Recensione: From The Depths Of Darkness

Di Alessandro Cuoghi - 9 Dicembre 2011 - 0:00
From The Depths Of Darkness
Band: Burzum
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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60

Il tempo passa ed il caro vecchio conte torna a farsi vivo, più solido che mai e deciso a riempire l’abisso musicale scavato negli anni della reclusione. Dopo i fasti di “Belus” e la placida consolidazione col buon “Fallen“, quello che ci troviamo fra le mani è infatti il terzo lavoro post-scarcerazione partorito dall’implacabile  genio metallico norvegese. Uscito a nemmeno un anno di distanza dal precedente lavoro, “From The Depths Of Dakness” (d’ora in poi “FTDOD“) si manifesta come una riproposizione ferale cristallina dei brani migliori tratti dallo storico debut album “Burzum” e dal successivo “Det Some En Gang Var” (del quale la copertina del disco è un chiaro richiamo), riregistrati per l’occasione in chiave maggiormente moderna ed arricchiti da nuovi arrangiamenti. Secondo le dichiarazioni dell’artista stesso l’operazione è stata messa in piedi al fine di poter conferire alle canzoni lo spirito e la qualità che egli desiderava durante le registrazioni originali, ma che per motivi economici (e tecnici) non era stato in grado di raggiungere.

Giunti a questo punto molti di voi avranno già storto il naso pensando alla solita trovata commerciale, sussurrando fra i denti: “ma quand’è che va in pensione?” e magari scorso la presente recensione fino alla fatidica valutazione numerica. A priori lo scritto potrebbe infatti terminare qua, con una bella insufficienza secca per “spietata e recidiva operazione commerciale a spese dei fan”. Tuttavia la strada più semplice, quantomeno nella valutazione musicale, risulta spesso errata. Credo quindi che per inquadrare al meglio il lavoro sia necessario armarsi di pazienza, liberarsi dei preconcetti e magari fare un salto da Doc Brown (sì, proprio quello di ritorno al futuro) per chiedergli in prestito la mitica DeLorean.
Pronti? Bene, con animo curioso possiamo partire verso l’anno 1988, destinazione Bergen (Norvegia).

Ritorno al Futuro parte I: i primordi

Giunti alla meta iniziamo a vagolare per le fredde strade dei sobborgi fino a quando incrociamo un baldo giovanotto sulla quindicina, dice di chiamarsi Kristian Larssøn Vikernes, appassionato di giochi di ruolo e mitologia scandinava, alle prese con la sua prima band, i Kalasnikov. Dopo aver fatto quattro chiacchiere riguardo agli scritti di Tolkien, per lui pieni di hobbit noiosi, nani capitalisti ed eroici orchi, e sui primordiali vagiti del metal estremo in Europa, capiamo che la nostra indagine potrebbe risultare nettamente più esaustiva se ci spostassimo in avanti di qualche anno. Decidiamo quindi accommiatarci,  saltare in sella alla nostra fida DeLorean e partire verso il 1992, anno di uscita del seminale self-titled album “Burzum”, dal quale provengono la maggior parte dei brani contenuti nella compilation in questione.
Allacciamo quindi le cinture e ripartiamo a tutto gas verso la prossima destinazione.

