Recensione: East of Sun

Di Stefano Usardi - 1 Giugno 2018 - 8:44
East of Sun
Band: Gatekeeper
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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83

Gran bell’anno, questo, per l’heavy di stampo eroico! Dopo gente come Visigoth e Solstice (per dirne due) arrivano anche i canadesi Gatekeeper ad arroventare un palinsesto di tutto rispetto con il loro debutto “East of Sun”. Messi sotto contratto dalla nostrana Cruz del Sur, i nostri arrivano alla pubblicazione dopo una gavetta durata quasi dieci anni, e, lasciatemelo dire subito, lo fanno col botto. “East of Sun” è un signor album, agguerrito e poderoso, un’epopea heroic fantasy messa in musica e meravigliosamente introdotta da una copertina (creata da Duncan Storr, già autore di lavori per Skyclad, Rage e Dark Forest) che se non è una dichiarazione d’intenti non so cosa davvero possa esserlo. I Gatekeeper fanno, come già detto, un heavy metal tutto muscoli, eroismo e arroganza che, ne sono abbastanza certo, al signor R. E. Howard (i cui racconti sul barbaro più famoso del mondo fungono da base per alcuni dei testi) sarebbe piaciuto un sacco per la sua genuina forza ed intrinseca aggressività, stemperate dalla giusta dose di trionfalismo spinto, melodie arcigne e sporadici squarci di malinconia. Gli anni passati hanno permesso ai nostri di affinare le loro abilità e concentrarle in modo estremamente produttivo, consentendo a questo esordio di suonare solidissimo e bello arzillo nonostante una materia trattata fin troppo sovraesposta e inflazionata. Immaginate la sfacciataggine dei primi Manowar e mescolatela al gusto per le melodie degli Omen (non a caso nella versione CD dell’album è presente una cover di “Death Rider”) e i profumi antichi dei Manilla Road. In realtà basterebbe solo la prima traccia, “Blade of Cimmeria”, per capire che stiamo per finire intrappolati in un vortice di sangue e acciaio in perfetto stile sword and sorcery e si salvi chi può. Riff rapidi e decisi alternati a power chord coatte aprono le danze, mentre Jean Pierre (ex voce dei Borrowed Time sotto lo pseudonimo di J. Priest) inizia a grattugiarsi le corde vocali con toni alti e forzati, caricati da pesanti dosi di arroganza per mettere subito le cose in chiaro e ricalcando a modo suo le orme del signor Eric Adams. La traccia è un continuo assalto all’arma bianca impreziosito di tanto in tanto da melodie parimenti guerrafondaie, e cede fin troppo presto la scena alla successiva “North Wolves”. Qui i tempi rallentano sensibilmente per indulgere in un certo epos solenne, quadratissimo e marziale, sempre marcato stretto da una voce isterica e irosa che, però, di tanto in tanto viene stemperata da alcuni passaggi di voce, diciamo così, pulita e dagli immancabili cori virili, sulla cui presenza il manuale del perfetto truemetallaro non transige. L’ultima parte della canzone si carica ancor più di solennità grazie alla sezione strumentale che sfuma in una breve nota mesta. Una rullata apre “Warrior Without Fear”, mid tempo agguerrito in cui le chitarre macinano riff abbastanza classici ma sempre d’impatto e i rallentamenti in corrispondenza del ritornello servono per impennare il tasso di cafona tracotanza del pezzo, mentre con “Ninefold Muse” i nostri calano uno degli assi. L’apertura è lenta, minacciosa, sulfurea (lo spettro di “Into Glory Ride” aleggia insistentemente sulla composizione) grazie a una sezione ritmica quadrata e chitarre che solo in rare occasioni si aprono a fugaci sprazzi di melodia meno che sinistra. Un breve arpeggio prelude all’assolo sostenuto dagli intrecci dei cori e poi via, si torna ai riff crudeli e pesanti che, improvvisamente, si aprono in un finale dal mood assai più trionfale, chiuso in extremis da un ultimo vagito di malinconia. In “Bell of Tarantia” e nel suo incedere propositivo si respira profumo di vecchi Omen, mentre i tempi si fanno più sostenuti per confezionare una solida cavalcata coronata dalla voce pulita di Jean Pierre, che qui abbandona del tutto le forzature vocali delle prime tracce. I rallentamenti alzano il tasso di solennità del pezzo o, come nella sezione strumentale centrale, scandiscono i tempi con un certo gusto per il groove prima di tornare alla carica per l’ultima parte di una canzone bella ma forse un po’ ripetitiva. Un arpeggio malinconico e linee vocali eteree aprono la title track, che in una ventina di secondi si carica del pathos infusole da una voce tornata raschiante sostenuta da tempi nuovamente robusti. “East of Sun” giocherella con questi cambi di atmosfera e tensione per tutta la sua durata, alternando passaggi dimessi e quasi uggiosi a rapide sfuriate coronate da una sezione solista perfettamente in linea col resto della canzone. Il rumore delle onde e una rullata militaresca aprono “Swan Road Saga”, mid tempo heavy da vecchia scuola in cui, però, la voce ogni tanto sembra perdere la sua incisività (forse per colpa di cori non sempre all’altezza della situazione); per fortuna il pathos della canzone si innalza col procedere del minutaggio, risollevando una traccia che altrimenti mi sarebbe sembrata solo carina ma nulla di più. Il ritorno dell’atmosfera maligna già incontrata in precedenza apre “Oncoming Ice”, ma ad essa si affianca una nota più sofferta che s’insinua nelle trame della composizione, contribuendo a creare una traccia interessante, a metà strada tra l’arroganza esibita nella prima metà dell’album e un’epica più dolente, tormentata. Il tasso di drammaticità qui s’impenna fino a testare i limiti di guardia, ma per fortuna i nostri si mantengono sempre al di qua dell’argine, evitando il pericolo di scadere nel caricaturale e chiudendo in bellezza un album diretto e senza fronzoli e sicuramente molto al di sopra della media. Decisamente questi signori sono da tenere d’occhio e dureranno parecchio nel mio lettore.

Capitolo cover: in realtà non c’è molto da dire, sono entrambe eseguite bene e senza grandi stravolgimenti, ma pur mantenendosi entrambe fedeli alle versioni originali preferisco quella degli Omen, forse perché nella cover di “Hall of the Mountain King” le chitarre risultano meno taglienti rispetto all’originale dei Savatage. Ad ogni modo si tratta come già detto di un gusto personale, quindi prendetelo con le pinze!

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