Recensione: Destination

I Crematory sono un po’ come i camaleonti. Cambiano il colore della pelle al mutare delle condizioni esterne. Detto in termini di stile, essi, i Crematory, si adattano a ciò che sia più moderno possibile nel campo del metal estremo e non.
Dalla loro nascita, avvenuta nell’ormai lontano 1991, ne è passata di acqua sotto i ponti e, più specificamente, nel caso in ispecie, di gothic, death e industrial. Il tutto sfumato lungo una carriera che nel carnet di caccia contiene ben sedici full-length poiché, ovviamente non ci sono distinzioni nette fra un genere e l’altro. Il tutto è accaduto con naturalezza, implicando pertanto una solida consapevolezza dei propri mezzi, soprattutto a livello artistico, posto che la tecnica non si discute.
Con “Destination“, l’ultimogenito, si raggiunge, a parere di chi scrive, il modern metal. Un genere che non sempre viene recepito con il giusto significato, giacché, se si segue la storia, è in realtà una forma di melodic death metal che ha declinato verso dettami meno incisivi rispetto a quelli di partenza.
Con questo non vuol dire che i tedeschi siano diventati una band commerciale, a uso e consumo di orecchie poco attente. Anzi, la potenza in gioco è sempre e comunque elevata, e il sound è massiccio, se non granitico in alcuni passaggi più duri. Ciò che sorprende è che la melodia, onnipresente nelle tracce del disco, si coniuga alla perfezione ai citati passaggi meno delicati. Come esempio è sufficiente prendere la opener/title-track “Destination“, in cui la chitarra macina riff arcigni e dal suono a segaossa, per poi convergere in un ritornello molto semplice ma che ha il pregio di diventare un tormentone metal di tutto rispetto.
Gran parte del merito di questa sapiente antitesi è di Felix Stass, cantante fondatore il quale, con il passare del tempo, oltre a dare il tono al sound, è diventato sempre più incisivo e professionale. Le linee vocali seguono il trend musicale, potendo contare su un preciso, ruvido e cattivo, ma non troppo, growling, e su una voce pulita degna di un vocalist di AOR, giusto per rendere l’idea. Linee vocali che rasentano la perfezione relativamente al genere cantato, insomma, come si può desumere dall’eccezionale prestazione resa in “My Girlfriend’s Girlfriend“, cover dei Type O Negative.
È logico che con un frontman di questo livello diventi tutto più facile, se ci si pone il problema di creare, onere a carico dell’altro membro fondatore superstite, e cioè il batterista Markus Jüllich, e al chitarrista Rolf Munkes, anche responsabile delle registrazioni. Le quali restituiscono un suono finale assolutamente irreprensibile in tutte le sue componenti, facilmente separabili le une dalle altre, in grado tranquillamente di sostare accanto alle produzioni più costose.
Suono in cui compare di nuovo la capacità del combo teutonico di saper bilanciare con efficacia e precisione generi diversi come quelli menzionati all’inizio. Non solo sfumati nel tempo, quindi, ma anche all’interno dell’album. Il quale, contenendo in sé anche la discendenza gotica, ha un umore tutt’altro che allegro, essendo attraversato da un filo di sottile malinconia, in alcuni passaggi vera e propria tristezza. Un mood che consente di approfondire, rendere spesso il pulsare emotivo delle canzoni.
I brani, a tal proposito, a cercare il pelo nell’uovo, non si rivelano di fattura eccelsa così come lo è lo il sound. Nell’insieme sono più che discreti, anzi qualcosa di più, e non ottimi, dato che c’è un certa altalenanza nell’armonia composizione; nel senso che accanto a tracce esplosive come la ridetta title-track, la splendida “Deep in the Silence“, grande anzi grandissima song, e la poderosa ma orecchiabile “Banished Forever“, ce ne sono altre meno incisive.
Appare quindi evidente che se tutto “Destination” contenesse singoli episodi del livello artistico di “Deep in the Silence“, per esempio, ci si troverebbe davanti a una meraviglia. Ciò non accade ma non inficia comunque la bontà di un’opera da ascoltare con molto piacere. Del resto i Crematory non sono di primo pelo, e il loro sporco, dannato lavoro lo sanno fare, e bene.
Daniele “dani66” D’Adamo