Recensione: Cultores de Perdas e Linna

Di Alessandro Rinaldi - 1 Luglio 2025 - 15:07
Cultores de Perdas e Linna
Band: Vultur
Etichetta: Masked Dead Records
Genere: Black 
Anno: 2025
Nazione:
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La Sardegna è la regione più affascinante d’Italia per via della sua unicità, delle sue tradizioni che spesso si discostano culturalmente da quelle “de su Continente”, ovvero della penisola, e non trovano una collocazione nel mediterraneo, per la loro unicità. Ed effettivamente, dalla Sardegna viene la risposta al paganesimo scandinavo, in parte per alcuni aspetti della cosmogonia sarda, in parte per gli ritualistici e animisti, al punto da fare del popolo sardo una sorta di “vichinghi del Mediterraneo”.

E da questa unicità culturale attingono i Vultur, band di Portoscuso attiva dal 2005, che affonda le radici nella tradizione sarda, il cui popolo, come è risaputo, ha un legame unico con la propria terra, origini e tradizioni, a cui non rinuncia neanche quando si trasferisce lontano dalla Ichnusa – nome che deriva dal greco ichnos, che, appunto, significa “traccia”, “segno” ma anche “orma”, alludendo alla morfologia dell’isola che la fa sembrare la forma di un piede. Un esempio? La famosa bandiera dei quattro mori che spesso vediamo sventolata, con grande orgoglio, all’estero, durante le manifestazioni popolari.

La discografia dei Vultur è ricca di EP e demo ma conta solo due predecessori a questa nuova uscita: Corona de Frastimus e Ogu liau, quest’ultimo risalente al 2014. L’artwork di Cultores de Perdas e Linna è opera di Maristella Spanu, la bassista della band, ed è una vera e propria crasi tra il simbolo del caprone e la maschera sarda de “su Boe”, ornamento tanto elegante quanto inquietante di Ottana, paese che si trova nel cuore pulsante della Sardegna, ovvero la Barbagia, utilizzata ancora oggi per alcune danze ritualistiche e propiziatorie. L’immagine è trafitta da un pugnale conficcato nella fronte, la cui lama esce dalla bocca, quasi a completare la mascella, creando un’immagine di folclore, mistero e morte che anticipa quanto trattato nel disco.

Cultores de Perdas e Linna, ovvero “Adoratori delle pietre e legno”, è una locuzione sarda che si riferisce al modo in cui i cristiani si riferivano, in senso dispregiativo, alla popolazione nuragica. L’album si compone di otto brani, sette dei quali cantati in sardo (nella sua variante campidanese), per una durata complessiva di 35 minuti che raccolgono il grido di una terra che rivendica – a ragione – la propria identità, attraverso una ricerca interiore che passa nell’esposizione artistica di quegli aspetti della propria tradizione. La scelta di usare il campidanese ha permesso ad Attalzu di interpretare in modo viscerale e con maggior enfasi i brani, dando più potere alle stesse parole, nonché ai rituali che rappresentano; il suo growl nuragico, diventa uno strumento aggiuntivo e un inaspettato corollario che definisce al meglio le sfumature della musica dei Vultur. Il loro black metal affonda le radici nella musica anni ’90 ed è solido e roccioso, come la terra che vuole rappresentare, in cui è facile scorgere riferimenti a Marduk e Mayhem, con una preziosa aggiunta, ovvero dei ponti melodici che spezzano il furore delle loro note, e danno una dimensione più intima alla composizione.

L’incipit è forte e blasfemo: Su Frastimu, la bestemmia, ha note oscure, cupe e spigolose, mostrando i muscoli con audacia e decisione, così come il brano successivo, Eternu Trumentu, furioso, impreziosito da un assolo velocissimo e con una maggiore melodicità, aspetto che accomuna a Su Spegu, che spinge il piede sull’acceleratore mentre  Femina Mala riafferma la rocciosità della band. Arestis è l’elemento rivoluzionario del disco, un brano in cui il tocco  della chitarra di Federico Ruggiu, accompagnato da percussioni che richiamano il lato ritualistico, dà spazio e respiro al lato più folk della band trascinando l’ascoltatore in questa dimensione più profonda ed intima con la loro terra. Cultores Lapides et Lignea è aperta da voci diaboliche e, come Arestis, mostra la capacità compositiva dei Vultur, capaci di trovare l’armonia anche nelle note più infernali; segue Umbras, che dà spazio maggiore alle dissonanze tipiche del black. Chiude Nemini Parco – unico brano cantato in italiano – locuzione latina che tradotta vuol dire “non risparmio nessuno” (spesso associata alla morte e alla sua inesorabilità) è un tributo al dipinto della Morte situato nella cripta della chiesa di San Sepolcro a Cagliari: è aperta da alcuni cori di voci gregoriane, ben presto soppiantate da violente schitarrate.

Cultores de Perdas e Linna è un lavoro molto bello ed intenso, che trasuda carisma ma soprattutto ha una precisa identità. Inoltre, ha un notevole potenziale live; infatti, la produzione è perfetta per il sound dei Vultur, curata al punto giusto per esaltare la parte armonica senza trascurare l’elemento più selvaggio intrinseco alla loro proposta musicale. Poi, come spesso accade nel black metal, un disco altro non è che una finestra culturale che ci mostra un paesaggio molto più ampio: la Sardegna non è un luogo di sola paradisiaca villeggiatura, tra spiagge immerse nella natura incontaminata come Cala Mariolu o Cala Luna e mare che talvolta diventa un tutt’uno col cielo. Vi sbagliate. La Sardegna è molto di più, una terra selvaggia, ricca di storie da raccontare, di misteri: dai Nuraghi alle Domus de Janas, dalle Tombe dei Giganti alla figura dell’accabbadora, passando, appunto, attraverso gli arcaici e arcani rituali tradizionali e propiziatori della stessa isola. Un mondo, un Universo, che oggi, grazie ai Vultur ci è meno oscuro.

Ajò, Vultur!

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