Recensione: Clockwork Angels

Di Riccardo Angelini - 23 Luglio 2012 - 0:00
Clockwork Angels
Band: Rush
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2012
Nazione:
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89

L’orologio alchemico batte le 21:12. Raccogliete la vostra stuoia, stendetela vicino alla finestra e rivolgete le vostre preci a occidente. La Trinità di Toronto è tornata per redimere i vostri peccati. Che la vostra discografia contempli episodi sconvenienti come l’ultimo singolo di Biagio o il meglio del meno peggio di Vasco, aprite il cuore al cantico degli Angeli Meccanici e troverete la redenzione e la salvezza e…

Ok dai, seriamente. Riponete la stuoia e toglietevi quel sorrisetto ebete dalla faccia. Con i numi olimpici, questi tre signori non hanno granché da spartire. Anzi, diciamo pure che la venerazione a priori che talvolta li precede ha bell’e rotto le palle. Non c’è nulla di strano se tre bravi musicisti con un quarantennio di esperienza sulle spalle mettono insieme un bel dischino. Un dischino che, in barba alle logiche di vendita, finisce primo in Canada, secondo nella Billboard americana e settantaseiesimo in Inghilterra – ma solo perché molti hanno preferito acquistare il fanpack che è fuori classifica, se no andava primo anche lì. È lo standard, o quantomeno dovrebbe esserlo. Semmai, potremmo domandarci come mai a ogni cambio di stagione tocchi sorbirsi pletore di obbrobri made in Legoland da parte di gruppetti dal nome grosso – o forse soltanto grasso – che da un pezzo a questa parte campano di slogan e fumo negli occhi. Ma sarebbe un domandare puramente retorico. Quindi facciamo un bel punto e andiamo a capo.

All the highlights of that headlong flight
Holding on with all my might
To what I felt back then
I wish that I could live it all again

Lo si è detto da tutte le parti: è la prima volta che i Rush pubblicano un concept album (con buona pace di Lifeson). Clockwork Angels racconta in retrospettiva la storia di un giovanotto di belle speranze che parte alla ventura in un mondo steampunk. Una bella storiella della quale è già in lavorazione un romanzo di fantascienza. Pure, al di là di queste note di colore, non è difficile leggere nei testi di Neil Peart la metafora, nemmeno troppo velata, di tutta una carriera.

C’è molto di autobiografico in Clockwork Angels. Quando, in Headlong Flight, Geddy canta “All the journeys / Of this great adventure / It didn’t always feel that way / I wouldn’t trade them / Because I made them / The best I could / And that’s enough to say”, col basso che palpita e le chitarre che picchiano duro, la mente non può che correre agli alti e bassi di una vita on the road, ai lunghi tour mondiali, a ciò che appare dall’esterno contro ciò che viene vissuto all’interno. È pesante, Headlong Flight. Parecchio più pesante rispetto agli standard dei Rush, nonostante gli spiragli di luce lasciati nel refrain. In ciò segue il segno di BU2B, che ormai un anno fa accoglieva i fan a mazzate sulle gengive. Era il primo incontro con l’ordine perfetto istituito dal Watchmaker, l’autocrate della nostra storia, nonché la definizione di un modus cogitandi umano, troppo umano, figlio bastardo di un fideismo ottuso e di un provvidenzialismo all’americana di chiara matrice protestante: “All is for the best / Believe in what we’re told / Blind men in the market / Buying what we’re sold / Believe in what we’re told / Until our final breath / While our loving Watchmaker / Loves us all to death”.

Il sospetto che dietro i Clockwork Angels del titolo riposi un riferimento tanto concreto quanto familiare si avvicina quanto possibile alla certezza con la title-track, uno degli episodi più subdoli e conturbanti del viaggio. Una melodia di paglia, Lifeson che accende riff come zolfanelli, basso e batteria pronti a incendiare la traccia di una spirale sinuosa – come un serpe di fuoco che illude, ipnotizza. E azzanna alla gola.

Lean not upon your own understanding
Ignorance is well and truly blessed
Trust in perfect love, and perfect planning
Everything will turn out for the best

Le distopie orwelliane sono roba da dopoguerra. L’ordine sociale imposto dal Watchmaker ha una matrice molto più sottile. Fede e speranza e amore – non già schermi e menzogne per nascondere la violenza, bensì l’allettante veleno di cui ogni uomo spontaneamente s’inebria. Non si fugge da una prigione senza sbarre. Vanamente leva il pugno il ribelle di The Anarchist, vanamente i rancorosi arabeschi si oppongono al sornione caracollare di Carnies, inquietante circo del grottesco nel quale le armonie allucinate di Vapor Trails sono infrante da improvvise scorribande hard rock.

