Recensione: Dead God’s Prophet

Di Daniele D'Adamo - 28 Agosto 2015 - 16:29
Dead God’s Prophet
Band: Ogotay
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2015
Nazione:
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75

Ennesima proposta proveniente dalla Polonia, gli Ogotay, con il secondo album “Dead God’s Prophet”, infoltiscono la già densa pattuglia delle band facenti parte dell’ormai celebre ‘polish death metal’.

Una pattuglia le cui peculiarità sono note a tutti gli amanti del genere, e i cui ensemble s’intersecano spesso fra loro, parlando di musicisti; esattamente come in questo caso (Śvierszcz, voce e basso: ex-Yattering, Sainc, ex-Nyia; Gufi, chitarra: Mess Age, ex-Asbeel; Pieczar, chitarra: Fulcrum; Simon, batteria: ex-Abysal, ex-Alienacja, ex-Pandemonium). Un intreccio che, senz’altro, contribuisce a rendere omogeneo, in termini di dettami stilistici di base, il death metal proveniente dal Paese mitteleuropeo.

Gli Ogotay, continuando il discorso sopra accennato, nella classica (per il death polacco) formazione a quattro, propongono quindi un death metal piuttosto ortodosso, ben fondato nelle menti e nelle membra degli act seminali della foggia musicale di cui trattasi, come Vader e Behemoth. Ben vivo, pertanto, il richiamo al black metal (‘blackened death metal’…) ma, soprattutto, la continua alimentazione di quell’atmosfera grigia, tetra, cupa che, forse, più di ogni altra cosa caratterizza il metal estremo proveniente da quelle lande. Senza calcare la mano come hanno fatto nel recente passato gente come i Crionics, gli Ogotay permeano “Dead God’s Prophet” di quella sottile e impalpabile crosta di ghiaccio. Ghiaccio, sporco, terroso, contaminato; da immaginarsi proveniente da terre devastate definitivamente dall’inverno nucleare.

Nemmeno a dirsi, Śvierszcz e la sua accolita sono perfettamente preparati, tecnicamente, per cui le song del platter, oltre ad essere spaventosamente terremotanti, presentano dei picchi di tecnicismo che, mai esagerando, contribuisce a donare al disco la predetta sensazione di glacialità. Professionalità ai massimi livelli, quindi, per una produzione raggiungibile, come qualità tecnico/artistica, soltanto dagli americani, oggi.       

Agli Ogotay, proprio, per via del cantato di Śvierszcz, si potrebbe imputare una certa difficoltà a creare un sound tutto loro. Il vocalist, difatti, è di chiara ‘scuola Piotr Paweł “Peter” Wiwczarek’, con quel suo roco growling leggero ma assai stentoreo, possente da petto in fuori. Sono sufficienti, però, brani dagli intarsi lisergici come “Entering The Void”, per comprendere che anche il complesso di Gdańsk sia comunque riuscito a manifestare all’esterno la sua natura interiore.

Ma è in “Bastards And Orphans” che, a parere di chi scrive, la scuola polacca mostra quel qualcosa in più che da altre parti non si trova. Il pezzo è trainato da un pazzesco blast-beats che va ben oltre la barriera del suono, entrando nella trance da hyper-speed. Ciò nonostante, la potenza del sound non subisce alcun calo, alcun appiattimento, anzi. Tutto resta possente, profondo, con gli strumenti sempre lì, perfettamente individuabili. Con il titanico main-riff a farla da padrone, per viaggiare nell’etere alla velocità della luce.   

“Dead God’s Prophet” resta in ogni caso un lavoro difficile da comprendere prima, da assimilare poi. La similitudine degli Ogotay con altri ensemble polacchi può ingannare chi ha poca pazienza, il quale si perderebbe l’ennesima opera di eccellente qualità complessiva proveniente dai territori dell’ex… oltrecortina di ferro.  

Daniele D’Adamo

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