Recensione: Deafcon: one

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 4 Gennaio 2021 - 8:30
Deafcon: One
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Il noto scrittore (e non solo) Gianni Rodari apre la sua nota poesia Parole Nuove con un distico interessante, visionario e che, se fosse vero, potrebbe apparire risolutivo. Rodari scrive semplicemente così: “Io conosco un signore /che inventa parole nuove […]. Queste parole a distanza di anni sembrano scritte proprio per essere calate nella realtà degli Invisible Horizon, band italiana nata nel 2016 e definita come, appunto in maniera originale e “nuova”: Italian Fresh Metal Band. Sicuramente Rodari non conosceva l’autore (o gli autori) di questa particolare definizione musicale, ma di sicuro questa appare originale e “nuova”, proprio come il poeta aveva anticipato e proprio come questo nuovo progetto musicale effettivamente si configura.

Se l’idea sottesa alla definizione della band è quella di far emergere un prodotto musicale “fresco”, svecchiato e poco diffuso, l’obiettivo, con l’album ‘Deafcon: One’ (2020), è stato pienamente centrato. Gli Invisible Horizon, con questo disco autoprodotto, si guadagnano meritatamente un posto privilegiato nel panorama del Metal nostrano nonostante il rischio corso presentando un progetto autentico e avulso dai normali canoni del genere, anche se in qualche passaggio con delle soluzioni non troppo originali. I nostri con ‘Deafcon: One’ aderiscono al noto aforisma di H. Melville, il quale sosteneva che “è meglio fallire nell’originalità che avere successo nell’imitazione”, ma il rischio corso li emancipa dal fallimento, in quanto il risultato è degno di nota.

L’ascolto dell’album è assolutamente piacevole e si nota come la band torinese riesca a destabilizzare l’ascoltatore non offrendo, in tutta la durata del disco, dei punti cardinali precisi e stabili grazie ai quali orientarsi, perché si fa fatica a poter collocare ogni singolo brano nell’alveo di un genere, infatti si passa da pennellate Power Metal ad altre Progressive, fino ad approdare a un piacevole Hard Rock. Tutto questo però tenendo fede a una linea rigorosa, cioè quella di caratterizzarsi come un disco “cantatocentrico”. Infatti la bellissima voce del session musician Marcello Vieria è sempre in bella evidenza, con delle melodie interessanti e in grado di catturare, da subito, l’attenzione dell’ascoltatore.

Il cambio di paradigma, per dirla alla Thomas Kuhn, rispetto ai soliti standard riesce perfettamente agli Invisible Horizon i quali sono molti attenti alla varietà dei pezzi, all’attenzione prestata nel collocare alcuni dettagli e talune sfumature. Che la band sia attenta e professionale lo si apprezza anche dal fatto che loro avevano pronti circa 15 brani da inserire nell’album, ma di questi ne hanno scelti soltanto 9, cioè quelli che rappresentavano al meglio l’idea del loro progetto.

Il disco è suonato e prodotto davvero bene e questo non è di poco conto in quanto rappresenta un piacere per le orecchie che lo possono apprezzare anche dopo molti ascolti dai quali emerge sempre qualcosa di diverso, ma sempre in linea con le loro capacità tecniche e compositive.

L’attuale line-up vede Paolo Carrone e Alessandro Cultrera alle chitarre e Davide Avetta al basso. Il trio è attivo dal 2016 e ha come valore aggiunto una notevole esperienza live.

Dopo un opener strumentale (di quelle a cui siamo purtroppo abituati da qualche tempo e che non fanno altro che rovinare la sorpresa), ovvero ‘Topless Beers, Free Bartenders and False Advertisement’, emerge l’ugola di Marcello Vieira (segnalato come session musician), un artista, come già detto, molto abile dietro al microfono. A tratti la sua timbrica ci fa ricordare Michele Luppi, soprattutto nei graffiati e nel modo di interpretare alcuni passaggi. Notevole lavoro e gran bella sorpresa. Le seguenti ‘Roll the Dice, Too Late for Canada’ e ‘Tune of the Dead’ sono piene di riff Hard Rock e riportano a quelle sonorità tipiche che hanno reso celebri i Revolution Saints (d’altronde celebri lo erano già, calcolando il curriculum spaventoso dei componenti) negli ultimi anni. Le parti di chitarra non brillano dunque di originalità (come in effetti risulta anche in altre parti del lavoro), ma sono davvero ben presentate e riescono a trasmettere una carica notevole all’ascoltatore.

Alcuni intrecci di chitarra risultano molto ricercati e vi sono echi di Alfred Koffler alle sei corde, almeno nel modo di concepire alcuni riff e in effetti, tra i nomi già citati fino ad ora, non è improbabile associare i nostrani ai Vision Divine e ai Pink Cream 69, in un delizioso mix davvero ben riuscito e senza dubbio pirotecnico.

Il lavoro interamente prodotto dal trio è stato mixato da Aki Sihvonen e masterizzato da Mika Jussila presso gli Finnvox Studios, studi messi a disposizione di nomi quali Sonata Arctica, Nightwish, HIM, Apocalyptica e molti altri. Dunque una garanzia e il risultato non lascia spazio ai dubbi. La produzione del platter è nitida e potente, gli strumenti sono definiti e la loro spazialità non è mai messa in discussione, eccezione fatta per le backing vocals, molto al di sotto e quasi del tutto fuori campo, ma questo è solo un dettaglio.

Tra le più belle opere incluse in ‘Deafcon: One’ vi è senza dubbio ‘The Honest Revenge of the Freaks’, con un chorus trascinante e un groove davvero intenso. Notevole biglietto da visita, soprattutto con l’apporto di Marco Binda al drumming, accreditato come session musician e in line up dal 2016 con i Dark Lunacy.

L’album fa emergere una considerazione che deve far riflettere: il panorama metal italiano, anche nella sua declinazione underground, è in grado di offrire dei prodotti che meritano di essere attenzionati e ascoltati, come ‘Deafcon: One’ degli Invisible Horizon sta a testimoniare.

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