Recensione: Death Above Life

Possiamo considerare gli Orbit Culture come uno degli astri nascenti del metal a livello globale, e lo dimostra una carriera costantemente in crescita che arriva ad ottenere un prestigioso contratto con Century Media. Per chi mastica pane e underground la band svedese non è di certo una novità; sono ben cinque gli album pubblicati e oggi ci occupiamo del freschissimo e profumatissimo Death Above Life, teoria e pratica di ogni mid tempo.
Partiamo comunque dall’inizio, cosa suonano gli Orbit Culture? Death metal in chiave modernissima, prodotto in maniera inaudita ma allo stesso tempo piuttosto orecchiabile e con qualche venatura industrial. Sembrano la versione 2.0 dei mai troppo compianti Gardenian di Sindustries, con una struttura dei brani che offre quasi sempre una strofa in growl e un ritornello clean. La caratteristica principale di questi ragazzi è quella di avere un groove pazzesco e un’aggressività di fondo micidiale. Impossibile restare fermi durante l’ascolto e dal vivo una proposta del genere potrebbe essere in grado di spostare l’asse terrestre.
Death Above Life prosegue quindi il discorso del precedente, ottimo, Descent, e consegna alla storia una band in forma smagliante. Prendete una console o un pc, lanciate Cyberpunk 2077 e gli Orbit Culture saranno una colonna sonora perfetta. Quello che potrebbe far storcere il naso è tutto l’universo clean che la band propone: le linee vocali sono parecchio migliorate nel tempo anche in fase di produzione, ma parliamo sempre di un timbro di voce altamente vendibile e che alla lunga potrebbe risultare stucchevole. Tutti i brani del disco potrebbero essere un potenziale singolo e sono eseguiti in maniera eccellente; messi insieme, però, non reggono il lungo periodo perché il modus operandi viene ripetuto allo sfinimento e finisce per venire a noia.
Ogni traccia purtroppo è un mid tempo servito in tutte le salse possibili con sempre strofa growl – ritornello clean come base e non ci si schioda da lì tranne in Bloodhound (che paga un tributo salatissimo agli Slipknot) e la nerissima titletrack, che è uno dei brani più riusciti. Death Above Life è quindi un’opera che, di primo acchito, esalta alla massima potenza per poi stabilizzarsi su un ascolto piacevole e poco altro. E’, oltretutto, un disco troppo schiavo del suo personaggio e che avrebbe dovuto essere meno impostato; ci sono delle aperture fenomenali, degli stacchi mostruosi e delle melodie molto belle, ma quando è ora di tirare fuori gli artigli si torna sempre indietro e al sano e confortevole mid tempo, che taglia le gambe a tutto.
Chiude le ostilità The Path I Walk, un ballatone che arriva quasi come una ventata d’aria fresca e dove finalmente c’è una variazione sul tema, ma ormai è troppo tardi. Inutile ribadire che ci saremmo aspettati di più da Death Above Life, che invece si colloca qualche gradino sotto Descent, dove onestamente c’era una marcia in più. Tutto ciò non fermerà comunque l’ascesa degli Orbit Culture verso palchi sempre più grandi e una fanbase ancora più cospicua. Discograficamente promuoviamo con riserva.