Recensione: Death March

Di Vittorio Sabelli - 4 Marzo 2014 - 21:37
Death March
Band: Coprolith
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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70

Negli ultimi tempi il termine black metal è stato senz’altro inflazionato e spesso ridotto a composizioni e album che di quella particolare ‘ondata’ hanno anche meno del nome stesso, poiché il contenuto si riduce a emulazioni o sequenze di pochi accordi minori. Ancor più se si considerano le contaminazioni con altri generi, a partire dal ‘cugino’ death metal. Spesso abbiamo assistito a dei veri e propri capolavori quando i due venivano a contatto, ma per la maggior parte delle volte anche questi tentativi sono andati a picco, abbassando il livello di autostima del genere.

Per fortuna negli ultimi tempi molte band si sono mosse verso la sperimentazione con un minimo di cognizione di causa, non solo perché “black è trend”. Tutt’altro, ci sono diverse realtà nei cinque continenti che lasciano buone speranze per il futuro, e i primi a saltare in mente sono gli americani Seeker, capaci di una contaminazione con una sorta di free jazz che li ha portati ad esplorare ambiti e territori davvero da far venire l’acquolina in bocca agli amanti del ‘nuovo’.

Ma vediamo come si collocano i finlandesi Coprolith in questo vasto e plurinflazionato universo. Intanto dal 2001 la band si è creata un discreto seguito, dopo due demo e il debut-album “Cold Grief Relief” datato 2010. Questo ha permesso ai Nostri di ‘aprire’ concerti per Deicide, Arch Enemy, Gorgoroth e Lamb Of God tra Cina ed Europa. Insomma, le premesse sono buone, vediamo cosa si cela dietro l’immagine di “Death March“.

L’ “Intro: Without God” è uno slow time in cui la voce clean ma tenebrosa di Pakarinen sorregge gli accordi lenti e solenni delle chitarre, presto dissipati e spianati a mitra in “Prelude To Depression”, che integra la doppia cassa di Tervo e il suo drumming, preciso e con un sound pregevole, fino a raggiungere il climax in una scarica di proiettili, non appena la voce del leader si abbatte su questo combattimento feroce. Solo il puntuale break (che ritroveremo spesso a seguire) può salvarci dalle loro grinfie. “Life=Disease” e “This Nightmare” sono buoni brani, ma non esaltanti come gli altri.

Anche il djent iniziale di “For Infernal” non promette niente di buono, se non fosse per la seconda parte che compensa quest’escursione poco felice e scontata, tra un solo di chitarra e una progressione armonica non particolarmente esaltante, ma comunque oscura e ben organizzata dal drumming di Tervo, che è una macchina programmata per assassinare gli ascoltatori, al limite dei sentimenti umani. Ulteriore riprova ne è la successiva “Hate Infected”, dove le chitarre del duo Pakarinen/Mikkonen prendono in prestito la lezione dei compianti Dissection, soprattutto come sovrapposizione. Ma ben presto torna la quiete apparente che vede Pakarinen esprimere il suo cavernoso growl nel tripudio generale, che sfocia in qualche assaggio di *-core e poi finalmente in un solo melodico che spezza l’aria rovente. Stessa sorte per “Pleasure Of Pain”, violenza pura con qualche inserto death metal piuttosto che thrash per indurci a chiedere di finirla quì. Ma non c’è scampo, anzi proseguendo con l’ascolto 

“Towards The Axiomatic Pain” è un’altra tranvata sui denti, se non fosse per qualche breve arpeggio oscuro che perlomeno stempera l’andamento, così come la ‘strofa’, orecchiabile e in mid-tempo. La sezione centrale, dispari e acustica lascia ben presto spazio a un ulteriore attacco da parte dei Nostri, che non trovano quiete, se non nell’intro della title-track conclusiva “Death March”, introdotta dal rullante a mò di marcia e le campane in sottofondo, presagio di non buone notizie. Un ritmo ripetitivo fa da cornice a incursioni chitarristiche su un riff ossessivo, sul quale ancora Pakarinen prende il comando, per condurre prima a un solo di chitarra e poi a una sezione lenta e declamata, preludio di quello che è il finale, una sassata dritta in fronte, tra accordi dissonanti e cacofonia ‘controllata’, che abbatte i nostri sensi già messi a dura prova in precedenza.

Un ultimo rintocco decreta la fine delle danze, danze macabre e ostiche quelle dei Coprolith, che richiedono un livello di concentrazione elevato per seguire di un filo il loro discorso contorto e variegato. Se possa valerne la pena fino in fondo non so, di certo i quattro hanno fatto passi da gigante, dando al black metal un giusto compromesso con l’integrazione di altri generi, che alla lunga credo gli diano pienamente ragione. Disco senz’altro impegnativo che vi darà le giuste sensazioni…ma non a partire dai primi ascolti.

Vittorio “versus” Sabelli
 

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