Recensione: Chinese Democracy

Di Fabio Vellata - 23 Novembre 2008 - 0:00
Chinese Democracy
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Anno: 2008
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71


Possiamo girarci attorno. Possiamo far finta di nulla, chiudere gli occhi e fingere che non stia accadendo alcunché.
Possiamo credere che, quello che sta avvenendo nel mondo della musica in questi giorni sia qualcosa di assolutamente marginale e senza importanza.
Tuttavia, è opportuno cercare di dare riscontro ad una precisa domanda, con onesta sincerità.
Qual è l’album che, più di tutti, negli ultimi quindici anni è stato atteso, chiacchierato, annunciato, rimandato e mitizzato in ambito rock, ma non solo? Qual è il disco di cui tutti conoscevano il nome ed alcuni stralci, ma che sembrava destinato a divenire affare mitologico e fantasioso, al pari dello Yeti, del mostro di Lochness e dell’area 51?

La risposta l’avete trovata da soli e se non l’avete trovata, beh, leggete il titolo di questa recensione…
Già, perché come riportato qualche giorno fa da un importante quotidiano nazionale, la cosa è grossa. Miracolo, tornano i Guns n’Roses, era il titolo.
Roba da far tremare le gambe, da sconvolgere le charts di tutto il globo ma soprattutto, da annegare di moneta sonante il buon Axl Rose, unico membro rimasto della formazione che fu (insieme al tastierista Dizzy Reed), vero artefice e burattinaio di questo gigantesco carrozzone mediatico.

Ebbene sì, la follia si è concretizzata. Ciò che pareva chimera è ora realtà. ”Chinese Democracy” esiste, ha davvero una forma ed una (anonima) veste grafica e, particolare per nulla di secondo piano, racchiude al suo interno un collage di canzoni inedite, griffate Guns.
Si accendano le luci dunque, si apra il sipario.
Andiamo a dissertare di qualcosa che già da tre lustri a questa parte, rientra a pieno diritto nella storia della musica – caso raro, ma più probabilmente unico – pur senza mai aver raggiunto prima d’ora una forma definitiva e “pubblica”.

Considerazione doverosa ed imprescindibile da produrre avviandosi alla scoperta della Democrazia Cinese, è in realtà un’autentica sentenza, pronunciata da tanti nel corso delle settimane passate (non da ultimo, il buon Nikki Sixx dei Motley).
Questo, a dispetto del nome che campeggia fiammeggiante in copertina, non è un disco dei Guns n’ Roses. Affatto. Questo semmai, è un album solista di Axl, eccellente frontman di un epoca indimenticabile, finalmente tornato in sella dopo decenni di contraddizioni, cesellature certosine, perfezionamenti e modifiche infinite, frammiste a bisbocce e cronache di vita spericolata da rock star.
I motivi di un come back a tanti anni di distanza e quando ormai nessuno ci sperava più, ne siamo certi, li evidenzierà lo stesso Axl in seguito, quel che è assodato tuttavia è che, dei vecchi Guns, non c’è più l’ombra.
Ne, come detto, a livello di formazione, ne d’attitudine, ne tanto meno, in termini di puro songwriting.
Qualcuno ha azzardato paragoni con i due ”Use Your Illusions”, accostando certe voglie romanticheggianti ascoltate nei due album del ’91, a frammenti udibili nella versione moderna del gruppo americano. Spigolature, piccolezze, roba di poco conto.
I punti di riferimento sono del tutto cambiati e, vedendola da qualsiasi prospettiva, non c’è davvero più nulla, oltre alla voce, iper effettata e modificatissima di Rose, a ricordare la selvaggia irriverenza dell’epoca d’oro.
Ingenuo ad ogni modo, attendere qualcosa di diverso. Un nuovo “Appetite For Destruction” non sarebbe stato credibile e la voglia di poter costruire qualcosa capace di occhieggiare al grande pubblico, di scalare le classifiche e, detto schiettamente, di garantire un pezzo di pensione dorata ad Axl, era evidente sin dal lontanissimo 1993, anno in cui già il nome del platter iniziava a circolare sotterraneo.

