Recensione: Deracinated Celestial Oligarghy
Spesso e volentieri, negli ultimi tempi, si è discusso sull’importanza che la scena death metal italiana sta assumendo, localmente, ma anche a livello internazionale e sulla validità delle sue proposte. Tanto vale, quindi, evitare inutili panegirici sulla qualità delle uscite nostrane in questo campo e buttarsi senza esitazioni nell’ascolto di Deracinated Celestial Oligarchy, prima fatica sulla lunga distanza (dopo uno split con i Recreant nel 2007 e un promo nel 2011) dei modenesi Unbirth, giovane e promettente band che, arrivata al contratto con la giapponese Amputated Vein Records, label specializzata nel genere, propone agli appassionati un concentrato di brutal death metal di stampo US e dai forti connotati tecnici (vedere alla voce Suffocation, in primis). In poco più di mezz’ora, la compagine emiliana, attraverso un concept fantascientifico tutto da approfondire, riesce a sintetizzare violenza e precisione, efferatezza e implacabilità, senza mai cadere nei cliché più splatter del genere, né nel parossistico tecnicismo strumentale fine a se stesso.
Abbiamo questa volta a che fare con un lavoro assolutamente compatto, uniforme, senza apparenti divagazioni da quello che è il canovaccio di base: pezzi brevi (tra i tre e i quattro minuti), caratterizzati tutti da elevata velocità e da una buona gestione delle ritmiche: gli innumerevoli cambi di tempo all’interno dei pezzi rendono gli stessi decisamente poco noiosi, seppur simili gli uni con gli altri. L’album, passato per quanto riguarda mix e master per gli ormai famosi 16th Cellar Studio di Roma, vera e propria fucina del miglior death italiano, è caratterizzato da suoni ottimi dove ciascuno strumento, voce compresa, trova la sua perfetta definizione e, in sinergia con gli altri, crea un tutt’uno efficace.
Se l’inquadratura dello stile degli Unbirth è immediata, più difficile risulta apprezzare tutte le sfaccettature di ciascun pezzo: le ostilità si aprono con Embrace The Permeation Of Plague, che subito definisce le caratteristiche cruciali del death metal dei Modenesi: pressoché totale mancanza della struttura classica strofa-bridge-chorus di facile accesso e costruzione totale del pezzo attorno al rifferama creato dalle chitarre; il duo Ottani/Baroni, infatti, non “spreca” nemmeno un secondo né nel semplice accompagnamento del brano, né nella ricerca spasmodica di stacchi solistici prolungati (comunque mai in primissimo piano), ma si produce in un continuo lavoro di ricerca del fraseggio più strutturato sulla tastiera, ai fini di irrobustire la composizione: una scelta certamente rischiosa, che può rendere ostico l’ascolto, ma che eleva il rango dei pezzi proposti. Siamo certi che chi apprezza il genere – ma anche chi nel passato si è appassionato ai lavori di una band storica come i Dark Angel – potrà capire. Discorso simile può esser fatto per l’ancora più aggressiva e veloce Will Of Atlantis, che a livello lirico in alcuni passaggi sembra rimandare a scenari di lovecraftiana memoria. Simili ambientazioni per la pachidermica Sterile Planets, mentre con Entitlement of Scourge e con Incestous Warpath gli Unbirth accennano i primi tentativi di variazione: nel primo caso con versi più decisi che riescono ad essere meglio memorizzati, nel secondo con il primo vero assolo di chitarra dell’album. E se Absence Of Form è un’altra, annichilente esasperazione sonora di riff senza soluzione di continuità, è con gli ultimi pezzi dell’album che i Nostri “danno tregua” all’ascoltatore, grazie sia a passaggi più cadenzati e up-tempo (Truth Beyond The Sands Of Dogma), sia ad accenni di rallentamento (The Last Glare Before The End e Towards The Eternal Silence).
Sono forse necessari ripetuti ed approfonditi ascolti, ma è comunque possibile definire questo notevole lavoro di squadra come un’uscita positiva. Con Deracinated Celestial Oligarchy, gli Unbirth si presentano al pubblico degli appassionati con un pugno di canzoni solide e convincenti. Certo la concorrenza, in Italia e all’estero, è accesa e non sarà facile conquistarsi un posto di rilievo davanti a chi il genere lo ha inventato o lo porta avanti da tempo; il consiglio che chi scrive si sente di dare ai Modenesi è quello di investire quanto più possibile nelle variazioni sul tema portante e nel puntare ad arricchire i pezzi di passaggi di più ampio respiro, non tanto per accontentare chi è meno abituato a certe sonorità, quanto piuttosto per ampliare la gamma di soluzioni che ciascun brano potrà offrire.
Vittorio “Vittorio” Cafiero
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