accennate, ricompariranno in un lavoro che è la prosecuzione ideale di ‘Obsidian‘: il full-length di prossima uscita…
D’altro canto, già dai primi anni Duemila, dopo la parentesi più spiccatamente elettronica che produsse una crisi all’interno della band, complici anche i problemi personali di Nick Holmes e Greg Mackintosh, i Paradise Lost si rimettono sulla strada del doom / gothic con “l’album di compromesso”, come si legge nella biografia di David E. Gehlke (No Celebration, Tsunami, 2019) che è ‘Believe in Nothing‘ (EMI, 2001), il testimone di una composizione nella quale ritornano le chitarre ma ancora non se ne va la drum machine e che, a causa della sua confusione stilistica, viene affossato dalla critica musicale.
Sarà necessario quasi un quinquennio perché la band recuperi, almeno in parte, il flavour che ne aveva fatto gli dei dell’oscuro olimpo gothic. E questo avviene da quando le chitarre pesanti e la batteria dimostrano di essersi riprese la scena e le tastiere servono a creare l’atmosfera dark e malinconica ma non dominano più. Da ‘In Requiem‘ (Century Media, 2007) in poi, infatti, ritornano anche i fan della prima ora e i Paradise Lost recuperano definitivamente fiducia nella loro creatività.
Prodotto da Greg Mackintosh nei Black Planet Studios dell’East Yorkshire (la loro contea d’origine), ‘Ascension‘ è un LP composto da dieci tracce nelle quali il gothic doom va a braccetto con l’heavy metal e spalanca visioni al contempo affilate, malinconiche e maestose nella loro cupa aderenza a ciò che l’illusorietà della vita umana comprende: una parabola esistenziale che ben rappresenta la loro esperienza artistica, fatta di salite e discese.
Il riff doom di Serpent On The Cross che scivola nel metal più genuino, l’atmosfera stregata delle chitarre in Tyrant’s Serenade, il gothic di Silence Like The Grave, le profonde malinconie introdotte dal pianoforte in The Precipice, tutto in ‘Ascension‘ è una sorta di “volo di Icaro”, una storia che sfocia nella consapevolezza che – Lay A Wreath Upon The World con la sua chitarra acustica in apertura, una voce femminile che irrompe e, come più tardi l’assolo di chitarra elettrica, scatena più di qualche brivido, lo mostra inequivocabilmente – per quanto si tenda all’elevazione, ad attenderci c’è solo la Morte.
‘Ascension‘ è un album denso di meditazioni sul filo della follia, un lavoro che raccoglie e armonizza esperienze eterogenee ma riconferma un’identità gothic metal lapidaria e, forse, paradossalmente, per la band e per chi, come me, non ha mai smesso di apprezzarli e li vedrà live a fine ottobre insieme ai Messa, un “paradiso ritrovato”.