Recensione: Motherless

Di Stefano Usardi - 13 Giugno 2017 - 9:04
Motherless
Band: Trial (swe)
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2017
Nazione:
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77

Terzo album per i Trial(swe), interessante gruppo svedese che, fresco fresco di modifica al monicker (prima si chiamavano solo Trial, ma per evitare di essere confusi con i numerosi gruppi con lo stesso nome hanno cambiato il proprio logo per includervi la provenienza: non mi credete? Controllate meglio il pallino della “I”) pubblica questo “Motherless” a due anni dal precedente “Vessels”. Per chi non li conoscesse, i Trial (per ragioni di comodità continuerò a chiamarli così durante la recensione) sono un talentuoso gruppo dedito a un heavy metal di difficile catalogazione, ricco di sfaccettature e dai toni mutevoli, capace da passare da atmosfere luciferine e stagnanti a una trasognata e psichedelica apatia, a improvvise sfuriate di chiarissima impostazione NWOBHM fino a sfiorare momenti più eterei e dilatati dal sapore progressive; il tutto viene gestito con una facilità sorprendente e, in alcuni casi, nello scorrere della stessa canzone.

Terzo album, dicevamo. Un traguardo importante: se, com’è tradizionalmente accettato, il terzo è l’album della maturità, i nostri si sono impegnati per non disattendere le aspettative e proporre un lavoro meno sfrontato del precedente, tendenzialmente meno d’impatto e più meditabondo, senza per questo rinunciare, tuttavia, a qualche bella incursione improvvisa nei territori del metallo aggressivo, soprattutto nella prima parte. A condire il tutto la voce squillante di Linus, capace di raggiungere vette considerevoli come il suo nume tutelare Dickinson, cui il nostro rimanda piuttosto spesso nel modo di cantare, senza perdere un solo grammo di personalità anche nei momenti più forzati (a cui forse ci si deve abituare un attimo).

Partenza affidata all’arrembante title-track che, dopo un inizio sinuoso e ammaliante, parte in quarta grazie a una ritmica spigolosa e dinamica e un ottimo gioco di chitarre, diretto ma avvolgente al tempo stesso grazie alle continue sovrapposizioni. Ottima traccia, ma non è che l’inizio. Eh, sì, perché già con la successiva “In Empyrean Labour” i nostri scompaginano i giochi, rallentando sensibilmente i ritmi e raccogliendosi intorno ad un brano più intimista e dilatato, in cui atmosfere rarefatte e malinconiche coesistono con improvvise sfuriate dall’andamento vorticoso e melodie a loro modo solenni e dal profumo rituale, mentre Linus decanta meste nenie. Altro brano, altra mutazione: con “Cold Comes the Night”, cavalcata smaccatamente heavy, si torna alle velocità che hanno caratterizzato l’opener, mentre le chitarre tornano a graffiare e la sezione ritmica sostiene egregiamente il resto del gruppo. Ottima anche l’incursione solista, dinamica e molto old school per la sua capacità di mescolare temi e atmosfere a volte profondamente diverse. Qualora non si fosse capito, ai nostri svedesi non piace troppo la monotonia, ed ecco che “Juxtaposed” propone un altro cambio atmosferico: qui il sentimento cardine che permea tutta la traccia sembra la malinconia, che però si carica di maggiore enfasi procedendo con il minutaggio, screziandosi di solennità e in alcuni frangenti persino di serena aspettativa. Un arpeggio controllato introduce la battagliera “Aligerous Architect” che, per il suo incedere aggressivo, tagliente e sfaccettato, potrebbe essere vista come il naturale sviluppo del precedente album “Vessels”. Una sezione ritmica propositiva detta i tempi, mentre le chitarre giocano dispensando senza soluzione di continuità riff gelidi e nerissimi, sferzate quasi dissonanti e cupi rallentamenti dal retrogusto sognante.
Con la successiva “Birth” si entra nella seconda parte dell’album, costituita da un trittico di brani dall’incedere decisamente più oscuro e introspettivo, dominati da una serie di sentimenti tra cui un’inquietudine latente che si mostrerà in più di un’occasione senza mai esplodere del tutto. Nel caso specifico, “Birth” si dispiega con la solennità di un rito sacro, dal percussionismo ossessivo ma compassato che si intreccia ad arpeggi maligni e un’ammaliante coralità appena accennata. Linus compare solo nell’ultima parte del brano, per guidarne il climax e fungere da traghettatore per la successiva “Embodiment”, che nonostante la sua maggiore corposità si mantiene su tempi scanditi e legata ad atmosfere plumbee e melodie uggiose, scandite da una ritmica frastagliata e chitarre incombenti. Il finale, speculare a quello di “Birth” e dominato da una calma introspezione, torna idealmente all’atmosfera raccolta e sacrale giusto in tempo per la traccia conclusiva, “Rebirth”, che idealmente chiude il cerchio. Dominata da un arpeggio acustico ora suadente, ora minaccioso, ora rassicurante, la traccia si irrobustisce di tanto in tanto grazie a sporadiche incursioni chitarristiche, mantenendo però il suo incedere fluttuante di fondo grazie a rapide pennellate dal profumo quasi psichedelico e alle ottime scelte melodiche.

Motherless” è sicuramente un album di prim’ordine, personale e molto ben eseguito, che però necessita, a mio avviso, di una certa attenzione e di molti ascolti per essere recepito fino in fondo: confesso che anch’io, inizialmente, l’avevo giudicato male a causa di una proposta che mi era parsa confusa e troppo eterogenea, ma procedendo con l’ascolto sono riuscito a capirne le sfaccettature e a farmi conquistare dalla sua indubbia qualità.
Concedete attenzione ai Trial: se la meritano!

Oh, pardòn, i Trial(swe)!

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