Recensione: Golgotha

Di Matteo Pedretti - 6 Ottobre 2020 - 21:58
Golgotha
Etichetta: Go Down Records
Genere: Sludge 
Anno: 2020
Nazione:
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75

A sei anni dalla pubblicazione di “Gammy”, i Bleeding Eyes si riaffacciano sul panorama underground italiano con “Golghota”.
Il titolo, richiamando l’immagine di un cammino contrassegnato dalla sofferenza e l’idea di un destino ineluttabile, restituisce con tremenda potenza iconografica la proposta musicale e tematica che si sviluppa in questi cinquanta minuti di musica pervasa da un’urgenza comunicativa intrisa di disperazione, disagio, disillusione e rabbia.
Forte di una storia quasi ventennale, di tre precedenti full-length (oltre a un EP e due demo) e di esibizioni al fianco di alcuni tra i pesi massimi della scena sludge (Crowbar, Weedeater, Sourvein, Black Cobra), la formazione trevigiana ha iniziato a lavorare all’album nel 2018 per arrivare lo scorso luglio alla pubblicazione di uno dei capitoli più oscuri della propria discografia.

I brani, per la maggior parte piuttosto lunghi, si sviluppano su strutture quasi prog, caratterizzate da cambi di tempo e stile. Le parti vocali alternano sezioni parlate, volutamente più o meno comprensibili, a growl tirati.
Le liriche, di primaria importanza, sono perlopiù in italiano, ma non mancano un paio di testi in inglese nei pezzi sludge, per i quali l’idioma di Albione si rivela più efficace.
Il riff lento, saturo e downtuned di “In Principio” apre l’album all’insegna di un doom oscuro che, nei dodici minuti della opener, si evolve dapprima in sfuriate sludge per poi sfumare in una sezione psichedelica in cui un parole recitate narrano una versione rivisitata dell’Apocalissi. Lo stesso tema è ripreso nella successiva “Le Chiavi del Pozzo” che, anche dal punto di vista stilistico, è a tutti gli effetti la prosecuzione del pezzo precedente. Lo sludge fangoso di “1418” dimostra come i Bleeding Eyes abbiano appreso appieno la lezione dei maestri di New Orleans (Eyehategod e Crowbar) e come sappiano maneggiarne gli insegnamenti con personalità. “Del Pozzo dell’Abisso” è un interludio strumentale costruito su un dialogo tra una chitarra dal sound psichedelico e un’altra ai limiti del drone.

Il singolo “Confesso” apre la seconda parte di “Golgotha” candidandosi, insieme alla opener, ad esserne tra i pezzi migliori: è un cupissimo heavy psych in cui le parole recitate da Simone Tesser nella sezione iniziale richiamano parallelismi (forse più a livello di mood che non tecnico) con certi
lavori del maestro del dark sound italiano Antonio Bartoccetti; nei nove minuti del brano l’atmosfera si appesantisce con passaggi sludge, doom e post-metal. In “La Verità” la band propone un’alternanza tra momenti di oscura psichedelia e sfuriate stoner/sludge a cui si aggancia un assolo di chitarra melodico il cui effetto è assicurato dal netto contrasto con le sonorità precedenti. “Inferno”, pezzo di chiusura, torna su registri sludge per evolversi in un finale estenuante, la cui pesantezza getta l’ascoltatore in uno stato quasi catatonico.
La produzione sporca, a tratti studiatamente confusa, valorizza la proposta musicale e si rivela adatta alle atmosfere evocate, così come l’artwork di copertina: un’immagine catturata dal fotografo Lorenzo Ferraro subito dopo il passaggio della devastante tempesta Vaia che colpì il Nord Est nel 2018.

Anche dopo ripetuti ascolti “Golgotha” si conferma un album difficile da metabolizzare. Non sono tanto, o non solo, le sonorità a renderlo poco accessibile, quanto gli stati d’animo e il mood da cui l’ascoltatore è sopraffatto: neri e negativi dall’inizio alla fine.
In definitiva siamo di fronte a un lavoro sincero, frutto di una band che freme dalla necessità di esprimersi liberamente, senza preoccuparsi di dover piacere.
In fondo l’arte e anche questo…

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