Recensione: De Republica

Di Alessandro Rinaldi - 12 Marzo 2024 - 0:28

Il black metal, alle orecchie dei profani, potrebbe apparire come un indecoroso collage di suoni, o meglio rumori, confusi e dissonanti. Andando ad approfondire quest’aspetto, però, si trovano tante scene che sono radicalmente differenti le une dalle altre e, tra queste, merita un’attenzione particolare quella francese, che in questo momento si trova in un particolare stato di grazia creativa, in cui les légions noires si muovono varcando i confini della Grand Nation, la Francia.

In questo universo, un posto di rilievo se lo sono ritagliati i Griffon, – band parigina composta da Sinaï e Antoine alle chitarre, Aharon alla voce, Kryos alla batteria – che, a distanza di quattro anni da Ὸ θεὀς ὸ βασιλεὐς, si riaffaccia nell’universo più oscuro del metal con questo De Republica. L’artwork è piuttosto emblematico di quello che è l’ésprit del disco: un’immagine che rievoca i fasti della rivoluzione francese, con la cattedrale di Notre Dame presa d’assalto da una folla piuttosto esacerbata. Il titolo dell’album è un chiaro riferimento dal libro di Cicerone, un vero trattato di filosofia politica in cui si approfondiscono diverse tematiche quali le forme virtuose e deviate di governo, l’educazione del cittadino e il rapporto tra stato e giustizia. Ed effettivamente, l’album in questione, è proprio un’ode alla Repubblica e dello stato di diritto tanto quanto all’uguaglianza e alla libertà. Ma dall’altro lato, come si evince anche dall’artwork scelto, è anche un’opera che – ça va sans dire – esalta la Rivoluzione come espressione popolare di lotta contro le soverchierie delle autorità precostituite e contro il dispotismo al fine di affrancarsi e raggiungere la libertà.

Musicalmente, l’album è strutturato in modo omogeneo, e per questo i quasi quaranta minuti scorrono piacevolmente, senza intoppi di alcun tipo. La struttura delle canzoni, è piuttosto collaudata: si parte da un’intro che poi di solito ritroviamo a metà canzone, intervallata da un black metal tanto furioso quanto incisivo, con un pregevole riffing strizzando quindi l’occhiolino alla melodia. Ma la vera differenza, sta nel tessuto ricamato dalla band che, attraverso la narrazione di alcuni fatti di rilevanza storico-politica nelle loro canzoni, conducono l’ascoltatore dritto verso il messaggio che i Griffon ci vogliono consegnare.

Tra pioggia e bombe, si odono delle parole recitate, di notevole impatto, che introducono L’homme du Tarn, un componimento  contro la guerra che ruota attorno alla figura del deputato francese Jean Jaurès, socialista contrario ad ogni forma di revanchismo, e ultimo baluardo francese ad opporsi alle crescenti tensioni antitedesche; fu assassinato il 31 luglio 1914 e 3 giorni dopo, il 3 agosto, la Germania dichiarò guerra alla Francia. E’ un black metal furioso che lascia spazio alla melodia e a momenti di riflessione. Con The ides of March i toni si fanno più malinconici, quasi a sottolineare la nostalgia della Repubblica: il brano narra, appunto, della trama fitta del Senato romano e del tradimento ordito ai danni di Caio Giulio Cesare. La sua uccisione getterà Roma nel disordine e nell’anarchia generate dalla guerra civile che ne conseguì e che posero fine alla Repubblica in favore della Monarchia e dell’inizio dell’era imperiale romana.  Con À l’insurrection i riff e la sezione ritmica si fanno più veloci e spigolosi: qui il tema è la Rivoluzione di Luglio e delle Trois Glorieuses in cui fu rovesciato Carlo X e la casa reale dei Borbone in favore di quella degli Orléans, nella persona di Luigi Filippo. C’è uno spirito più classicheggiante e melodrammatico, che va ad esaltare lo spirito prettamente francese della canzone. Le chitarre diventano più meste con La semaine sanglante, che celebra la settimana di sangue: dopo la disfatta di Sedan (con le note conseguenze revansciste), in Francia ci fu una rivolta che portò all’esperienza della Comune di Parigi, che fu repressa durante la settimana di sangue ed i suoi membri giustiziati in massa. “Christ n’est plus souverain/En terres de France” suonerebbe come un inno black metal, e sarebbe gioia per i sentimenti anticristiani di molti di noi, ma è l’incipit de La loi de la Nation, che approfondisce il legame tra stato e chiesa in Francia, disciplinato da un provvedimento del 1905 che separava potere temporale dal potere spirituale, portando anche alla requisizione dei beni ecclesiastici. Se l’ésprit del componimento è a forte tinte black, va detto che la forse la stessa canzone, pur mantenendo una forza oscura e violenta, è il pezzo più sperimentale che in sé, cela un cuore progressive davvero notevole. Chiude De Republica, che affronta tematiche più vicine a noi, ovvero le rivolte del 2022 a seguito dei risultati delle elezioni presidenziali che hanno confermato Emmanuel Macron presidente, senza avere la maggioranza nell’Assemblea Nazionale.

Come detto in precedenza, il disco scorre in modo piacevole, e ci sono degli aspetti che vanno sottolineati, che in realtà sono della caratterizzanti: l’uso delle spoken words, ad esempio, è brillante ed evocativo, cos come la capacità di tessere e il pregevole riffing, fortemente black, che anima i brani di De Republica.

Un disco tanto bello da ascoltare, quanto da leggere, perché portatore di un messaggio politico ma non campanilistico, perché trasversale: si parla di valori assoluti, che non hanno patria, colore o religione, ma che dovrebbero appartenere a noi tutti. Perché, alla fine, quel vecchio proverbio che recita “ogni popolo ha il governo che si merita” è un assioma, e un po’ tutti, dovremo farlo nostro.

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