Ma le canzoni?
Le canzoni, già, ci sono anche quelle…

Sorpresa delle sorprese, il lotto di brani, ben quattordici, che il rosso singer ci propina, non è affatto male, almeno, non quanto temuto in partenza.
Ascoltati con disincanto e liberi dall’ingombrante spettro del glorioso passato, i pezzi offerti sono, dopo tutto, un accettabile esempio di rock “moderno”, perfezionato e calibrato con cura per piacere al numero più elevato di ascoltatori medi. Quelli che magari dei Guns n’Roses avevano soltanto sentito parlare, ed ora trovandoseli in radio, potrebbero apprezzarli ed acquistarne il cd.
Inutile divagare oltre. Singoloni come “Chinese Democarcy”, “Better”, “Madagascar” e “If The World” (già selezionata per la soundtrack del prossimo film di Ridley Scott) non possono non vincere la sfida del mercato “pop”. Non manca loro nulla. Ritornelli facili, una produzione spaventosamente grandiosa ed iper “orchestrata” (e vorremmo ben vedere: il costo complessivo ammonta a tredici milioni di dollari!), tematiche finto-impegnate (significativi gli inserti d’orazioni di Martin Luther King), la voce graffiante di Axl (molto aiutato in studio, per la verità) e quell’alone d’irruenza rock, “imborghesita” con le buone maniere, che tanto fa “duro dal cuore tenero”.
Un taglio estremamente hollywoodiano ed arrangiamenti da kolossal, violini, pianoforti ed ottoni, sono la cornice di una serie di pezzi in cui un sapore molto “commerciale” si mescola a sparuti frammenti dell’heavy di un tempo, annegati in un oceano di soluzioni electro-pop, un po’ alla Rob Zombie, un po’ alla Ozzy ultima maniera ed un po’ alla Prince, che vinceranno la sfida delle charts, ma faranno storcere il naso ad alcuni.
Episodi come “Shackler’s Revenge”, “Scraped” e la stessa title track, fungono da emblema di un prodotto studiato in anni di lavoro non certo per chi, candidamente, pensava ad un ritorno dedicato ai vecchi fan dimenticati, quanto piuttosto, al fine di ambire ad un seggio tra i best seller d’ogni tempo.
Non mancano tuttavia, bisogna sottolinearlo, frammenti in cui la musica – quella veramente DOC – emerge con sicura pienezza, lasciando spazio a commenti benevoli, quando non estatici.
Un quartetto come quello composto dalla Queen oriented “Street Of Dreams”, la cinematografica “This I Love”, la blacksabbathiana “Sorry” e la singolare “Catcher In The Rye”, è sufficiente per innalzare di molto le quotazioni dell’album, eliminando, almeno per un attimo, la sensazione di finto e preconfezionato che si fa largo, con prepotenza, in alcuni frangenti.
Inutile poi negare l’appeal esercitato dalle varie, “I.R.S.” la già citata “Better”, “Prostitute” (con un finale sinfonico degno davvero di un Hollywood movie), “Riad n’ Bedouins” e “There Was A Time”. Assemblate ad arte per contemplare una doppia anima rock / commerciale e facilmente immaginabili nella colonna sonora di un film di 007, offrono ritornelli capaci di colpire a botta sicura, fusi indissolubilmente ad intrecci chitarristici di prim’ordine.
Passaggi che, pur non appartenendo alle orgogliose schiere delle tipiche melodie hard, finiscono per piacere nemmeno poco e lasciarsi apprezzare con buona pace dei puristi.

Il risultato, manco a dirlo, è un disco che opporrà gli ascoltatori su due fronti antitetici ed inconciliabili. Per alcuni, “Chinese Democracy” rappresenterà l’evoluzione definitiva del rock, il suo conclusivo sdoganamento verso le fasce più cospicue e numerose di pubblico, quello che da sempre considera chitarre e distorsioni, roba di nicchia neppure lontanamente paragonabile ai grandi dell’elite mondiale. Un disco in geniale equilibrio, suonato con perizia da un nucleo di musicisti (con tante guest) che sa davvero il fatto suo.
Delusi senza possibilità di repliche saranno invece i fan “prima maniera”, anche loro forse invogliati all’esborso per questioni affettive, ma con ogni probabilità schifati dopo pochissimi passaggi di quello che apparirà, come un insensato polpettone nu-metal, con sprazzi elettronici e banalità assortite, ed in cui la spontanea e devastante grinta primitiva non è che un vago, tristissimo ricordo.

Il consiglio personale che ci sentiamo di rivolgere, è di non credere in modo assoluto a nessuno dei due e di ascoltare il cd (per intero e con calma) con la libertà di chi si riserva un diritto di scelta, prendendo, se possibile, “Chinese Democracy” per quello che è.
Un buon esempio di rock contemporaneo che non si prefigura come il flop troppo affrettatamente annunciato, affatto sgradevole e finanche accettabile nella propria pacchianeria e voglia spasmodica di stupire. Capace soprattutto, di crescere con gli ascolti e di vincere la diffidenza iniziale a colpi di ruffianerie e trovate a sensazione, seppur con l’imperdonabile difetto di presentarsi con un nome in copertina inappropriato e del tutto fuorviante, e di non avere praticamente nulla a che vedere con i vecchi Guns.
E ad essere sinceri, nemmeno con l’hard rock…

Basterà per permettere alla band americana ed al suo leggendario frontman, di ergersi al ruolo di assoluta protagonista di un’annata, che già ci ha regalato i best seller di “piccoli” calibri come Metallica, Ac/Dc, Motley Crue e Whitesnake?

Tutto dipenderà dalla risposta del pubblico e da chi prevarrà tra le due schiere descritte poc’anzi.

…intanto Axl Rose, dall’alto del suo falsetto, più diabolico di un Gene Simmons qualunque, se la ride sardonico e beffardo…
“In un modo o nell’altro, siete caduti tutti nella mia trappola. Che poi il mio disco vi piaccia per davvero, beh, quelli sono solo affari vostri…”

Discutine sul forum nel topic decicato ai Guns n’ Roses!

Tracklist:

01. Chinese Democracy
02. Shackler’s Revenge
03. Better
04. Street Of Dreams
05. If The World
06. There Was A Time
07. Catcher In The Rye
08. Scraped
09. Riad n’ The Bedouins
10. Sorry
11. I.R.S.
12. Madagascar
13. This I Love
14. Prostitute

Line Up:

Axl Rose – Voce /Piano
Dizzy Reed – Piano / Tastiere / Back Voc.
Robin Finck – Chitarre
Richard Fortus – Chitarre
Bumblefoot – Chitarre
Tommy Stinson – Basso / Back Voc.
Chris Pitman – Tastiere / Programming / Back Voc.
Brain – Batteria
Frank Ferrer – Batteria

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