Recensione: Feel. Melt. Release. Escape.

Di Riccardo Angelini - 30 Agosto 2005 - 0:00
Feel. Melt. Release. Escape.
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Anno: 2004
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55

Si è ormai perso da tempo il conto delle sottospecie e degli ibridi cui i generi maggiori del metal hanno dato vita negli anni. Se a questi aggiungiamo la linfa apportata da tutto ciò che viene comunemente considerato rock, ecco che la varietà indistinta e multicolore del panorama metallico odierno raggiunge dimensioni da vertigine. E se questo da un lato testimonia la vitalità di un genere che, in barba ai detrattori, continua a rinnovarsi e a sperimentare nuove soluzioni, dall’altra, com’è naturale, tra tante nuove soluzioni qualcuna si rivela sbagliata. Già dal monicker – Anti-Depressive Delivery – e dal titolo dell’album – Feel. Melt. Release. Escape. – avrete intuito che ci troviamo di fronte a un progetto insolito, ambizioso e intraprendente, che incurante del rischio di tagliarsi corre sul filo di un rasoio nel tentativo di incidere il proprio nome nelle auguste pagine della musica pesante. Ora, in un’epoca in cui si corre disperatamente appresso alla novità, condannando con un impietoso “gia sentito” proposte che anni addietro avrebbero quasi fatto gridare al miracolo, basta qualche idea più o meno originale e tanta buona volontà per creare un prodotto davvero valido?

Purtroppo per questi giovani norvegesi, la risposta è negativa. Beninteso, le buone intenzioni non mancano (tutto si può dire di questo debut, tranne che sia un album ruffiano o commerciale), e le capacità tecniche per mettere in atto ogni sorta di idea, neppure. Quel che manca veramente, sembra di poter dire, sono proprio le idee. O, per essere più precisi: le idee ci sono, tante, pure troppe, ma il loro reale impulso rivoluzionario, la loro effettiva potenza fondante, al cimento coi fatti, appare ben poca cosa. Così, tra ondate zeppeliane, e venti di progressione settantiana, le concrete innovazioni chiamate a sostenere l’appariscenza sarcastica e dissacrante della (discreta) opener End of Days o della pacata, per non dire smorta, Path of Sorrow, appaiono a un attento esame assai più esili di quanto non avessero dato a intendere in un primo momento. E, quel che è peggio, nella concitata schermaglia pseudo-sperimentale, che prende in mezzo persino sfuriate in doppia cassa di matrice quasi death e bizzarrie elettroniche di dubbio gusto, ciò di cui si sente maggiormente la mancanza sono proprio le belle canzoni. Non basta infatti il baccanale di spavalda ironia che impregna testi e titoli, non basta l’astrusa complessità di partiture e arrangiamenti per uscire vittoriosi da una mischia sonora confusa e convulsa, nella quale le prime vittime risultano proprio le atmosfere e l’impatto. Capita allora di imbattersi in una Coward, o in una Penny Is a Slut Machine, che provano a spiazzare con qualche lirica spavalda e un paio di strutture balzane e un po’ fini a se stesse, ma che frattanto si dimenticano per strada ciò che più conta in musica: il feeling. E la title track appare davvero emblematica di questo vano sforzo di raggiungere vette ancora fuori portata, appoggiandosi a modelli ben noti, imbellettati, travestiti ma ancora riconoscibili, ormai quasi grotteschi, depredati del loro proprio fascino. Una mascherata vivace e appariscente che vuole colpire e sorprendere, e in questo può anche riuscire, ma che nasconde in realtà una preoccupante mancanza di effettivi contenuti.
Non basta usare violenza al rock progressivo che fu, diluendolo nel thrash martellante e noioso di Voyage of No Brain Discovery o nel furore ritmico della pur salvabile The Anti-Depressive Delivery (a conti fatti una delle migliori tracce del lotto) per guadagnarsi l’apprezzamento – e le banconote – del pubblico. Implacabile, tra suoni di tastiera al limite dello sgradevole e un cantato mediocre che non regge neanche per un attimo il confronto con la ottima, diciamolo e ripetiamolo, preparazione tecnica ostentata dal comparto strumentale, il senso di inconcludenza va fortificandosi di brano in brano. Almeno, quando giunge il temuto momento della puntualissima suite finale, dopo tanti colpi di scena forzati ecco la prima sorpresa piacevole della giornata. Colti da un improvviso senso di colpa verso il finora bistrattato prog degli anni ’70, gli scandinavi provano infatti a farsi perdonare con una composizione che si colloca docilmente nella gloriosa tradizione iniziata da Emerson Lake&Palmer, Genesis, King Crimson, Rush, Yes e parenti. Ed ecco allora Bones&Money, un brano vario e davvero piacevole, con un chorus finalmente degno di questo nome. Tutto “già sentito”, è vero: ma quanto suona meglio, rispetto alla sedicente innovazione che lo ha preceduto!

Di pezza in pezza, basta una visione d’insieme pare cogliere l’immagine di un confusionario arlecchino di stili, troppo carnevalesco per esser preso sul serio, troppo serio per strappare più d’un sorriso. E’ un vero peccato che strumentisti tanto dotati abbiano finito per mettersi al servizio di idee, per parlar chiaro, tanto inconcludenti. Se non altro gli sprazzi di buon gusto musicale, pur rari, lasciano intravedere potenzialità concrete che fanno ben sperare per il futuro. Forse, di primo acchito, gli amanti delle novità potrebbero rimanere favorevolmente colpiti dall’illusoria carica eversiva del combo scandinavo, ma a un esame più attento quel che in un primo momento era parso un album interessante rivelerà immancabilmente una pochezza di fondo che difficilmente lo lascerà sopravvivere per più di un paio di settimane anche nello stereo meglio disposto. Attenzione dunque a non scambiare per genio creatore un collage anonimo e poco ispirato come questo. Per oggi, insomma, meglio lasciar perdere. Domani, chissà, forse questi ambiziosi ragazzi sapranno indirizzare il proprio indiscutibile talento verso strade più fruttuose. Speriamo bene.

Tracklist:
1. End of Days (5:18)
2. Coward (5:08)
3. Voyage of No Brain Discovery (5:21)
4. Path of Sorrow (4:30)
5. Penny Is a Slut Machine (5:19)
6. Feel. Melt. Release. Escape. (6:02)
7. 0 (5:16)
8. The Anti-Depressive Delivery (7:17)
9. Bones&Money (15:22)

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