Recensione: City

Di Alberto Fittarelli - 8 Aprile 2007 - 0:00
City
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Anno: 1997
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100

Stink hot at 5 A.M. when the machine starts up again
The sky is still pink

ALL HAIL THE NEW FLESH

La frase, inserita nel retro del booklet di City,
esprime in poche, evocative parole l’atmosfera che l’alienato genio Devin
Townsend
ha buttato, di getto, in questo album: quella di una metropoli
esasperatamente cibernetizzata, perennemente notturna, caotica per il semplice
fatto di esistere. Le foto dell’inlay sono il simbolo principale di ciò,
insieme alla cover: da uno schema elettronico si passa a immagini di una Tokyo
sporca, dai neon minacciosi e aggressivi, pronti a prendere di forza il passante
ed a catturarne la mente; il tutto corredato da testi impaginati in modo tale da
ricordare le luci di grattacieli distanti nella notte urbana.

Perché tutto ciò? Facciamo un salto indietro. Siamo nel 1997,
le ansie millenaristiche stavano iniziando a farsi sempre più pesanti….ma
lasciamo da parte le spiegazioni sociologiche, qui parliamo di arte e basta: e
allora è importante citare un album come Demanufacture dei Fear
Factory
, uscito solo 2 anni prima di questo gioiello. Quel disco aveva
cambiato profondamente il modo di concepire certo metal, quel thrash che non
trovava più da anni uno sbocco, né tanto meno riusciva a riflettere una
cultura metropolitana che non era più, ormai, quella delle periferie
californiane o tedesche degli anni ’80, immagine ormai anacronisticamente
presente solo nei nostalgici.

Ecco però che i Fear Factory, che californiani lo sono (anzi,
proprio di Los Angeles), decidono – o semplicemente viene loro naturale – di
mettere in musica una visione più “hollywoodiana” di quest’atmosfera
apocalitticamente industriale: il disco, la cui importanza viene trattata in
altra sede, è splendidamente costruito quasi come la colonna sonora del film
mentale dei 4 statunitensi, in modo però consumistico, accettabile cioè per un
ampio pubblico, magari non addentro al genere metal. Gli SYL decidono
invece di percorrere un’altra via, quella più difficile: la libera espressione
delle turbe psichiche del proprio leader, autore di tutte le musiche, che
traspone soprattutto in questo album i suoi poli umorali opposti.

I canadesi costruiscono quindi una tracklist schizofrenica, con
il groove di Detox, un inno rimasto ineguagliato in campo thrash,
contrapposta all’epicità di All Hail The New Flesh, al caos sonoro di Home Nucleonics
e di Oh My Fucking God, alla frustrazione pregna di sonorità da
headbanging di AAA, alla tranquilla rassegnazione di Spirituality,
al distorto sentimento della cover – perfetta – del classico degli industrial
heroes Cop Shoot Cop, Room 429.
Tutta l’autobiografia di Devin trapela molto chiaramente tra le righe delle
lyrics, arrivando persino al senso di emarginazione provato in periodo
adolescenziale in quanto persona “strana”, solitaria, introversa; e
tutto viene inserito nel contesto della follia metropolitana che demolisce le
relazioni, rende gli uomini macchine e uomini le macchine.

Musicalmente, ed è ovviamente questo l’aspetto più importante,
la voce di Townsend arriva dove mai nessuno, nel thrash, era arrivato,
conferendo al muro di chitarre – e tastiera, non dimentichiamoci che le
commistioni con l’industrial di questo disco sono pesantissime – un epos unico,
inimitabile dagli stessi Strapping: tanto che prima di tentare un’evoluzione di
queste sonorità la band si prenderà un lunghissimo periodo di riflessione,
durante il quale prosegue come The Devin Townsend Band e rilascia dischi più
rilassati, ma altrettanto poco convenzionali e, a loro modo, geniali.

Oggi gli SYL sono un’altra band, tanto che l’ultimo The New
Black
fotografa un ulteriore periodo di transizione sonora: City resta una perla
irraggiungibile, l’inno di quella che i citati Fear Factory chiamavano the
new breed
. E allora non resta che dire: all hail the new flesh. Anche
dopo un decennio esatto.

Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli

Un esperimento. Sì, City potrebbe essere considerato un esperimento
considerando il tipo di musica proposta ed il concetto
sviscerato nelle liriche d’accompagnamento. In merito al fatto che Townsend
sia un genio credo nessuno abbia nulla da
obiettare, vista la mole di materiale che lungo tutto l’arco della sua
sfolgorante carriera ci ha regalato, e la riprova
di quanto detto la si ha proprio con il disco in questione: è il frutto di
un viaggio a Tokyo, in Giappone, ed è proprio
da questo punto di vista che urge guardare l’opera per comprendere una
musica assolutamente fuori dagli schemi e
dall’ordinario; questo perchè, inserendo il cd, si entra in contatto con una
dimensione totalmente differente da quella
normalmente accettata e presa in considerazione quando si ascolta la musica.