La musica cambia radicalmente con Halo Effect. Che, a un ascolto un po’ di fretta, rischia di passare per una ballad. Le chitarre si acquietano, entrano gli archi – ma la vera orchestra è nascosta nella batteria di Neil. Negli arpeggi che strozzano il crescendo non rieccheggia il lamento del giovane cuore che sanguina di passione, bensì il biasimo patetico che l’uomo rivolge a se stesso, quando non fa in tempo ad abbandonare un’illusione, e già ne abbraccia una nuova: “What did I do? / Fool that I was / To profit from youthful mistakes? / It’s shameful to tell / How often I fell / In love with illusions again”.

Ancora un cambio di marcia. Con ‘Seven Cities Of Gold’ il basso torna di prepotenza sugli scudi, a intrecciare un nodo gordiano di armonie sotto a un rifferama che, dopo le sassate e il groove (!) della prima metà del disco, volge verso sonorità sempre avventurose, ma meno soffocanti, esaltate da una produzione da paura. Troppo facile riconoscere negli acuti del refrain un riferimento ai miraggi del successo: “A man can lose himself, in a country like this / Rewrite the story / Recapture the glory / A man could lose his life, in a country like this / Sunblind and friendless / Frozen and endless “. C’è un diavolo chiamato show-business che attende coloro che inseguono un sogno di grandezza. Ma è gelido e solitario il deserto che inizia dove il miraggio ha fine. E già anime innumerevoli si sono perdute.

All I know is that sometimes you have to be wary
Of a miracle too good to be true
All I know is that sometimes the truth is contrary
Everything in life you thought you knew
All I know is that sometimes you have to be wary

Cause sometimes the target is you
All I know is that memory can be too much to carry
Striking down like a bolt from the blue

Vibrante, drammatica, The Wreckers tocca vette di lirismo fra le più alte che i Rush abbiano mai raggiunto. Abbandonata la potenza dirompente di BU2B, abbandonate le acrobazie di Carnies, ritorna una forma-canzone classica, relativamente semplice e lineare. Non c’è più nulla a trattenere il crescendo sinfonico degli archi, che infatti arriva con passo di tempesta e spacca l’anima a mezzo, come il fulmine sulla quercia.

Per fortuna c’è l’energia vibrante di Headlong Flight, che risveglia il lottatore suonato con l’iniezione di adrenalina che sappiamo. Per fortuna c’è la positività di Wish Them Well, che risponde al pessimismo radicale del monologo sinfonico BU2B2 (“Belief has failed me now / Life goes from bad to worse / No philosophy consoles me / In a clockwork universe”) con un riffing finalmente disteso e solare. Per fortuna c’è The Garden: ancora una ballad, sì, ma ora senza rimpianti né rimorsi – serena come un cielo di primavera, quieta come un giardino d’autunno.

The future disappears into memory
With only a moment between
Forever dwells in that moment
Hope is what remains to be seen

Finisce così la storia dell’eroe di Clockwork Angels, che molto vide, e molto fece, e molto patì. Il suo viaggio, iniziato ormai un anno fa sulle note fiduciose di Caravan (“In a world where I feel so small / I can’t stop thinking big”), non trova compimento in un cambiamento epocale o in un’apoteosi di gloria. Né è sconvolto da drammatici colpi di scena o tragedie dell’ultimo minuto, se è per questo. Il mondo del Watchmaker resta al suo posto, immutato, sgargiante riflesso di una Terra pallida, effimera quanto lo è un sogno.

La band ripone gli strumenti. Sullo spettacolo cala il sipario. La folla abbandona il teatro in silenzio. Mentre la musica si addormenta, il nostro eroe torna a coltivare il suo piccolo giardino, come faceva in gioventù.

Ma ha vissuto. E qualche risposta, forse, la ha trovata.

 

What do you lack?

 

Riccardo Angelini

 

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Tracklist:
1. Caravan (5:40)
2. BU2B (5:10)
3. Clockwork Angels (7:31)
   i – The Pedlar 1
4. The Anarchist (6:52)
5. Carnies (4:52)
6. Halo Effect (3:14)
7. Seven Cities Of Gold (6:32)
8. The Wreckers (5:01)
9. Headlong Flight (7:20)
   ii – The Pedlar 2
10. BU2B2 (1:28)
11. Wish Them Well (5:25)
12. The Garden (6:59)
 

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