Recensione: Feed the Fire

Di Stefano Usardi - 8 Settembre 2022 - 9:40
Feed the Fire
Band: Trial (swe)
Etichetta: Metal Blade Records
Genere: Heavy 
Anno: 2022
Nazione:
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72

Dopo l’EP “Sisters of the Moon” dell’anno scorso, utile per introdurre il nuovo cantante in formazione, ecco che i Trial(swe) tornano alla ribalta con “Feed the Fire”, quarto album e successore di “Motherless” (ve ne avevo parlato qui). Iniziato prima dell’avvicendamento dietro il microfono e rifatto ex–novo una volta accertate le pesanti differenze tra vecchio e nuovo cantante, “Feed the Fire” abbandona le contorsioni quasi progressive che tanto mi avevano affascinato nel precedente lavoro per tornare ad esibire una certa sfrontatezza, donando nuovamente preminenza a un’immediatezza che profuma di NWOBHM. La cosa che mi era piaciuta del precedente lavoro degli svedesi era la capacità di suonare personale ma al tempo stesso facilmente riconoscibile, classico e moderno al tempo stesso, ed è bello notare che anche stavolta, seppur abbassando un po’ l’asticella della personalità, il quintetto norreno ha comunque svolto i compiti a casa. “Feed the Fire” potrebbe essere il classico lavoro che piace un po’ a tutti grazie a una resa finale immediata, coinvolgente e scorrevole: i Trial(swe) non si vergognano di tributare i giusti onori ai propri numi tutelari, è vero, ma d’altro canto non scadono mai nel banale copia/incolla di idee sbocconcellate altrove e rimasticate. A conti fatti, gli elementi chiave per fare un bel disco di heavy classico ci sono tutti: chitarre gemelle, ottime melodie, assoli impattanti, ritmi variegati ma mai scomposti, una voce stentorea e, soprattutto, la già menzionata capacità di scrivere pezzi diretti e appaganti senza sacrificare troppo la giusta concentrazione.

Superato con la solenne strumentale “Tria Prima” lo scoglio intro, i nostri cominciano a fare sul serio con “Sulphery”, che parte molto bene coi suoi ritmi agili e le chitarre croccanti. Melodie quasi power metal guarniscono una traccia che profuma insistentemente di metallo britannico e che, non contenta, si permette di coronare il tutto con un assolo dilatato e serpeggiante, dal gran feeling, per poi sciabolare una breve nota trionfale con perfetto tempismo. “Thrice Great Path” inizia in modo incombente, per poi partire nuovamente al galoppo riecheggiando a modo suo la Vergine di Ferro. Il pezzo è insistente e bellicoso, intervallato da rapidi sprazzi maestosi che ne mantengono alto il tasso d’interesse, e cede il passo all’altrettanto rocciosa “In the Highest”, la cui partenza rombante sfuma poi in un’agile cavalcata. L’imperiosa solennità della parte centrale viene interrotta da una sezione strumentale dilatata, atmosferica, dal retrogusto futuristico, per poi rialzare i giri in tempo per il finale nuovamente trionfale. “Snare on the Fowler” recupera la struttura galoppante di “Thrice…”, dando però un maggiore spazio a melodie arrembanti e una certa frenesia che, per un breve attimo a metà del pezzo, si appropria della scena per creare un supporto adeguato all’ospite della traccia, Tomas “Tompa” Lindberg, che offre una fugace (ma a mio avviso anche poco incisiva) apparizione della sua ugola sferzante. Il finale torna a dispensare melodie fulgide e galoppanti, prima di cedere il passo alla title track. Qui i nostri si buttano a capofitto nel mondo dell’epicità trionfale screziata di toni più freddi durante le burrascose accelerazioni. “Feed the Fire”, al netto di una certa ripetitività di fondo e di una strofa un po’ sottotono, si porta comunque a casa il jackpot grazie a un tiro arrogante e melodie che si stampano immediatamente in testa. “The Faustus Hood” smorza fin da subito i toni, avanzando con piglio cupo e vagamente malinconico ma senza perdere l’occasione di infilarci in mezzo qualche svolazzo melodico dal profumo drammatico. “Quadrivium” torna ad alzare anche se di poco i giri del motore, sviluppando una certa tensione sotto la superficie grazie al piglio scandito e insistente. L’intro strumentale di “The Crystal Sea”, ultima traccia dell’album, torna a dispensare una certa carica drammatica: i ritmi solenni della marcia pompano pathos ad ogni piè sospinto, scivolando sul moto ondoso di chitarre guardate a vista da una sezione ritmica cadenzata e ponderosa. La tensione subisce una breve impennata nella seconda parte del pezzo, per poi tornare alla consueta risacca solenne che sfuma, infine, in un arpeggio languido e disincantato a chiudere il tutto.

Devo dire che, nonostante il brusco cambio di rotta rispetto a “Motherless”, “Feed the Fire” mi è piaciuto: è un album che conferma le capacità del quintetto svedese e, sebbene sacrifichi l’estro multiforme per guadagnare un’immediatezza più canonica e meno fascinosa del suo predecessore, riesce comunque a farsi voler bene grazie a un piglio deciso e concentrato e un’atmosfera sfacciata e cafoncella.

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