Recensione: Colored Sands

Di Emanuele Calderone - 2 Settembre 2013 - 19:07
Colored Sands
Band: Gorguts
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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80

 

Ci sono band che, per un motivo o per l’altro, non sono mai riuscite a raccogliere quanto avrebbero meritato. Sono gruppi, questi, che, nonostante abbiano dato vita a dischi di indubbio valore artistico e storico, non sono mai riusciti a imporsi sulla scena musicale moderna.

In questo elenco rientrano anche i Gorguts: la formazione canadese, nata nel 1989 dalla mente di Luc Lemay – uno dei musicisti metal più eclettici degli ultimi due decenni – , sebbene abbia composto piccole gemme quali “Obscura” e “The Erosion Of Sanity”, non è mai riuscita ad arrivare al grande pubblico, rimanendo sempre un poco in disparte. La motivazione di ciò è da ricercare in quel loro modo tutto particolare di intendere il concetto di ‘death metal tecnico’. Lontani anni luce dal classico technical death, Lemay e colleghi hanno sempre preferito dare un’impronta personale alla propria musica. Il risultato? Qualcosa di unico e quanto mai curioso, in cui la tecnica strabordante di ogni singolo membro diventa solo uno strumento tramite il quale veicolare emozioni, stati d’animo.

Musicalmente la proposta del combo pone le proprie fondamenta nel death metal più marcio e ‘fangoso’, sul quale vengono innestate strutture al limite del free-jazz e divagazioni dal sapore avanguardista, che accompagnano la voce di Lemay. La voglia di proporre qualcosa di diverso, ma sempre facilmente riconoscibile, potrebbe indurre qualcuno a pensare che tale formula possa diventare, in un modo o nell’altro, noiosa o, peggio ancora, fastidiosa. Nulla di più sbagliato. Ne volete un esempio concreto? Benissimo, “Colored Sands”, ultimo nato in casa Gorguts, è qui per confermare quanto detto. Uscito il ventinove agosto sotto Seasons Of Mist, l’album arriva sui mercati discografici a distanza di dodici anni dal precedente e stupisce fin dalle prime note. A un ascolto preliminare la prima caratteristica che salta all’orecchio è indubbiamente l’estrema abilità strumentale cui si faceva riferimento in precedenza. Sì perché, pur non cadendo nello sterile esibizionismo tipico di talune uscite del genere – qualcuno ha detto Braindrill? – , i Gorguts mettono in mostra una tecnica strabordante, figlia di anni di studio e dedizione. Il secondo aspetto che colpisce è l’evidente complessità delle strutture dei brani, che non seguono mai la classica forma canzone. I continui cambi ritmici conferiscono a ogni canzone un dinamismo e una longevità invidiabili, che contribuiscono alla buona riuscita finale del disco.

Proseguendo con gli ascolti vengono pian piano a galla tanti altri piccoli particolari, che caratterizzano in maniera netta il prodotto e lo distinguono dalla ‘grande massa’. In primis “Colored Sands” mantiene viva l’anima death: sì perché, non scordatelo, questo è soprattutto un disco death metal. Ecco che quindi i brani, su tutti l’eccezionale “An Ocean Of Wisdom”, suonano brutali, a tratti quasi esasperati. Il merito, in vero, va al growl disperato di un Luc, autore di una prova del tutto priva di sbavature, che non mancherà di esaltarvi. Le chitarre sono intente a tessere linee dissonanti, che difficilmente seguono una melodia di facile presa. Non mancano di certo i passaggi più serrati, dai quali emerge l’anima più tipicamente death della band, cui si faceva riferimento in precedenza. Sotto le sei corde, basso e batteria tessono una sessione ritmica folle e brillante, che mette in mostra tutto l’estro creativo di questi abili artisti. Controtempi, parti sincopate, passaggi più quadrati e violenti, si alternano in un turbinio emotivo che difficilmente potrà lasciare indifferente anche l’ascoltatore più smaliziato e navigato.
 
C’è poi il capitolo ‘atmosfere’: l’ultimo nato in casa Gorguts può infatti vantare atmosfere claustrofobiche, malate e talvolta soffocanti, che conferiscono alle composizioni un’aura ancor più sinistra, che di certo farà breccia anche nei cuori dei deathster più puristi. Concentrandosi sui brani, diventa quanto mai fuorviante mettersi a descrivere ciascun pezzo, giacché l’album va ascoltato nel suo insieme. Estrapolare delle singole canzoni e descriverne le strutture, le variazioni a livello melodico e ritmico toglierebbe ‘dignità’ all’immensa mole di lavoro svolta dal quartetto canadese. Ci si permetta, comunque, di spendere qualche parola in più per “Absconders”, mini-suite che, in poco più di nove minuti, condensa un po’ tutte le caratteristiche tipiche della musica dei canadesi. Sin dalle prime battute si può apprezzare il lavoro certosino svolto dai Nostri in fase compositiva: il pezzo gode di ottima dinamicità, grazie ai continui cambi ritmici, scanditi sia dalla coppia basso-batteria, sia dalla chitarra. L’atmosfera, vagamente old-style, contribuisce a rendere il brano ancor più appetibile anche per chi, e non sono in pochi, ha maggior dimestichezza con il death metal dei primi anni ‘90. Ciò nonostante “Absconders”, esattamente come il resto della tracklist, suona fresca come non mai. Come di consueto, poi, non manca il guizzo geniale, che emerge dal breve – ma quanto mai azzeccato – stacco jazzato, che riporta alla mente quanto fatto dai nostri sullo splendido “Obscura”.

A valorizzare ancor di più il lavoro che sta dietro al disco, ci pensa una produzione pressoché perfetta. Il lavoro in fase di registrazione riesce a evidenziare a dovere ogni singolo passaggio strumentale e vocale, il tutto senza risultare ‘plasticoso’ o posticcio.

Difetti? Nessuno, o quasi. Sì perché, a voler essere proprio pignoli fino al midollo, a “Colored Sands” manca quella brillantezza ‘unica’ che ha sempre caratterizzato i Gorguts. A fare da contraltare, bisogna dirlo, ci pensa la pienissima maturità artistica ormai raggiunta, che emerge da ciascuno dei sessantatré minuti di musica qui contenuti. Alla fine di innumerevoli ascolti, dunque, quello che rimane è sempre la solita soddisfazione che accompagna dal 1991 gli amanti di questa band.

“Colored Sands”, pur non rappresentando in senso assoluto il meglio dei Gorguts, rimane un lavoro brillante, accattivante e al contempo violentissimo, brutale. Se siete alla ricerca del classico technical death ultrapatinato tanto in voga in questi ultimi anni, state alla larga da quest’album, perché fa male, tanto male. E poi non dite che non vi avevamo avvertiti…

Emanuele Calderone
 

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