Recensione: Forever Autumn

Di Tiziano Marasco - 27 Agosto 2012 - 0:00
Forever Autumn
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Anno: 1999
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81

Questo disco avrebbe meritato di uscire in vinile. Sono pochi gli album metal degni di un simile onore: “Morningrise”, “Angels Fall First”, “The Cry of Mankind”, dischi così. Dischi che già al momento della pubblicazione avevano un’anima vintage o erano permeati da un’atmosfera decadente. “Forever Autumn”, nel suo essere gotico ed essere uscito molto prima che il gothic si riducesse a mera riproposizione di cliché, unisce queste due qualità. Dotato di una malinconia ben oltre i limiti del lacrimevole, degno parto per una band dall’espressivo monicker Lake of Tears, “Forever Autumn” si rivela una delle cose migliori prodotte dal quartetto svedese, pur non avendo l’inventiva di “Moons and Mushrooms”, pur essendo più manierista del predecessore “A Crimson Cosmos”.

Forse un po’ stucchevole, forse kitsch, forse lacunoso per diversi aspetti, poco importa. Il quarto nato di casa Lake of Tears è dotato di un’anima molto ben definita. A distanza di quindici anni il lavoro degli svedesi risulta affascinante proprio per il suo essere privo delle magniloquenti produzioni del gothic metal anni 2000, risultando per questo assai più genuino e sincero. Composto di nove canzoni estremamente semplici ed efficaci, ancora oggi conquista al primo ascolto e, più passa il tempo, più va fuori moda, più diventa affascinante e pittoresco.

Si comincia con “So Fell Autumn Rain”, ormai autentico superclassico della band. Un violoncello accenna la melodia portante della song, pochi tocchi di piano conducono all’ingresso della band con le sue chitarre lente e pesanti, la voce grezza di Daniel Brennare e, soprattutto, la base di tastiere che, se ascoltata oggi, appare quasi infantile nella sua povertà. Fin dalle prime battute, insomma, si capisce che la semplicità e le atmosfere decadenti sono la forza di questo disco, dato che “So Fell Autumn Rain” è una canzone che entra magicamente in testa pur essendo priva di un vero e proprio ritornello. Il brano, poi, scema dolcemente e sulle ultime note, quasi ne fosse una continuazione, si inserisce maestosa “Hold On Tight”, laddove tastiere sinfoniche e drammatiche spadroneggiano, prendendo decisamente il sopravvento sulle sei corde. I ritmi calano, e caleranno ancora nella terza traccia, la title track, vero e proprio lamento, ballata spoglia e dimessa per chitarra (rigorosamente acustica) e voce. Pezzo talmente scarno da risultare micidiale ed indimenticabile.

Si noterà che, in questo primo quarto d’ora, nonostante il carattere inconfondibilmente metal del disco, le ritmiche strascicano lente e pesanti, tanto che il quarto brano, “Pagan Wish”, emerge dalle nebbie novembrine come un fulmine a ciel sereno. Tornano in pista chitarre massicce e sonorità grezze, molto più heavy oriented, ma si tratta di un episodio isolato nel disco. Tanto da sembrare un po’ fuori posto, anche perché in pesantissimo contrasto sia con la song precedente che con la seguente: “Otherwheres”, vale a dire l’episodio più tranquillo del lotto. Si tratta di una splendida strumentale, magistralmente costruita attorno ad una semplice melodia di piano che cresce a poco a poco con il progressivo innesto dell’immancabile chitarra acustica, di percussioni fruscianti ed archi rugiadosi. Si giunge così a “The Homecoming” (ritorno a casa inteso come morte), per la quale valgono tutti i discorsi fatti sinora. Un’altra ballata dolceamara, modellata su arpeggi lenti e semplici, estremamente equilibrata e dotata di un ritornello davvero fantastico, probabilmente l’episodio meglio riuscito assieme a “So Fell Autumn Rain”. I ritmi si risollevano un po’ nella settima traccia, la breve “Come Night I Rain”, in cui ritornano le chitarre elettriche e la voce rauca in odore di gothic finnico, non fosse che i Sentenced avrebbero composto “Crimson” l’anno successivo. Si arriva così ad un altro pezzo interessante, “Demon You / Lily Ann”, in cui la tessitura di chitarre si fa ancora più serrata e rivela una struttura trasformista molto simile a quella che lega le prime due canzoni. Si intuisce qui una certa sottocultura prog che ai Lake of Tears, da buoni svedesi, sicuramente non mancava. A chiudere troviamo un altro classico della band, “To Blossom Blue”, ennesima ballatona, in cui si fonde la tristezza della title track alla ricchezza sonora di “The Homecoming”; incredibile ma vero, si sviluppa per ben otto minuti su un singolo giro di chitarra senza risultare pesante o noiosa, per cedere il passo, nei secondi finali, alle stesse note che avevano introdotto il disco.

Uscito nel 1999, “Forever Autumn” rappresenta la quintessenza del gothic melodico di vecchia scuola, se non uno dei capostipiti di questo genere. Dev’essere finito nelle orecchie di molti: gente come Ville Valo e Ville Laihala o come le miriadi di darkettoni che nel decennio successivo hanno tentato di farsi passare per i Nick Cave del metal. E deve aver salvato la vita a non pochi diabetici. Non è un capolavoro immortale né diventerà patrimonio dell’umanità, ma alle volte è bellissimo rispolverarlo e naufragarvi.

Formazione:
Daniel Brennare — Voce – chitarra
Mikael Larsson — basso
Johan Oudhuis — batteria
Christian Saarinen — tastiera

Guest:
Bo Hulphers — flauto, accordion
Henriette Schack — violoncello
Magnus Sahlgren — chitarra

Tracklist:
01 So Fell Autumn Rain – 5:22
02 Hold on Tight – 4:06
03 Forever Autumn – 5:56
04 Pagan Wish – 4:23
05 Otherwheres – 3:55
06 The Homecoming – 5:16
07 Come Night I Reign – 3:51
08 Demon You / Lily Anne – 4:21
09 To Blossom Blue – 8:15

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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