Recensione: Blackshift
«Il nostro pianeta è un granello solitario nel grande e avvolgente buio cosmico. Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c’è traccia che un aiuto arriverà da altrove per salvarci da noi stessi»
[Carl Sagan, “Pale Blue Dot: A Vision of the Human Future in Space“, 1994]
Selezionando dalle biblioteche terrestri quest’immagine cosmologica sconvolgente, si possono introdurre i Ghostheart Nebula e il loro secondo full-length, “Blackshift“. A sottolineare la loro fascinazione per le stelle, difatti, ci pensa l’intro ambient “VdB 141 IC 1805“, cioè la somma dei nomi delle nebulose VdB 141 e IC 1805, quest’ultima nota anche come Nebulosa Cuore.
Intro che manifesta sin da subito una sorta di paura soffusa per tutto ciò che riguarda l’immensità dell’Universo, come se questi fosse una sorta di mostro ancestrale, divoratore di mondi. Così non è, ovviamente, ma la sensazione che si prova ascoltando il morbido ritmo di “Sunya” è quella di una disperata e attenta ricerca di risposte a domande che da sempre angosciano l’Umanità.
Così, la splendida fusione del growling di Maurizio Caverzan alla celestiale voce di Lucia Amelia Emmanueli è l’ideale, per immergersi nelle pieghe dello Spazio profondo. Proiettati lì dai fulminei blast-beats di Panta Leo e da una potenza a volte assolutamente devastante.
Sì. Blast-beats. Un’anomalia, se si segue pedissequamente la definizione della meravigliosa musica del progetto meneghino: cosmic doom metal. Tuttavia, un nome o un altro per tentare di ingabbiare la libertà di volare fra le note in poche parole è uno sforzo vano: ciò che interessa è proprio e solo la musica. Che, in “Blackshift“, mostra una varietà di sfumature impressionanti. Come detto, si trascende da istanti in cui la velocità di esecuzione è prossima a quella della luce, a rarefatte atmosfere in cui si può sognare (“The Opal Tide“).
Sognare di attraversare distanze siderali potendo osservare miliardi di astri, intenti nei loro giganteschi moti permanenti. Una visione attivata in maniera estrema dalle splendide armonie che pervadono il disco. Ma la realtà è molto più scarna, semplice e vuota, il che induce i Ghostheart Nebula a trapassare emozioni molto intense, vivide, che declinano in una profonda malinconia. Violento singulto che attiva la capacità percettiva del pensiero, orientandolo verso un umore cupo, nostalgico, segnato dalla sofferenza di non poter raggiungere nessuna delle stelle che riempiono il cielo.
Tant’è che, come in “Naught, I“, ove esplode il basso di Bolthorn, l’interpretazione di Caverzan si fa disperata, passando dal soffuso growling che la caratterizza alle harsh vocals, esattamente come accade nel depressive black metal. La parte centrale della canzone è semplicemente immensa, nella maestosità di uno stile che non conosce confini. Allora, gli occhi si chiudono e la mente viene accarezzata dalle onde gravitazionali generate dallo scontro, chissà dove, di buchi neri dall’energia senza fine. Onde che paiono fermarsi per un battito di ciglia al fine suggerire ai Nostri quale direzione intraprendere.
La quale potrebbe essere proprio quella delle nebulose citate all’inizio. Entro cui, sicuramente, esiste un posto, un luogo, una luna, in cui l’anima si rifugia per potenziare la sua capacità onirica. Amplificata, pure, dagli intarsi incommensurabilmente melodici che si colgono in capolavori quali la tritle-track oppure la doomosa, su questo non c’è dubbio, “Traces“. Resa teneramente lisergica dalla bravura della Emmanueli, capace di trasmettere brividi sia caldi, sia freddi a seconda di cosa sussurrino le galassie.
Si è accennato a qualche brano in particolare ma a questo punto è chiaro che brillino tutti come costellazioni, cangianti nella loro diversità nella diversità. Diversità singola, giacché ciascuno di essi è un’entità che vive di vita propria, manifestando una ridda di segmenti obbedienti allo stile generale manifestato così tanto bene da Caverzan e compagni. Diversità globale, nel senso che ciascuna traccia contribuisce in modo univoco a costruire l’LP. Il che regala a chi ascolta una marea quasi soffocante di musica costantemente mutevole nello spazio e nel tempo.
Alla fine non c’è dubbio. Non serve essere appassionati di questa o di quell’altra foggia artistica: “Blackshift“, per i suoi innumerevoli contenuti che a volte sfiorano l’ambient, è come un’atmosfera adatta al respiro di tutti gli abitanti della Terra. Certamente, tuttavia, per i fan degli album che gonfiano il cuore, è al contrario imperdibile e dolce naufragare nel culmine del turbamento scatenato dalla bravura senza fine dei Ghostheart Nebula.
Daniele “dani66” D’Adamo