Ritorno al Futuro parte II: la consacrazione

Le fiamme lasciate sull’asfalto dal salto temporale devono ancora estinguersi quando scorgiamo nuovamente il nostro uomo, ormai cresciuto. Questi ci racconta di aver militato per un po’ nel gruppo death metal Old Funeral (fondato al fianco di Olve Eikemo, aka Abbath, che in seguito diverrà leader, assieme a Demonaz Occulta, dei violentissimi Immortal) e, dopo aver posto la parola fine a quell’esperienza, di avere creato una sua personale one man band,  il progetto Burzum, dove potere esprimere appieno la propria creatività occupandosi dell’esecuzione di ogni parte strumentale e vocale. Veniamo a sapere, tra l’altro, che il ragazzo ha appena dato alle stampe il debutto sulla lunga distanza, co-prodotto per l’occasione dal chitarrista, produttore e malefico capo carismatico Øystein Aarseth, aka Euronymous e che, nonostante i pochi fondi a disposizione, è già al lavoro su un LP, “Aske”, e sul full lenght successivo, che sarà intitolato “Det Som En Gang Var”.
Capendo di essere giunti finalmente alla meta, decidiamo di approfondire la conoscenza dell’ambiente e delle scelte che porteranno l’artista, a quasi vent’anni di distanza, a riproporre brani appartenenti al proprio periodo migliore.
Varg ci racconta che la scena black metal è ormai un movimento consolidato e che il famoso Inner Circle assieme al suo fondatore, il succitato Euronymous, sono divenuti un’istituzione giovanile del quale fa fieramente parte. Da come ne parla sembra inoltre che ogni ragazzo norvegese abbia fondato il proprio gruppo black metal; tra queste nuove realtà spiccano tra l’altro i maligni moniker di Emperor, Dissection e Darkthrone. In breve tempo la conversazione verte sulla situazione generale norvegese e sul crescente odio per il cristianesimo, colpevole a suo avviso della morte delle antiche tradizioni nordiche. A tal proposito egli manifesta il forte desiderio di ricreare attraverso la propria musica le atmosfere proprie di tali arcaiche leggende e di avere parecchie idee su come raggiungere il proprio obiettivo.  Alla domanda di come possa pensare di produrre in modo così prolifico con così pochi fondi a disposizione egli risponde che nella musica gli aspetti fondamentali sono la passione, le idee ed i sentimenti trasmessi, a prescindere dalla tecnica, dalla produzione e dai mezzi utilizzati.
Ricchi di importanti informazioni, decidiamo che sia ormai giunta l’ora di tonare a casa e soppesare sulla spietata bilancia della critica musicale quello che fu, quello che è e magari quello che sarà in futuro. Salutiamo il ragazzo, consapevoli di cosa succederà fra un annetto ma anche che il passato non si può cambiare, montiamo quindi in sella alla fida DeLorean e partiamo: destinazione Italia, dicembre 2011.

Ritorno al futuro parte III: finalmente a casa

Ritornati alla base siamo però ancora dubbiosi, una domanda continua a risuonare nelle nostre menti: cosa può spingere un affermato musicista, annoverato fra i maggiori esponenti di un genere, a riesumare, ritoccare, plastificare capolavori che hanno fatto e continueranno a fare la storia? Forse un calo d’ispirazione? Necessità finanziarie? O semplicemente la voglia di fare un po’ di soldi facili sulle spalle dei propri fan? Ma allora perché non pubblicare un altro “best of”, magari con un paio di rarità riesumate per l’occasione? Perché faticare? Perché registrare da zero una decina di brani vecchi, riarrangiarne alcune parti, sfigurare nel confronto vocale con sé stesso da giovane? Rischiare di perdere ancora di più la propria credibilità? Potrebbe, allora, essere effettivamente un sano desiderio di migliorare la qualità dei pezzi attraverso mezzi nettamente superiori?
Analizzando a fondo il lavoro, la cura dell’aspetto musicale risulta sin da subito ineccepibile. La produzione è cristallina e Varg dimostra di possedere una tecnica ormai affinata e superiore -soprattutto per quanto riguarda le percussioni- rispetto al passato. Le nuove versioni dei brani risultano dannatamente mature, meno impulsive, oscure ma sentimentalmente più calde. Le imperfezioni relative agli originali sono state ripulite, spazzate via come polvere su un pavimento. I suoni curati, vibranti e potenti risultano analoghi a quelli di “Belus” e le vocals, nonostante siano distanti anni luce da quelle originali, si fondono perfettamente con la musica, risultando gradevoli e calzanti ad ogni passaggio.

Eppure in tutto questo meccanismo sonoro tirato a lucido ed apparentemente armonico manca qualcosa, o meglio,  qualcosa è mutato in modo palpabile.

Mettersi a confrontare i brani vecchi e nuovi nota per nota è un suicidio che solo il più fanatico accolito di Burzum potrebbe permettersi. Meglio allora abbandonarsi ai ricordi, alle sensazioni risvegliate dai primordiali capolavori e confrontare il tutto con quanto il conte ci propone in data odierna. Ascoltare “Burzum” e “Det Som En Gang Var” per poi sciropparsi “FTDOD” è come passare da un gelido inverno, ritagliato dagli scricchiolii di foreste congelate, attraversate soltanto dagli spettri dei viaggiatori e dal ringhiare famelico dei lupi erranti,  ad un tiepido autunno, dove foglie ocra appena staccate dal ramo ricoprono l’oscuro, misterioso sottobosco. E ci terrei a sottolineare “oscuro”, perché, nelle versioni rivisitate l’oscurità permane, tuttavia quello che và perdendosi è il gelo: quel’affascinante ed adrenalinica sensazione che fa accapponare la pelle, rizzare i peli della nuca; quel sentimento che chi ha apprezzato i brani del primo Burzum conosce bene.
Ebbene, eccoci forse giunti al bandolo della matassa: l’estremismo ideologico, musicale, sociale scaturito dalla gioventù, che durante il periodo d’oro del black metal trasudava da ogni poro di chi componeva musica, ora nel conte non è più presente o è quantomeno cambiato.
Non sentiremo più i riff scarni e mortiferi, il drumming forsennato ed impreciso, le urla strazianti che hanno reso celebri brani come l’istintiva “Key To The Gate” o l’agghiacciante “Black Spell Of Destruction“. Anche episodi come “My Journey To The Stars” ed “Ea Lord Of The Depths“, pur mantenendo intatto il proprio alone oscuro, epico ed evocativo, perdono però, al pari di un antico maniero ripulito e ristrutturato, tutto quanto avevano di  atroce nelle versioni originali. Miriadi di chitarre fruscianti sovrapposte creano infatti un muro sonoro che, in quanto a pura qualità,  spazzerebbe via con una sola plettrata i gelidi e scheletrici intarsi musicali delle versioni originali, registrati alla bene e meglio, in poco tempo e con le dita tremanti di un musicista ancora inesperto, ma intrisi d’odio, istinto e disperazione ora come ora irraggiungibili. Anche la psicotica  “Feeble Screams From Forests Unknown“, posta come seconda traccia, risulta così maggiormente “grassa” e pompata, ma proprio per questo meno tagliente e spaventosa dell’originale.

