Recensione: First World Breakdown
Tra paragoni e definizioni, attorno al nome Dying Gorgeous Lies è stato detto di tutto e di più. Chi li ha avvicinati agli Arch Enemy, chi ai connazionali Holy Moses, chi li ha inseriti tra i più interessanti newcomer in ambito thrash metal con voce femminile. Tutto questo vociare attorno alla band capitanata dall’avvenente Lisa Minet, ha permesso al combo di Kulmbach d’attirare le attenzioni della Massacre Records che ha così curato l’uscita del secondo e nuovo lavoro della band tedesca. Una domanda è però d’obbligo: tutte queste attenzioni attorno ai Dying Gorgeous Lies sono meritate o sono più semplicemente legate al fascino posseduto dalla rossa singer? Un pensiero che involontariamente affiora ogni qualvolta m’imbatto in una nuova metal band con voce femminile. Il confine tra una formazione di valore ed una mossa meramente commerciale – puntando tutto sull’immagine – è così sottile che il quesito risulta più che lecito. Gli esempi in negativo parlano chiaro. E’ quindi con un misto tra curiosità e scetticismo che mi appresto all’ascolto di questo First World Breakdown.
Pigiando il tasto play ed immergendoci nell’ascolto del disco, possiamo finalmente rispondere a più di qualche domanda legata al nome Dying Gorgeous Lies. Ci troviamo al cospetto dei nuovi Arch Enemy? La risposta è no. Sono forse gli eredi degli Holy Moses? Non direi. Sono almeno una tra le più interessanti nuove uscite in ambito thrash con voce femminile? Oddio, forse è meglio fare chiarezza… Più che thrash metal, i Dying Gorgeous Lies propongono un heavy metal dalle influenze thrashy. Fanno capolino influenze riconducibili al Bay Area sound ma anche alcuni elementi propri della scuola tedesca. Troviamo inoltre alcuni riff di chiara matrice Iced Earth – Riot Call ne è un esempio -, anche se il paragone più calzante risulta essere quello degli Huntress del disco di debutto. Va detto però che il songwriting della band di Kulmbach non risulta ugualmente convincente ed in più di qualche frangente si rivela piatto e scontato. Le canzoni ruotano attorno alle due chitarre di Marcel Volkel e Bernd Stubinger, capaci di tracciare interessanti melodie che però – nel proseguo di ogni singola traccia a causa di una certa ripetitività di fondo – non riescono a conquistare dall’inizio alla fine. Una ripetitività e mancanza di dinamica che risultano dovute in particolare ad un drumming tutt’altro che ispirato ed una prestazione vocale tutt’altro che memorabile. Lisa Minet, nel tentativo di rievocare la malefica ed abrasiva voce della connazionale Sabina Classen, mette in mostra una voce grezza e forzata incapace di conquistare l’ascoltatore. Le stesse linee vocali risultano abbastanza piatte ed i ritornelli non riescono ad emozionare. First World Breakdown, ascoltato nella sua interezza, lascia poco di sé. Un disco che presenta qualche spunto interessante ma a cui non viene data continuità. Le canzoni migliori le troviamo verso la parte finale dell’album, la già citata Riot Call, No. 759 e la conclusiva United, mettono in mostra il lato migliore dei Dying Gorgeous Lies grazie al lavoro delle chitarre che riescono, in queste tracce, a tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore in ogni singola parte, sia nel riffing che nelle melodie così come nella solistica. Allo stesso tempo però, sebbene siano i capitoli migliori del disco, risultano avere il freno a mano tirato a causa di un drumming ed una prestazione vocale piatta.
Da questa analisi è facile intuire come First World Breakdown risulti un disco insufficiente, realizzato da una band che deve (e può) migliorare sotto molti aspetti. Quindi, tornando al ragionamento fatto all’inizio di queste righe, risulterebbe scontato dire che le attenzioni ricevute dai Dying Gorgeous Lies siano dovute soprattutto al fascino della singer Lisa Minet più che alle reali capacità della band. Pensare questo sarebbe però un errore. Sì, perché i Dying Gorgeous Lies sono una band con le idee chiare, sanno cosa vogliono suonare ed in quale direzione andare. Sono una band che suona con passione ed entusiasmo e non una band che gioca sull’immagine della propria cantante, caratteristiche che si possono facilmente riscontrare durante l’ascolto dell’album. Il problema è che il quintetto tedesco, al momento, presenta alcuni limiti di songwriting che non permettono a Lisa Minet e soci di lasciare il segno sull’ascoltatore. In anni in cui la concorrenza è spietata e riuscire ad emergere dal calderone dell’underground risulta sempre più difficile, non bastano pubblicare album caratterizzati da una buona produzione e tanta passione, è necessario quel qualcosa in più che al momento manca al quintetto tedesco. La gavetta che la band sta portando avanti in sede live, in particolare condividendo il palco con alcuni nomi altisonanti dell’olimpo del metal, può sicuramente aiutare i Dying Gorgeous Lies a maturare, a trasporre in musica con la corretta carica quella passione che la band dimostra di possedere. Purtroppo, al momento, il quintetto tedesco non convince.
Marco Donè