Recensione: Beast

Di Emanuele Calderone - 27 Marzo 2011 - 0:00
Beast

Americani, giovani e dediti, neanche a dirlo, al death metal moderno fortemente influenzato dal metalcore. Chi sono? I Devildriver.
La storia della band ha inizio nel non troppo lontano 2002 a Santa Barbara, California, in seguito all’incontro di cinque musicisti della zona, che decidono di dare vita a un progetto, ennesimo, metalcore.
Guadagnato un contratto nientemeno che con una major come la Roadrunner, il quintetto comincia dunque a produrre dischi con scadenza biennale, ultimo dei quali è “Beast”, uscito in questo inizio 2011 per la potente casa discografica.

“Beast” è uno di quei lavori che lascia interdetti: questo è infatti uno di quegli album che pur non essendo sgradevole e malriuscito, rischia di cadere nel dimenticatoio dopo pochi ascolti.
Il problema è in primis la proposta: troppe sono ormai le realtà che uniscono death metal melodico a sonorità vicine al metalcore senza però dire nulla di nuovo. Essenzialmente questo è il più grosso difetto di questa uscita, nonostante i nostri cerchino di rendere il tutto orecchiabile e accattivante.
Le chitarre della coppia Spreitzer/Kendrick disegnano riff talvolta poco incisivi, che si stampano in testa per il tempo d’ascolto della canzone, per poi essere scordati subito dopo. Gli assoli, per quanto eseguiti con invidiabile perizia tecnica, non riescono sempre ad integrarsi con le tracce e ad abbellire le stesse.
La sezione ritmica, allo stesso modo, se da un lato si fa lodare per l’immensa precisione di Miller al basso e di Boecklin (quest’ultimo autore di una prova magistrale, forse colui che offre la prestazione migliore), dall’altro sembra poco varia, attestandosi sempre sugli stessi tempi.
Bradley “Dez” Fafara al microfono spazia tra aggressivi growl e ben più rari scream, che conferiscono maggiore cattiveria alle canzoni, sebbene sia comunque un cantato, il suo, piuttosto canonico per il genere.
Ma veniamo a parlare dell’aspetto più rilevante del disco: i brani. Ciascuno dei dodici episodi ivi contenuti appare strutturalmente semplice, composto per essere di impatto (almeno sul momento) e al contempo facilmente assimilabile, comprensibile. Le melodie sono di facile presa e in generale non si nota un eccessivo ricorso a qualsivoglia virtuosismo, al di là delle sei corde, che si lanciano di tanto in tanto in lunghi assoli sparati a velocità considerevoli. Nonostante la ricerca di architetture lineari,  il ricorso alla classica alternanza strofa-ritornello spesso manca.

La tracklist si muove tra luci ed ombre, alternando, specialmente nel finale, pezzi di fattura migliore ad altri decisamente più stanchi e privi di mordente. La prima parte del cd sembra che stenti a decollare, non riuscendo a colpire come sperato: canzoni quali “Hardened”, “Shitlist”, “You Make me Sick”, piuttosto che l’iniziale “Dead to Rights” si sviluppano attorno ad un numero piuttosto esiguo di idee, sfruttate per di più non nel migliore dei modi. Tutto suona piatto e fiacco, dimostrandosi incapace ad arrivare veramente al pubblico.
A risollevare le sorti ci pensano però “Black Soul Choir”, bellissima nel suo incedere impetuoso ma allo stesso tempo elegante, o ancora “Bring the Fight (to the Floor)” moderna e violenta ma mai scontata o noiosa. Niente male anche “Lend myself to the Night”, che smorza un poco i ritmi serrati che hanno assalito selvaggiamente l’audience fino a questo punto.

Nulla da eccepire, come è logico che sia, per tutti quegli aspetti più tecnici del disco. Oltre alla già citata prestazione perfetta del combo, a lasciarsi lodare sono i suoni: volumi e pulizia di questi ultimi sono ai massimi livelli, permettendo di godere di una qualità audio eccezionale. Tutto ciò grazie anche al lavoro svolto in fase di produzione da Mark Lewis (già produttore di Trivium e All that Remains) e del mixing ad opera di Andy Sneap (al mixer con Opeth, Killswitch Engage, Cradle of Filth, Kreator, Megadeth e moltissimi altri nomi).

Tirando le somme, “Beast” è un disco che probabilmente renderà felice i fan del deathcore con venature melodiche, grazie a qualche buona idea e a quel suo uniformarsi con la scena. Dovendo però valutare il platter in un’ottica più ampia, un giudizio che vada poco oltre la sufficienza è impensabile a parere di chi scrive. In attesa che i Devildriver decidano di tornare a pestare forte come in passato, per ora non ci rimane che constatare come quest’ultimo nato non arrivi alle vette qualitative dei tempi che furono.

Emanuele Calderone

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Tracklist:
01- Dead to Rights
02- Bring the Fight (To the Floor)
03- Hardened
04- Shitlist
05- Talons Out (Teeth Shaprened)
06- You Make me Seek
07- Cold Blooded
08- Blur
09- The Blame Game
10- Black Soul Choir
11- Crowns of Creation
12- Lend myself to the Night