E’ un full length assolutamente spiazzante
perchè unico nel suo genere, un incontro fra più stili: dall’Industrial al
Thrash metal passando per il Death metal, il
tutto con una disinvoltura che ha dell’incredibile.
Il perchè di tutto ciò è semplice: City potrebbe essere descritto, a parole,
come una istantanea scattata ad una metropoli
qualsiasi e in particolare alla capitale del Giappone, icona delle moderne
giungle di cemento cui molti di noi (chi più
chi meno) siamo costretti a vivere, pur se in misura minore, nostro
malgrado. I sentimenti che possono accompagnare la
visione di una città frenetica, gigantesca e iper tecnologica sono
molteplici e possono svariare dalla mera curiosità sino
ad arrivare alla contemplazione più sbalordita; il nostro Townsend ha optato
per la rabbia ed il disgusto se vogliamo,
traghettandoci in un vero e proprio Inferno sonoro che potrebbe essere
tranquillamente la soundtrack di una giornata
trascorsa nel claustrofobico traffico cittadino, magari quando si è fermi da
un quarto d’ora al classico rosso che genera
le reazioni più smodate tra gli autisti nervosi e frettolosi allo scattar
del verde.

Il platter può essere inteso come una metaforica rappresentazione di tutti
quei rumori odiosi che a me personalmente danno
il disgusto più totale: dai suoni concertistici dei vari martelli pneumatici
piuttosto che dei Tir che ogni sacrosanto
minuto sfrecciano per le città provocando, oltre ad inquinamento acustico,
anche il rigetto olfattivo dettato dallo smog
che si portano al seguito. Devin però non si ferma solo alla riproposizione
musicale in senso lato della città nella sua
forma stereotipata, ma va oltre: la descrizione per essere particolareggiata
ed esaustiva necessita anche di parole, che
qui assumono i connotati decisi dell’aggressività, con toni che lasciano
intendere in maniera lampante e decisamente poco
velata quelli che sono i demoni mentali dell’abitante medio: lo stress, la
rabbia e la non accettazione della situazione
cui ci si trova a convivere portano alla forma-testo qui perfettamente
rappresentata da liriche volutamente massacranti,
incazzate e accese.

La colonna sonora di una città infatti è anche questa:
oltre ai rumori disturbanti non si sente altro
che la rabbia espressa dall’uomo tramite l’insofferenza manifestata in ogni
contesto, e ciò che ne deriva è propriamente
quello che nel booklet abbiamo modo di leggere: un continuo perpetrarsi di
improperi dalla parvenza sconclusionata ad una
prima occhiata, ma che poi una volta assimilata l’opera nella sua interezza
permettono di entrare totalmente nell’anima di
un disco che ha molto da offrire e che si scopre a poco a poco per poi non
lasciare più lo stereo della propria quattro
ruote nei momenti di maggiore misantropia e non solo.
City
è dunque il frutto dell’odio che il genio schizofrenico del leader
degli Strapping Young Lad nutre nei confronti di
quanto precedentemente descritto, messo a disposizione di chi come lui
sappia cogliere, complice anche le similari
esperienze, quanto egli intende raccontare.

La seconda opera dei SYL si assesta quindi su binari incredibilmente
superiori alla stragrande maggioranza della
concorrenza in ambito estremo e dal punto di vista concettuale (un’idea così
particolare solo una mente malata avrebbe
potuto partorirla) e da quello musicale: il lavoro di Devin piuttosto che
quello di Hoglan sono encomiabili e pressochè
perfetti infatti, e rendono in maniera ineccepibile il tutto, lasciando ad
un primo ascolto sconcertato l’ascoltatore che,
se avrà la pazienza di assimilare le varie sfumature dapprima percepite come
mero rumore, sarà premiato dalla presa di
coscienza di avere tra le mani un assoluto capolavoro del Metallo Pesante
d’età Moderna.

Thrash Till Death

Tracklist:

1. Velvet Kevorkian 01:17
2. All Hail the New Flesh 05:24
3. Oh My Fucking God 03:35
4. Detox 05:37
5. Home Nucleonics 02:31
6. AAA 05:22
7. Underneath the Waves 03:40
8. Room 429 (Cop Shoot Cop cover) 05:21
9. Spirituality 06:35

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