Recensione: Devil’s Whorehouse

Di Giuseppe Casafina - 28 Aprile 2016 - 12:07
Devil’s Whorehouse
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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70

Infarcito di un’attitudine di concepire il metal estremo che pare essersi fermata al 1984, quando  il debut album omonimo di Bathory e la prima trilogia dei Venom rappresentavano il massimo fino ad allora mai concepito in ambito di estremismi sonori, produrre e di conseguenza ascoltare un disco come “Devil’s Whorehouse” oggi, nel 2016, vuol dire avere una linea di principi fermamente salda e particolarmente immune al trascorrere delle epoche e delle mode che queste inevitabilmente si portano appresso: un comparto tecnico oscillante tra il minimale e lo scarsamente dotato (almeno a giudicare dai vari ‘zoppicamenti’ strumentali che non di rado compaiono tra un brano e l’altro) alla sei corde, una prestazionale vocale volutamente monocorde, un basso armonicamente povero per gli standard in multicompressione attuali ed un comparto ritmico essenziale.

Su queste basi, al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare, posa un lavoro infarcito di una malvagità che al giorno d’oggi pareva ormai fuori tempo massimo, arcana e dimenticata, propria dell’attitudine underground di ormai tre decenni fa: quindi è inutile giudicare un ensemble quale i Power From Hell confrontandolo con le attuali uscite del mercato estremo, perché non avrebbe senso.

Non sarebbe rispettoso nei confronti di un’attitudine così genuina, in primis per la motivazione radicata della logica secondo cui, per suonare questo genere di sonorità nel 2016, bisogna essere convinti sul serio di quello che si fa: ed un disco come “La Casa delle ‘Signorine’ del Diavolo” centra abbondantemente il bersaglio, lanciando dal proprio arco frecce di rara ignoranza, ricolme di una sfrontatezza ormai arcaica ma mai ridondante se perseguita nel modo giusto, che a loro volta corrispondono ai singoli tasselli che compongono questa quinta tappa discografica della bestia brasiliana (il precedente, “Lust and Violence”, risale al 2011).

Il fulcro del lavoro è radicato nell’insieme della sua polverosa malignità, ma se proprio dovessi citare il top allora lo farei con il mid-tempo catacombale di ‘Black Forest’, per via del suo incedere proto-black metal in pieno stile “Under The Sign Of The Black Mark”, oppure con la goduria lussuriosa di ‘666 Ways to Blasphemy’, e magari anche il perverso incedere ‘punkeggiante’ di ‘Armageddon’ (la cui palese somiglianza con l’omonimo brano di Bathory è sicuramente voluta)….ma sono cose di poco conto, perché una volta superato lo shock di ritrovarsi effettivamente nel 2016, non ci resta che abbandonarci ai diabolici Sabba di un disco che di certo non sarà un capolavoro, ma che di sicuro rappresenta un ben più che sincero manifesto di un’attitudine e di determinate sonorità che ancora oggi resistono e che, soprattutto, riescono a percuotere con efficacia gli animi degli extreme metallers più genuini.

Le radici del Male.

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