Recensione: Dead End Kings

Di Tiziano Marasco - 6 Settembre 2012 - 0:00
Dead End Kings
Band: Katatonia
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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64

Precisi come orologi svizzeri, i Katatonia si ripresentano al grande pubblico con una nuova release che, per la quarta volta di fila, segue una pausa triennale. In questo 2012 ecco “Dead End Kings”, nona prova di studio per il quintetto svedese. Ora, quando oramai la band si appresta a tagliare il traguardo dei vent’anni di (più che mai gloriosa) attività, è tempo di un bilancio che va a travalicare quello che è un mero disco. Perché i Katatonia, così come molte altre band scandinave, si sono presentati, fin da “Brave Murder Day”, come una delle band più originali del doom metal non solo europeo. Per cause di forza più o meno maggiore hanno poi preso una strada diversa che ha portato ad esperimenti parzialmente riusciti come “Tonight’s Decision”, prima di sfornare i veri capolavori: “Last Fair Deal Gone Down”, “Viva Emptiness”, “The Great Cold Distance”. Album nei quali la band aveva portato ai massimi livelli una formula che coniugava il doom degli esordi all’alternative rock, una formula che non copiava nessuno e che nessuno è mai riuscito a copiare. Di band con una storia simile la Scandinavia è piena. Citiamo gli Amorphis, citiamo i Borknagar, ma senza perderci in inutili elenchi senza fine. Diciamo piuttosto che i nostri hanno trovato una formula collaudata, e di indiscutibile qualità, che troverete anche in “Dead End Kings”.

A cominciare da “The Parting”, l’album si presenta nel pieno stile dei Katatonia: la voce di Renkse si staglia per pochi attimi nel silenzio ed introduce la band, che irrompe con chitarre pesanti e drammatiche. Nel proseguo si nota la svolta atmosferica di “Night Is the New Day”, con pianoforte minimale e tetre orchestrazioni più o meno immanenti. “The Parting” prosegue tra momenti di calma ed agitazione, tastiere e chitarre più o meno dilaniate, rivelando un songwriting collaudato e una cura per i dettagli non comune. Si continua, poi, con un altro pezzo più che buono, la malinconica “The One You Are Looking For Is Not Here”, che potrebbe rubare a “My Twin” la palma di Katatonia singolo perfetto, grazie ad un ritornello di facile presa con coretti di sottofondo e la comparsata di Silje Wergeland (The Gathering se ci fosse bisogno di dirlo) e a mille sfumature sonore. Proprio questo brano introduce molto bene l’idea di tutto il disco, in cui bene o male i momenti di calma spadroneggiano su quelli di furia cieca.

Ad esempio in “Hypnone” il ritornello, che potrebbe cedere ad una buona sfuriata sullo stile di “July”, viene mitigato da pochi, semplicissimi tocchi di piano. Altro pezzo interessante è “The Racing Heart”, dove si fanno sempre più presenti le atmosfere minimali, con un vago gusto elettronico, una specie di “Frozen” con le chitarre sul ritornello. In “Buildings” sembra quasi che i maestri si rifacciano agli allievi, tanto il suono di Norrman e soci insegue quello ottenuto dai Klimt 1918 in “Dopoguerra”, mentre “Leech” sembra una versione modernizzata, arricchita, ripulita e un po’meno monocorde di “Dispossession”, ancora, con un’ottima leading guitar. L’album, secondo buona tradizione degli svedesi, si presenta omogeneo e compatto, nonostante i vari cambi di velocità. L’unico brano a distaccarsi un po’ è “Undo You”, con una lunga intro di sapore progressive e molto molto onirica, tanto da essere un peccato che l’intro non diventi una canzone vera e propria, anche se, alla fin fine, “Undo You” è uno dei pezzi più trascinanti del disco. Chiudono poi tre brani che continuano a dosare molto bene velocità ed introspezione, “Lethean”, “First Prayer” e “Dead Letters”.

Ora, per quanto detto in apertura e quanto detto in sede di analisi, è ben chiaro che i Katatonia, trovata in “Viva Emptiness” la loro forma migliore, hanno deciso di portarla avanti ed affinarla senza indurre grandi cambiamenti. Per questo vi troverete ad amare anche questo nuovo lavoro, come avete amato “The Great Cold Distance” e tutti gli altri. Così come chi non li ha sentiti prima (magari perché nato nel 1995) troverà pane per i suoi timpani ed avrà l’idea che Renkse e soci facciano una gran bella musica. Giusto ed innegabile. Ma fra dieci anni, chi vorrà una colonna sonora per la pioggia autunnale ripescherà “Dispossession” e “The Future of Speech”, chi sarà incazzato col mondo si rivolgerà a “Will I Arrive” e “Ghost of the Sun”, chi vorrà assaggiare angoscia e disperazione si sparerà “Tonight I’m Nothing” o “Deliberation”. Molti di meno torneranno a “Dead End Kings”.

Formazione:
Jonas Renkse – vocals, lyrics, production
Anders Nyström – lead guitar, production
Daniel Liljekvist – drums
Per Eriksson – guitar
Niklas Sandin – bass

Guest:
Silje Wergeland – vocals on “The One You Are Looking for is Not Here”
Frank Default – keyboards, strings, and percussion
David Castillo – production

Tracklist:
01 The Parting
02 The One You Are Looking For Is Not Here
03 Hypnone
04 The Racing Heart
05 Buildings
06 Leech
07 Ambitions
08 Undo You
09 Lethean
10 First Prayer
11 Dead Letters

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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