Recensione: Below The Lights

Di Tiziano Marasco - 18 Marzo 2013 - 8:04
Below The Lights
Band: Enslaved
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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85

2003 – fine della mutazione. Quella degli Enslaved, partita dall’addio al viking canonico con la forgiatura di Eld e magnificamente portata a termine nella perfetta amalgama black progressive di Below the lights. Cammino accidentato, irregolare ed incerto tra vari esperimenti sonori, coronato però infine dalla nascita di quel tipico Enslaved-sound che avrebbe marchiato le successive produzioni.

Due gli elementi che determinano questo ulteriore, abissale balzo in avanti dei norvegesi. Da un lato una produzione finalmente d’alto bordo, contraddistinta da una cura in grado di far degnamente risaltare un sound oramai stratificato e di plurime influenze. Lo staff tecnico è sempre quello, vale a dire Pytten, Træen, Bertolini e Larsen, che purtuttavia l’anno successivo avrebbe preso definitivo controllo di cori e tastiere, passando in pianta stabile nel gruppo vero e proprio.

A cosa sia dovuto un tale repentino e vertiginoso cambio è difficile dirlo.

Sicuramente da un lato ai nostri non erano passati inosservati dischi di rottura quali Puritanical Euphoric Mysantropia o Neonism, dove missaggio e produzione avevano giocato un ruolo molto più pesante rispetto al black classico. Ma forse va ricordata l’evoluzione dei Borknagar, che in quegli anni gettavano in pasto al mondo Quintessence ed Empiricism,  dischi in cui finalmente la componente prog e psychedelica s’imponeva impavida e perentoria a fianco – non più alle spalle – di quella vichinga.

D’altra parte bisogna dire anche che gli esiti fangosi di Mardraum o Monumension lasciavano intuire che la proposta del gruppo andasse supportata oramai in ben altro modo. Dall’altro lato si segnala l’assunzione di un nuovo chitarrista, tale Arve Isdal ai più noto come Ice dale. Ed anche qui gli effetti si sentono eccome. Perché Below the lights, signori, è un disco molto più leggero dei suoi predecessori, costruito su riff rapidi ed assassini, che tengono alta l’attenzione e con essa la voglia di movimento.

Lo si capisce sin dai primi secondi di As fire swept clean the earth, opener ferocissima in pieno stile Enslaved: giocata su un giro di chitarra violento e micidiale su cui poco a poco se ne inserisce un secondo, forse più etereo, forse nascosto, eppure anch’esso catchy come mai era successo. Su tutto il marchio di fabbrica vocale di Grutle Kjellson, che ancora passa dal growl furibondo al clean più ispirato, assecondando le due facce della canzone, veloce eppure condita da estemporanei rallentamenti.  Stesso ragionamento si può fare per il viaggio psichedelico di The dead stare, marcia a tappe forzate di chiara impostazione black zeppelin, se mai si sentì qualcosa di simile.

Il discorso cambia in modo anche più profondo con The crossing, e mai titolo fu più azzeccato: in questi nove minuti i nostri tornano indietro di trent’anni e, senza minima vergogna, ci presentano una supersuite di progressive rock atmosferico, lento, ispirato, eppure tenuto in piedi da solide chitarre black. I ritmi cambiano spesso, Kjellson preferisce il clean. Sembra, in buona sostanza di trovarsi innanzi ad una band che per uno strano caso del destino è rimasta innamorata di Starless and bible black e poi lo ha mischiato a Monumension, con effetti ancora una volta inauditi, in senso stretto ed in senso lato!

E teniamo conto del fatto che il tutto è solo una preparazione per una canzone come Queen of the night, brano che, con la sua apertura di flauti e chitarre bucoliche deve aver fatto saltare le coronarie a più d’un purista. Ed alle volte ci si trova a desiderare d’essere nati in Norvegia nel 1980 solo per poter assistere in quel 2003 alle facce basite dei true blackster d’allora (quelli che 10 anni prima bruciavan le chiese) all’ascolto di questa canzone. Una canzone che portava avanti la poetica distruttiva del black andando in senso opposto, ovvero scardinando le gerarchie di un sound ruvido e sgradevole con l’inserimento di un flautino. Queen of the night comunque nei minuti successivi riprende progressivamente il consueto corso della furia più nera e malata. Lascia infine il passo ai cori vichinghi (in norvegese) della trucida Havenless, e alle suggestive tastiere di Ridicule Swarm, marziale e con un’atmosfera pregna di tensione.

Ridicule Swarm è un ennesimo e deciso highlight. Un highlight che si snoda essenzialmente su un unico riff di chitarre, non martellante, ma comunque inarrestabile. A chiudere si piomba in A darker place, nella quale i nostri si fanno un viaggetto sul lato oscuro della luna e ci presentano la band che spesso e volentieri farà loro da guida nelle imprese future – Isa in primi, Vertebrae in secundis.

Insomma, ne viene fuori indiscutibilmente un disco dai molti toni e dalle molte influenze.

Un disco che molti hanno criticato come non finito, vale a dire una strana jam session registrata in presa diretta e poi sistemata a livello di produzione ma non coronata da altrettanta perizia per quanto riguarda il songwriting. Ciò è parzialmente vero eppure dona a Below the lights un carattere unico.

Ma va anche detto che, per la prima volta in tanti anni, un disco degli Enslaved scorre finalmente fluido e senza pecche come era accaduto a Monumension, ma nemmeno sonoramente piatto come Mardraum o Eld. E cosa strana, non osante gli innumerevoli cambi di ritmo, forse grazie alle chitarre di Isdal, Below the light pare, non ostante tutto, un disco con un suono omogeneo e caratteristico, compatto, convincente senza riserve. Gilmour visitò i sogni di Bjørnson, Waters quelli di Kjellson e da quel 2003 i due norvegesi ebbero chiara (almeno fino a Riitiir) la strada da prendere, facendo così di un’eterna promessa di nome Enslaved una delle band guida della scena estrema del continente antico.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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