Come accennato sembra però inutile e ridondante dilungarsi ostinatamente sul confronto delle versioni vecchie con quelle rinnovate. Meglio accantonare i facili buonismi che spesso si accompagnano alla valutazione di artisti di fama consolidata ed andare diritti al punto: “FTDOD” è un prodotto del quale probabilmente non scopriremo mai completamente l’obiettivo ed il senso, al massimo potremo intuirne l’idea di base. Quella che puzza lontano un miglio di mera iniziativa commerciale, finanziaria e pubblicitaria si rivela però contemporaneamente una vera e propria operazione di restauro, ad opera dell’artista maturo, di brani scritti e registrati nei primi 90’s mediante mezzi e tecnica a dir poco mediocri. Eccezion fatta per gli (inutili) stacchi inediti, infatti, ogni singola canzone contenuta in questa compilation è stata privata degli aspetti che al giorno d’oggi il conte considera immaturi e farcita fino al midollo con quello che egli si sente di esprimere ora. A rigor del vero il disco scorre bene, senza stancare, è infatti sempre piacevole riascoltare canzoni che hanno fatto la storia e risulta oltremodo interessante osservare come un musicista reinterpreti tracce scritte quasi due decadi fa.  Inoltre la scelta di pubblicare brani riarrangiati appare sicuramente più “onorevole” rispetto a quella di dare alle stampe un semplice “best of”.

A dirla tutta sembra che l’utilità ultima di questo lavoro sia tuttavia da ascrivere principalmente all’artista, il quale ha voluto applicare genuine rifiniture a brani ritenuti potenzialmente migliorabili, agendo come al solito di mestiere e cavalcando la possibilità di un cospicuo guadagno monetario. Chi ha amato “Burzum versione 1.0” non apprezzerà i nuovi upgrade come non ha gradito il percorso stilistico intrapreso a partire da “Belus”; “FTDOD” risulterà al contrario nettamente più interessante per i collezionisti, per i curiosi e soprattutto per chi, avvicinandosi all’artista per la prima volta, potrebbe incappare nella “trappola della compilation” e far suo (nonché sicuramente apprezzare) questo lavoro, perdendosi nondimeno tutto il percorso, dai primi anni 90 fino a oggi, che ha reso celebre il conte.

Per concludere, il famoso detto “probabilmente la verità sta nel mezzo” in questo caso sembra calzare a pennello: infatti non sapremo mai quanto ci sia di genuino in “FTDOD”.  Da qui deriva una sufficienza stiracchiata e sterile, che non rende onore alla caratura dei brani contenuti e all’impegno riversato da Varg Vikernes nell’infondergli nuova vita, ma vuol essere un chiaro indice della utilità altamente opinabile, o quantomeno relativa, di uscite del genere.

Alessandro Cuoghi
 
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Lineup
Varg Vikernes: all instruments, vocals

TRACKLIST
1.  The Coming (Introduction)  
2.  Feeble Screams from Forests Unknown  
3.  Sassu Wunnu (Introduction)
4.  Ea, Lord of the Depths  
5.  Spell of Destruction  
6.  A Lost Forgotten Sad Spirit  
7.  My Journey to the Stars
8.  Call of the Siren (Introduction)  
9.  Key to the Gate 
10.  Turn the Sign of the Microcosm (Snu Mikrokosmos’ Tegn)  
11.  Channeling the Power of Minds into a New God

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