Recensione: Bring The Meat Back

Di Stefano Burini - 26 Marzo 2013 - 0:01
Bring The Meat Back
Band: Juggernaught
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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74

I sudafricani Juggernaught (Herman Le Roux e Jovan Tutunovic ai microfoni e alle infuocate chitarre, Angilo Boobyman Wijnbergen al basso e Alexis Schofield alla batteria) nascono a Pretoria nel 2008 e giungono al debutto sulla lunga distanza l’anno successivo con “Act Of The Goat”.

L’obiettivo, quasi sempre centrato, del quartetto è la fusione di atmosfere, vocalità e attitudine tipiche del southern rock di marca ZZ Top (con qualche eccesso testosteronico, vedasi il ritornello, non propriamente oxfordiano, di “Bootycall”) con un comparto strumentale inusualmente ricercato che non disdegna qualche “fuoripista” nei territori del jazz e del funk. In effetti il rifferama e le ritmiche, ma anche il lavoro di basso e gli assoli di chitarra, sono decisamente meno scontati di quanto preventivabile e se ne possono notare degli ottimi esempi già nella rovente opener “Bad Idea” o nella successiva, più blues-oriented, “Train”, per quanto si tratti di una costante propria dell’intero album.

Proseguendo nell’ascolto e incrociando “The Storm”, con le sue atmosfere da western vecchio stile, o la scorrevole “Beef Or Chicken”, risulta quanto mai arduo credere che questi quattro ragazzi provengano dal Continente Nero e non dal sud degli Stati Uniti, tale e tanta è l’aderenza ad un immaginario sonoro e ad un’attitudine davvero inconfondibili.

“Back Door Woman” e la title track si rifanno, di nuovo, agli stilemi del blues e del rock ‘n’ roll, la prima rivisitandoli in chiave più “sudista” e anabolizzata, la seconda tirando fuori dalle due asce riffoni rotolanti sulle cadenze dell’hard blues più pigro e indolente e un vocalismo che definire al vetriolo sarebbe un eufemismo.

“Bootycall” mette in bella mostra un incipit retto dal percussionismo di estrazione latin jazz di Alexis Schofield per poi scatenarsi all’insegna di un southern rock divertente e irresistibile, mentre la piacevole “One Of Them Days” prosegue a suon di chitarre scazzate e sferraglianti, alticcia e ciondolante come una canzone “intonata” in gruppo dopo un pranzo a base di carne alla brace ed ettoliti di birra, con il plus di una coda strumentale a mò di jam session decisamente gustosa.

Forse solo nella fin troppo parodistica “Wors”, preceduta dalla brevissima e tutto sommato inutile “Follow The Scent Of The Musky Brisket”, i Juggernaught perdono quell’attimo la bussola travalicando il confine tra ironia e farsa e dando vita ad un brano per molti versi non troppo distante dal mood generale di “Bring The Meat Back” nel quale, tuttavia, il differente dosaggio degli ingredienti sbilancia un po’ il risultato finale.

La chiusura è affidata alla verve metallica e rugginosa della più che buona “Paint It Brown”, degna conclusione di un album lontano da livelli di eccellenza, sia dal punto di vista della forma sia dei contenuti, eppure piacevole ed interessante, suonato e composto da musicisti capaci e non privo di guizzi di genio.

Non si tratta, forse, di un lavoro per tutti, data la particolare mistura di linguaggi e componenti attitudinali piuttosto differenti tra loro, tuttavia i pregi superano i difetti e per gli amanti dell’hard/southern rock più goliardico e irriverente “Bring The Meat Back” potrebbe rivelarsi una piacevole sorpresa.

Stefano Burini

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